LETTURE
RAFFAELE VESCERA
      

Il barone contro.

Don Felice e gli altri Signori di San Chirico
tra Borbone e Savoia

 

prefazione di Pino Aprile

 

Milano, Magenes, 2014, pp. 308, € 16,00

    

      


di Sergio D’Amaro

 

L’epopea controcorrente del barone di San Chirico

 

Quando Carlo Levi si fermò ad Eboli (cioè a Grassano, poi ad Aliano), erano passati settant’anni dall’Unità d’Italia. Lo sfacelo materiale e morale stava stampato in quei tuguri contadini e in quelle terre squallide come un formidabile memento. Paradossalmente era stato proprio un torinese come Levi a riscoprire il Mezzogiorno e a fornirgli una diagnosi e una prospettiva di resurrezione, quasi a risarcire in quella sua anche simbolica catabasi una lunga incomprensione e un feroce scetticismo. Il Sud era stato, in realtà, violentato e sottomesso alla logica delle armi più forti, spogliato e defraudato delle sue ricchezze. Si dimenticavano così i passaggi storici e si formava la scuola dei Lombroso (anche lui torinese), addetti a stereotipare il modello meridionale sotto l’etichetta di primitivo e di delinquente.

  

Il nuovo romanzo di Raffaele Vescera, Il barone contro, contiene molti materiali incandescenti per una riflessione sulle ragioni che fecero fermare il Cristo leviano, ritrovando i decenni cruciali che precedettero l’Unità con lo sguardo di don Felice Lombardo, nobile di idee liberali e di vita contraddittoria. Vescera costruisce un intreccio robusto, fondendo storia e invenzione in una lingua capace di cogliere le pieghe più riposte dei personaggi, così come le suggestioni dei paesaggi e degli ambienti. La mano sembra quella dell’autore onnisciente che tutto scruta, guarda, analizza, rivela, ma subito dietro di essa si indovina quella del saggista e del polemista che fermamente accampa le sue interpretazioni e argomenta il suo dissenso.

  

Del resto, chi conosce Vescera (per la sua attività giornalistica e per precedenti opere incentrate sul suo amato Ottocento) non se ne meraviglia più di tanto, anche se nota una più distesa e precisa volontà descrittiva. La narrazione così fluisce densa attraversando la vita del signore di San Chirico e di altri feudi tra Tavoliere e Gargano e incontrando molteplici personaggi che hanno animato la scena politica e sociale tra 1820 e 1860. Il nodo cruciale, come spesso succede, riguarda una questione di eredità e la difesa di un prestigio che hanno permesso al protagonista i gradi di colonnello e una vita alla grande tra le varie attrazioni della Napoli capitale borbonica. C’è molta Foggia e Capitanata nelle pagine del romanzo, e ci sono soprattutto quelle panoramiche struggenti su una terra molto amata e accolta anche nel suo aspetto più stremato e arso con piante e animali assetati di vita e già pregni di morte.

  

L’Unità avrebbe potuto migliorare gli Italiani, farli uscire da quel loro particolarismo, da quella tendenza alla corruzione, da quella peculiare convinzione che identifica l’intelligenza e la competenza con la furbizia, l’inganno, l’istinto manovriero? Non certo l’Unità come fu realizzata, soffocando piuttosto che integrare e accogliere, reprimendo piuttosto che dialogare. Una pagina sembra più eloquente delle altre, allorché Vescera mette in bocca a Ferdinando II di Borbone alcune considerazioni che sembrano sintetizzare una sorta di bilancio consuntivo: flotta mercantile, treno, illuminazione stradale a gas, industrie più grandi d’Italia, i migliori scienziati ecc. erano appannaggio del regno napoletano e sono stati scippati a favore del Nord che s’è impossessato anche del tesoro finanziario detenuto dalla capitale del Sud.

  

La serietà di documentazione e l’accuratezza di scrittura che Vescera ha messo in atto fanno di quest’opera un degno erede dei più accreditati romanzi storici. Don Felice Lombardo, con tutte le sue contraddizioni, diventa il simbolo di un processo storico che avrebbe potuto prendere un’altra direzione. C’è alla fine una sorta di riscatto, se il nipote Carlo sarà accolto proprio a Torino come musicista. Ci sarà, da parte dell’antica capitale sabauda, l’apprezzamento di un talento, di una bravura che i ‘piemontesi’ arrivati qualche decennio prima non avrebbero mai riconosciuto ai ‘terroni’, capaci solo di brigantaggio e di altre braverie. Forse è poco per compensare la fine drammatica di un altro rappresentante della famiglia Lombardo, finito nell’orrenda prigione di Fenestrelle, ma la bilancia dei destini è quasi sempre fortemente asimmetrica.

 

 




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