|
di Ugo Piscopo
Le
(lontanissime) vicinanze di Giovanna Rosadini
L’ultima
raccolta di poesie di Giovanna Rosadini, Il
numero completo dei giorni, con una nota di Davide Brullo, è una non-raccolta
di testi, ma un libro pensato e realizzato con documentazione di testi sulla
possibilità oggi di contattare e auscultare una poematicità di grande dignità,
di densa semanticità e allegoricità e, insieme, di estrema immediatezza. È un
esercizio spirituale e mentale, che accetta la sfida di passare attraverso le
porte strette, se non la cruna dell’ago, della letteratura di alto profilo.
Quella del decoro e del confronto con la lontananza, come direbbe Gian Luigi
Beccaria.
L’impostazione
strutturale è dell’itinerario proprio dei libri di preghiera, su suggerimento,
anzi sotto cogente riverbero del Libro per antonomasia, la Bibbia, o meglio, del Pentateuco, il complesso dei primi,
fondativi cinque libri (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio)
detti in ebraico Torah (la Legge). Significativo è che
il titolo citi espressamente la parola chiave, che è nel titolo del penultimo
libro dei cinque, e significativo è il marcare la scansione delle stazioni
dell’itinerario con prelievi dal Pentateuco:
Bereshith, Nòach, Lech-Lechà, Va-Jerà, Chajjè Sarà, Toledòth, Va-Jetzè, Va-Ishlàch, Va-Jèshev.
Questi sono solo i titoli riportati dal Genesi.
Seguono, quindi, gli altri ricavati dagli altri quattro libri.
Ciò è di
avvertimento, se non di ammonimento anche nei confronti del lettore laico, a
seguire il percorso non con disinvoltura o con la fretta del turista di massa,
ma con la consapevolezza dei viaggiatori che sanno di doversi confrontare,
nella ricezione, con una figuralità storicizzata, ramificata nel tempo e
rivissuta in maniera attualizzante da parte di chi ha osato scrivere, cioè
rappresentare. E bisogna sottolineare quest’ultimo termine, rappresentare, perché il libro della
Rosadini è sì un libro costituito innanzitutto e fondamentalmente sulla cifra
della scrittura, che però si apre tanto alla verbalità, quanto alla visualità,
tanto al detto, quanto al non detto, che talora è più agonico di quello che è
nominato esplicitamente.
Questa
figuralità si articola e si coniuga per icone, proprie della cultura biblica.
Centrale in esse è l’icona dell’esilio, cioè della lontananza dal luogo di
origine, e dell’esposizione alla vita su spiagge aride e pietrose, da
predeserto, in sofferenza solidale con l’intera umanità, tutta discendente da
una comune origine e tutta segnata dall’esperienza straniante del distacco e
del sacrificio di riparazione, senza pregiudiziali certezze di un esito
positivo. Su tutti circola un’aura di malinconia e di trepidazione, se non anche
di tremore, di fronte a una realtà avvolgente e stupefacente, a double face,
quella della provvisorietà e della rudezza senza sconti, e quella
dell’enigmaticità e dell’allusione ad altro e all’altrove. La corporeità in
tutta la sua rudezza e immediatezza e l’istintività, come appunto sempre nelle
narrazioni bibliche, diventano opportunità preziosissime e inestimabili nella
relazionalità col mondo e fanno da collante realistico. Si conferma, così, per
testimonianza in diretta, più che per informazione di letture, la tesi
ineccepibile sostenuta da Eric Auerbach in Mimesis
sull’origine del realismo in Occidente connessa agli effetti di ricaduta della
conoscenza e della metabolizzazione degli insegnamenti della Bibbia.
Ma tutto questo
apparato concettuale e figurale non si pone in essere per sé stesso: in
Rosadini fa da terreno di germinazione e di legittimazione di una poiesi dagli
umanissimi accenti comunicativi, di rispecchiamento dell’autenticità e
dell’imprevedibilità dell’esistenza, di rinvio a una totalità e una coralità
che sorgono e si allargano in precisi tempi e luoghi. Per tale via, la parola
si riscatta nella sua fragilità e volatilità, per funzionare da tracciato
insostituibile di rivelazione degli smarrimenti e dei coraggiosi gesti di
accettazione dell’esistente, di partecipazione a una vicenda universale sempre
nuova e, insieme, sempre identica, puntualmente plasmata e proposta dal
Medesimo. Ed entro questo giro di proposizioni e di riproposizioni si lascia
intravedere in controluce non questo o quell’aspetto, non questo o quel
dettaglio, ma la verità che quotidianamente ci sta di fronte e che noi
stentiamo a riconoscere, forse per autorizzarci a fuggire e ad andare per
digressioni. Per poi tornare al punto di partenza, e ritrovarci reduci, perché
così ci piacciamo di più.
Questa defaticante,
tormentata esperienza, che è di tutti e che Rosadini verifica innanzitutto su
sé stessa come in corpore vili, non è
osservata per scenari generali o per assunzioni definitive, ma diventa in Il numero completo dei giorni il filo
rosso a cui tenersi per non smarrirsi nelle lande dell’inesistenza e
dell’irrealtà, un filo da far vibrare per intermittenze e pause addensate di
silenzio, per interrogazioni veloci appena accennate, per allusioni di garbo e
di eleganza, per echi e risonanze in fuga, dove la poesia si riconferma sempre
nuova e sempre sé stessa, come in questi versi di Natura morta (p. 139):
“Ricominciare da
questa distanza,
dal fumo che dilegua nello spazio
nudo dove tutto è
rimbombo, suono
rimbalzato
all’infinito; qui abiterà
una più fredda
calma, la scansione
riflessa degli oggetti, la fragile
precarietà delle
forme, nei colori
pensati col buio.
Lo sbieco della luce
farà il resto,
risalire le superfici crude,
le animerà di
tepori, sfumature, volumi.
E ogni cosa
sembrerà essere”.
Scarica in formato pdf
|
|