INTERVISTE
MARIO LUZI
“La poesia
è un ultimo grado
di coscienza
e di resistenza
da parte dell’uomo”


  
Pubblichiamo una conversazione rimasta inedita con l’importante poeta fiorentino, morto nel 2005 a novant’anni. È un colloquio imperniato sul tema del rapporto tra cultura e politica e del sostegno pubblico alle attività culturali che in Italia è pressocché assente rispetto agli altri paesi europei. Ma le riflessioni dell’autore di “Al fuoco della controversia” spaziano sullo stato della letteratura e delle scienze alla fine del Novecento, sul produttivismo insinuatosi in ogni piega della vita quotidiana e su Dante e Leopardi come personali maestri, stelle fisse di riferimento nel dialogo continuo tra la scrittura e la realtà.
  



  

di Alberto Scarponi

 

 

Che cosa fa lo Stato italiano per sostenere la cultura (questo è il tema). Perché‚ in quello che fa o non fa si può leggere un concetto di cultura: per esempio che la cultura sarebbe uno stru­mento, qualcosa che può anche essere disprezzato...

 

... un instrumentum regni. Anche se oggi non c’è nessun regno, è tutta una repubblica...

 

… ma la politica ha sempre un regno.

 

Sì, come vizio della mente per il politico la cultura è questo, è qualcosa di strumentale. Ma voglio parlare auto­biograficamente. Io ho cominciato a riflettere sul rap­porto politica-cultura quando, andando all’estero, mi sono accorto che questo rapporto esiste, nel senso che, sebbene sia nei fatti molto difettivo, è però necessario. Io non avevo mai pensato alla cultura in termini, diciamo così, politici. Semmai, per me, è stato l’inverso: avevo sempre pensato che gli uomini politici fossero filtri di una cul­tura, che insomma nascessero dentro una cultura, buona o cattiva (e anche da quello potessero essere giudicati), che ci fosse questa reciprocità o comunque questo rap­porto interrelazionale. Io ho cominciato a vedere con gli occhi dell’uomo di cultura che si trova all’estero e crede di poter contare naturalmente sulle istituzioni ad hoc che ci sono in tutti i paesi e che anche noi abbiamo, perché‚ abbiamo gli Istituti di cultura italiani all’estero, e mi sono accorto che questo è invece un deserto. Però un de­serto non del tutto spopolato, ma abitato da gente allo sbando. Quindi quello che rende anche l’immagine della ef­ficienza e della consapevolezza di un paese maturo nel no­stro caso è veramente... inadeguato. Ecco, diciamo così: inadeguato, troppo dequalificato e casuale, salvo qualche lodevolissima opera personale che in genere non risulta gradita alla burocrazia. Facciamo tuttavia qualche eccezione: Parigi, New York...

 

Ma ciò dipende dalle persone, non viene da una poli­tica coordinata, una politica dello Stato italiano.

 

C’è questo, comunque, che il governo ha capito che si tratta di basi importanti e le ha fornite di mezzi. Il re­sto, però, è lasciato lì. In una nazione come la nostra che ha come prima ricchezza e sostanza la cultura... non solo gli oggetti materiali, ma anche le opere dei suoi autori, quello che secondo me doveva essere il primo dei ministeri è lasciato ai margini come «beni cultu­rali»...

 

Perché si pensa solo agli oggetti, alle cose che si ve­dono...

 

 

Sì, ma perfino quelle non è che siano considerate un granché. C’è stato Ronchey che s’è fatto sen­tire, ma nella sostanza tutte queste cose restano margi­nali, mentre dovrebbero essere per noi centrali. Ma pre­scindiamo anche da tali centralità e priorità. Non si è neppure a livello di – come dire – correttezza, di pro­prietà presentabile: siamo molto, molto inadeguati. E questo non è ammissibile. Lo dico in termini di patriottismo ita­liano. La gente al potere si sente custode esclusiva. Loro la fanno da padroni, ma in fin dei conti sono lì provvisoriamente; men­tre la cultura appartiene prima di tutto a quelli che la fanno, a coloro che ne sono i testimoni. E quindi anche della continuità nazionale italiana siamo noi scrittori, sono tutti gli artisti i più gelosi custodi. E quando si vedono queste cose, beh, o uno ha i nervi di gomma oppure deve reagire in un certo modo. Ecco l’origine di tante po­lemiche a cui anch’io mi sono associato. Nel caso di Stoc­colma l’ho fatto in maniera diretta perché ho assistito di­rettamente allo strozzamento di attività molto positive e molto utili per il paese che erano già in corso. Come la casa editrice Italica: una editrice molto piccola, non com­merciale e molto prestigiosa, per cui tutti aspirano ad es­sere presenti in essa, sia gli svedesi e tutti gli scandi­navi (perché si fanno edizioni bilingui), sia gli italiani. Tra l’altro, ha fatto conoscere in quei paesi Guicciardini, Campanella, il teatro popolare italiano, Beccaria, Manzoni e naturalmente i contemporanei, più che altro i poeti, forse perché i libri cercano di non essere troppo volumi­nosi. Allora: qui mi ha colpito questo modo di concepire la cultura come puro strumento...

 

... come strumento politico.

 

... più che strumento di politica, di politicanza: fosse politica, ancora...

 

... avrebbe qualcosa di nobile.

 

... si potrebbe ancora capire: è una linea, condivisibile o no, ma invece questo degrado!

 

Se poi lo paragoniamo con quanto fanno altri.

 

Io ho rapporti frequenti con la Francia. E questo con­fronto mi umiliava, m’indispettiva veramente. Vedere come i francesi agiscono in questo campo, che cosa è per loro la cultura, come è capitale. Anzi finiscono anche per gonfiare un po’ le cose: ma questo vuol dire che sono attenti. Basta vedere l’attività dei loro istituti in Italia: non solo a Roma, anche a Firenze e altrove...

 

Non solo i francesi, ma anche i tedeschi, gli spagnoli, gli americani...

 

Insomma, molti, giustamente, fanno questa politica di espansione e di incontro culturale...

 

Come politica di sostegno alla cultura viene in mente quella tedesca...

 

... che finanzia questi istituti specializzati... Ce n’è uno d’arte a Firenze di livello altissimo, un punto di ri­ferimento necessario...

 

... oppure l’accademia di Villa Massimo a Roma, dove ogni anno viene ospitato un certo numero di giovani scrittori e artisti affinché facciano, per dodici mesi, questa espe­rienza culturale e questo incontro. Il che è anche un modo intelligente d’espandere la propria arte. Ora, tutto que­sto noi possiamo addebitarlo soltanto al piccolo formato della poli­tica italiana?

 

Io credo che sia la classe incolta che ci ha gover­nato... sempre... e quello che avrebbe dovuto essere il vessillo della nostra presenza è diventato invece un cen­cio, uno straccio. Ciò è veramente umiliante.





Mario Luzi


E la situazione italiana attuale?

 

Regna una visione provinciale e di piccolo cabotaggio, persino elettoralistico. Non abbiamo mai avuto un governo che si investisse della responsabilità di rappresentare in ogni aspetto tutta la nazione con tutte le sue energie, le sue contraddizioni, e tutta la sua storia. Prima c’è stato il vuoto della retorica fascista, poi, molto più a lungo, il vuoto nulla.

 

Una delle giustificazioni, anzi la giustificazione prima e forse unica di questo disinteresse del governo per la cultura, col conseguente abbandono di quest’ultima alle mene personali o clientelistiche, è appunto stata la vo­lontà di difenderla dall’atteggiamento dirigistico del fa­scismo. Per tale motivo ci si sarebbe astenuti dal far intervenire la politica nelle cose dell’arte.

 

Questo mi trova d’accordo. Ma non si tratta di mettere la politica nella cultura. Il fatto è che il sostegno avve­duto e dovuto alla cultura ha aspetti di vita nazionale che devono essere rappresentati. Qui non c’entra il far poli­tica nella cultura, qui è lo Stato che adempie il suo uffi­cio. Quando ciò non avviene, è allora che le istituzioni, che pure esistono, sono in realtà lasciate ai maneggi dei politicanti, non esistendo una politica che assegni loro una missione culturale in Italia e all’estero.

 

Paradossalmente, è la mancanza d’una buona elaborazione politica che consegna la cultura ai politicanti.

 

Quanto al fascismo, sì, il suo miserabile trionfalismo non merita certo di essere ereditato. Tuttavia, se esso ha fatto cose che dovevano oggettivamente essere fatte e che ancora servono, quelle cose non è che debbano per forza essere di­strutte in quanto fasciste. Al più si tratterà d’ammoder­narle e di adattarle alle esigenze nuove: a esigenze non totalitarie, ma di libertà.

 

Sta proponendo un rapporto non schematico, ma vivo e, per così dire, accorto col passato.

 

Sì. Prendiamo l’Italia ottocentesca: alle sue origini, lo Stato italiano era in un certo modo più vicino alla cul­tura, perché i politici erano anch’essi intrisi di cultura risorgimentale.

 

Si erano formati entro un dibattito culturale.

 

Appunto, nascevano da un dibattito. E loro hanno fatto, bonariamente, per esempio la Società Dante Alighieri: che è stata la nostra massima presenza culturale all’estero. Pure questa non è sempre andata a finir bene, però nella so­stanza una fedeltà alle sue origini c’è, sebbene modesta. Ebbene, questa famosa Italietta mi commuove: ebbe una pensata molto bella, quella di fondare o favorire la nascita di centri d’interesse, di scuole. Poi, certo, il modo dimesso in cui vengono gestiti tali centri oggi (tal­volta sono addirittura abbandonati) ne fa un reparto sca­duto; ma ciò nonostante, si tratta di qualcosa di pulito. In ogni caso, volevo dire che l’Italia risorgimentale si muo­veva bene.

 

Lo Stato italiano ottocentesco... 

 

Lo Stato italiano ancora risorgimentale, quello degli inizi, ancora desanctisiano, aveva questo spirito e pensò a questa rete di collegamento col mondo. Con le vedute d’allora...

 

Le vedute d’allora avevano dietro di sé un progetto, quello di costruire la coscienza nazionale. A tale fine si trovavano le istituzioni che allora si riteneva fossero giuste: la Società Dante Alighieri oppure le Delegazioni di storia patria. Que­ste istituzioni sono ormai esangui sia all’esterno che all’interno.

 

Non le hanno mai rinsanguate adeguatamente.

 

Ciò è accaduto perché...

 

... non c’è più senso dello Stato...

 

... non c’è più un progetto. In altre parole, non si sa dove l’Italia debba andare. Forse l’unico progetto esi­stente è oggi quello dell’industria culturale che apre la cultura al mercato, ma semplicemente coi criteri del mer­cato.

 

Questa però è o sarebbe una resa dello Stato. Le istitu­zioni di cui stiamo parlando dovrebbero infatti servire a mediare. Ci può essere un interesse privato, soggettivo, non so, di un editore, di un istituto di ricerca privato, per esempio, a produrre una certa conoscenza. Allora sarebbe com­pito dell’istituzione statale far prevalere su simili pro­getti il contesto oggettivo...

 

... magari collegati a un disegno di costruzione della coscienza comune.

 

In fondo dovrebbe colare per le vene delle persone pre­poste a tali istituzioni il gusto di farlo. Non credo che i funzionari francesi (e parlo di loro perché sono certamente i più abili e coerenti in questo campo), non credo che rice­vano una particolare formazione per svolgere simile compito. Ritengo che le loro azioni siano semplicemente dettate dal senso dello Stato che le guida.

 

Non crede che ci sia ormai una sorta di complesso di in­feriorità nella interpretazione che i politici danno della nostra cultura?

 

C’è un complesso d’inferiorità giustificatissimo, anzi più che di un complesso si tratta di un riscontro oggettivo di inferiorità, ma nella proposizione, nell’offerta, nella disponibilità. Non ci dovrebbe essere nelle persone di cul­tura che sono consce della cultura italiana, la quale non è in stato di soggezione di fronte a nessun’altra. Ma la levatura dei nostri politici fa che questi credano che le cose stiano effettivamente così e si comportino di conse­guenza.

 

Ora, guardando le cose dal punto di vista delle persone di cultura (e slittando in qualche modo su un discorso pa­rallelo), come valutare la situazione italiana oggi, in specie per quanto riguarda la letteratura?

 

Nel complesso, se noi guardiamo alle scienze, mi sembra che il quadro generale sia abbastanza vivo. Non è un mo­mento creativo in Europa, direi, non c’è una stagione parti­colarmente feconda. Molto viene dall’America, ma in tutti i campi noi abbiamo delle personalità e anche degli istituti che funzionano (nella storiografia, nella filosofia, nella fisica, nell’ottica, nella medicina). Qui è vero che l’azione carente dello Stato ha fatto pagare molti scotti alla nostra ricerca, ma in sostanza essa riceve il rispetto che si merita. Quanto alla cultura letteraria, secondo me, come dicevo, viviamo un periodo non buono dalla fine della seconda guerra mondiale: d’allora l’invenzione in questo campo è un po’ debole in tutta l’Europa. Pensiamo invece all’America latina, per esempio, e anche all’America del nord.

 

Lei ritiene che si tratti semplicemente di una stagione transitoria oppure c’è qualche cosa di specifico che osta­cola la cultura letteraria in Europa.

 

Mah, possiamo dire che la temperie anche intellettiva europea si è sfibrata di fronte ai paradossi, ai mostri della sua storia. In fondo c’è stato un tale contraccolpo di déception, di disinganno, che anche lo slancio inventivo ne ha risentito. E poi bisogna capire che era stata estre­mamente feconda la prima stagione del novecento, quella che va dal realismo, dal simbolismo fino alla seconda guerra mondiale, col futurismo, l’espressionismo, il surrealismo; per cui la mente europea si è trovata scarica. Di questo bisogna tenere conto.





Bill Viola, Senza titolo, still video image


Si tratta di questo oppure vale la affermazione di Adorno secondo cui, dopo Auschwitz, non si può più fare poesia?

 

Non mi sembra un’affermazione accettabile. È chiaro che, come dicevo, si sono avuti contraccolpi vi­tali, esistenziali, che si sono riflessi in tutti gli aspetti del vivibile, ma non è che non si possa più fare poe­sia... Non si potrà più fare quella poesia, non si potrà più insistere in una visione centrata su valori che si sono perduti, questo sì; ma la voce dell’uomo, del sogno umano, tutto ciò che parla delle aspettative o del ritardo anche, del dolore, questo non potrà tacere. E in effetti si sono trovate varie forme per farlo, discutibili forse, ma si è continuato a lavorare, se vogliamo magari in modo dispersivo; ma questa condizione si è espressa.  

 

Allora possiamo tornare all’altra spiegazione.

 

In Italia non è una grande stagione culturale. Questa non è paragonabile alla cultura dei primi cinquant’anni del Novecento. Vi sono però delle persistenze e delle conquiste anche di spazio, di orizzonte. Ecco, lo sfondo è un po’ sfocato; ma la rile­vanza individuale su questo sfondo ci può essere. Non so, Sciascia, Moravia, che sono morti, poi Volponi, anche lui scomparso.

 

Umberto Eco?

 

Eco può essere indicativo dello stato della cultura let­teraria italiana e non solo italiana, dove prevale la si­stematicità della scienza (di tutte le scienze dell’uomo e della letteratura). Questo affidamento della soggettività creativa a mezzi che la sostituiscono è significativo della fase di storia letteraria in cui ci troviamo.

 

Si può dire che, dopo la seconda guerra mondiale, la let­teratura ha incontrato, nell’Europa occidentale, una so­cietà che non l’accetta più?

 

Sì, è una società che non ci si riconosce. Anche perché è talmente appiattita sui mezzi che usa che non ha neanche voglia di indagare su se stessa e di sapere che cosa è. Le basta sapere che cosa fa.

 

Forse la sovrabbondanza estensiva ma anche intensiva dei mezzi (penso ora ai computer e alle loro possibilità comu­nicative), forse questa molteplicità di mezzi di crescita distrae, porta a fermare l’attenzione più sul fare che sul senso dell’essere. Oppure c’è una strut­tura sociale, una vita quotidiana...

 

Anche la vita quotidiana è dominata da questo produtti­vismo anonimo: tende a scomparire l’impronta personale sulle cose che si fanno. Gli sviluppi dell’informatica fi­nora sono abbastanza dominati dall’uomo, ma la realtà vir­tuale sta diventando sempre meno virtuale e qui c’è una frontiera pericolosa. Qui la letteratura diventa sempre più necessaria, sebbene sia sempre meno amata. La poesia è – come dire – un ultimo grado di coscienza e di resistenza da parte dell’uomo. E qua e là si verificano ancora queste re­sistenze, questi gridi, anche se restano isolati.

 

Qualcuno pensa che i giovani che si isolano, so­prattutto quelli che si automarginalizzano nei centri so­ciali (dove c’è un’autonoma produzione artistica: essi hanno una loro letteratura e soprattutto una loro musica), esprimano questa resistenza. Potrebbero essere questi alcuni dei luoghi da dove partono tali gridi?

 

Sì, i giovani hanno trovato questa forma un po’ consola­toria e un po’ accusatoria che è la musica rock e temo che anch’essa contribuisca a tagliare l’erba sotto i piedi della poesia e della letteratura. Comunque, si tratta di un’espressione dello stato delle cose.

 

Potremmo affrontare il tema del rapporto della letteratura con il potere in termini              biografici. Lei è in qualche modo un erede dell’ermetismo e l’ermetismo ri­solveva il problema distaccandosi dal potere, rifiutandolo.

               

Devo dire che questa attitudine morale è rimasta. È difficile da far capire agli altri, ma è rimasta: come una forma di horror, come un raccapriccio quasi, che non guarda alle va­rie tendenze ma coinvolge tutto. Questa è l’impronta, il suggello che è rimasto, almeno per me, ma credo anche in altri. Per esempio, mi ricordo Carlo Bo quando è stato fatto senatore a vita, ciò che era un po’ una cooptazione nel potere politico. Quante incertezze, perplessità egli ha avuto prima di accettare. Beh, naturalmente anche questa è una deforma­zione: si demonizza il potere fino a sentire come profano e degenerativo tutto quanto viene da lì.

 

Ma questa è la concezione che lei ha trovato davanti a sé‚ da giovane?

 

Questo era lo stato reale della nostra vita d’allora: c’era il fascismo, con tutte le sue conseguenze. Ma si tratta di reazioni che s’imprimono nel codice morale e psi­cologico delle persone. Così io ho sempre evitato... Non è che non abbia mai incontrato ministri o altri... non so, Giovanni Spadolini era mio amico... Ma questo avveniva al di fuori di ogni rapporto reale, tanto più al di fuori di rap­porti di lavoro. Tanto è vero che quando sento dire che per fare questo o quello nel campo della cultura occorre rivol­gersi allo Stato, per dire, o alla Regione (e si tratta pro­babilmente di una mentalità più sana della nostra, una men­talità la quale ritiene che le istituzioni abbiano anche questi doveri, il compito di contribuire a sostenere l’azione culturale), io non capisco bene che cosa occorra chiedere, se una sanzione, se un appoggio. Ecco, io ho sem­pre sentito il potere politico come antagonista.

 

Questo perché la letteratura e la cultura sono un altro potere, un potere diverso?                   

 

Sì, sono un’altra cosa. Come ho cominciato ad amarla io, come ho cercato a mio modo di farla, la letteratura è una sfera di lavoro, di ricerca, che tiene d’occhio tutto quello c’è. Non è che si voglia rinchiudere in sé o coprire gli occhi, ma non può essere mediata da nulla. Non ci deve essere patto di nessun genere.

 

Questo in qualche modo porrebbe la letteratura in antagoni­smo con altri punti di vista.

 

Sì, ma non necessariamente. Possono anche verifi­carsi momenti di consenso tra vari criteri di condotta, dove ci sono. Per esempio la sinistra culturale ha trovato questi momenti di contatto con altri in certe fasi, poi però s’è visto che la stessa sinistra era altrettanto as­servita a un potere che la dominava, piuttosto che essere essa a informarlo. Quindi oggi è entrato in crisi quel rap­porto, il rapporto che poteva aver avuto con essa ad esem­pio Volponi o, prima ancora, Vittorini.

 

La famosa polemica di Vittorini con Togliatti alla fine degli anni quaranta espresse proprio un forte punto di crisi nel rapporto fra intellettuali di sinistra e potere politico, il potere dell’opposizione. Ma in che senso?

 

Nel senso che c’era stato un iniziale malinteso di fondo. Vittorini, allo stesso modo in cui in precedenza si era illuso sul fascismo, ora s’illudeva sulla sinistra. Lui e altri pensarono che in questi movimenti politici po­tesse vedersi l’inizio d’una possibile rigenerazione nei rapporti umani.

 

Davano alla politica un credito eccessivo?

 

Non era questione di politica in quanto tale, ma di dot­trina. Ritenevano che quel pensiero potesse costituire una base per tale rigenerazione. E va detto con onestà che la letteratura non sempre fu in antitesi; ma, poi, i nodi vengono sempre al pettine. L’autonomia e la purezza di ve­dute che la letteratura richiede non puoi appoggiarle a nessuno e a niente. E così, anche certe cose che sembra­vano andare alla fine, nella prassi risultarono impossi­bili. Mi ricordo, a Firenze, Romano Bilen­chi di cui sono stato amico: lui era molto severo, molto impegnato in questo rapporto, e però anche lui alla fine ha dovuto riconoscere... Bilenchi, alla fine degli anni quaranta, entrò con molta consapevolezza nella politica, nel giornalismo politico, e difese davanti al partito, il par­tito comunista, la letteratura dalle tentazioni del reali­smo socialista che proprio allora era in auge. E l’avevano lasciato fare. Poi però il suo senso di giustizia e di libertà s’impennò davanti ai fatti della Germania e più tardi, soprattutto, dell’Ungheria.





Romano Bilenchi


Siamo nel 1953; e, per l’Ungheria, nel 1956.

 

Sì, infatti. Così dovette lasciare. Anche lui, in­fine, dovette riconoscere che non c’era possibilità di co­niugare il politico con il letterario.

 

Proprio a Firenze è nato, agendovi a lungo, un ro­manziere che visse sulla propria pelle le difficoltà di questo rapporto fra letteratura e politica culturale della sinistra. Mi riferisco a Vasco Pratolini.

 

Pratolini tradusse anche in propria poetica l’unità fra letteratura e visione politica della sinistra. Non so se ricorda Metello, dove lui più dichiaratamente adotta l’analisi marxista.

 

L’ha adottata come poetica, ma proprio all’uscita di questo romanzo Pratolini fu oggetto di polemiche da parte dei dirigenti della politica culturale del partito comunista: forse proprio a dimostrazione della difficoltà da parte della politica ad accettare in toto l’autonomia della letteratura anche quando essa attribuisca a una poe­tica la rappresentanza formale della propria linea cultu­rale. Ma lei come è stato dentro?

 

Io non sono mai stato in politica.

 

Intendevo: com’è stato dentro queste vicende e questi problemi.

 

Ho sempre contestato, magari amichevolmente, questo rap­porto e le scelte conseguenti. Ho avuto anche polemiche, per esempio con Pier Paolo Pasolini, sul realismo e su cose simili, dove io ho sempre difeso non la poesia pura ma la po­esia disinteressata, fondata sul naturale, sulla natura...

 

Ma anche Pasolini voleva tornare, possiamo dire, alla natura.

 

Lui voleva tornarci per nostalgia. Pasolini, con la sua analisi molto marxista, mi accusava di essere metastorico, cioè di non essere attaccato all’osservazione quotidiana dei fatti. E questo era un po’ un errore da parte sua, perché‚ in fondo, sebbene non avessi il senso polemico verso la realtà che aveva lui, la realtà mi arrivava lo stesso. Solo, cercavo di prospettarla in uno sfondo più continua­tivo, meno cronistico. E alla fine ci trovammo anche d’accordo.

 

Sul piano del pensiero generale, da dove ha tratto la sua ispirazione?

 

In generale io sono stato molto più interessato a certe espressioni del pensiero cattolico di sinistra, non so, quello di Mounier oppure di La Pira, ma senza mai confon­dere le cose. Questi pensieri forse si faranno sentire, ma quando l’evoluzione naturale e matura fa sentire la loro voce. Non è che io abbia mai fatto propaganda. C’è uno scrittore, Ro­dolfo Doni, che ha assunto questo cattolicesimo militante di sinistra quasi come sua tematica in opere indubbiamente meritorie. Io no. Se ho una tensione caritativa, questa viene dalla mia fede, dalla mia educa­zione, dalla mia natura e su quel piano si esprime.

 

La sua attività letteraria come entra in rapporto con la società? Viene semplicemente mediata dalla sua persona e non da ideologie o teorie?

 

La realtà è da cercare sempre, non è data. È seguendo il nostro senso vitale, più che dando realtà alle cose, che possiamo cercare qual è oggi la condizione dell’uomo. Io sono acceso da questo desiderio, di inseguire la realtà fino al momento in cui diventi verità. E quindi tutto mi può servire, ma non una dottrina prestabilita, ri­gorosa, schematica, la quale anzi mi è utile evitare. Ma tutto il resto del vivente e anche quello che tenta di ve­nire alla luce, ogni conato, entra un po’ nel mio inte­resse, nel mio campo d’osservazione.

 

La verità è ciò che diviene natura, ciò che diviene naturale?

 

La verità – non per essere Pilato – diviene continua­mente, non è una cosa stabilita per sempre. È che a un certo momento uno sente una coincidenza di anima e di sto­ria e allora ha la percezione di essere nel giusto e nel vero, di aver toccato un punto di verità. E tuttavia si sa che poi questo punto non persisterà, perché interverranno altre condizioni a mutarlo.

 

Questo significa che la sua ricerca la porta a un dia­logo continuo con la realtà. Ma anche con altre ricerche di analoga tensione, con altri poeti?

 

Sì. Fra i grandi maestri io guardo a Dante e Leopardi. Ce ne sono anche altri, ma quelli sono i punti fissi. Dante come poeta contemporaneo, antico ma anche il più contempo­raneo, e Leopardi come moderno, come poeta che ha sentito il dramma della modernità e lo ha fatto vivere, dando veramente il senso morale e critico della trasforma­zione. Dante ha la percezione dell’istante in cui accadono le cose collegata al senso dell’eterno, della dottrina che unifica il mondo. Noi oggi non abbiamo più una dottrina così forte, unitaria o rassicurante, ma quello che Dante c’insegna è che nell’istante si determina la storia eterna, pure gettata su elementi provvisori, veloci, effi­meri.

 

Ma dal punto di vista della concezione del mondo si tratta di due opposti, mi sembra. Leopardi vive in un mondo non strutturato, nel vuoto assoluto e pensa la solitudine dell’uomo nell’universo...

 

Sì: dell’uomo che deve ricostruire individualmente un’unità perduta, persino la realtà che Leopardi mette in dubbio. Di qui l’importanza dell’immaginazione, della sensibilità, insomma della finzione verbale che in un certo senso è chiamata a restituire all’uomo il senso di ciò che ha perduto, fra cui soprattutto il suo rapporto con la na­tura. Quindi, certamente, sono due mondi diversi, e tutta­via sono due grandi menti disciplinari, vorrei dire, che impostano il rapporto dell’individuo con il tutto. Con so­luzioni diverse, senza dubbio, ciascuna delle quali è tota­lizzante: non c’è via di mezzo, non c’è scappatoia, è sempre tutto in gioco; e in ogni particolare si gioca il tutto.

 

Questo esclude, potrebbe dirsi, una poesia parziale. Ma allora, sul piano sociologico, il poeta non rischia di trovarsi sconnesso rispetto alla vicenda so­ciale?

 

Lei allude al divorzio della poesia dalla società che esiste ormai da un secolo e mezzo. A me sembra piuttosto che ora, magari sporadicamente, si possa creare una vici­nanza, proprio perché le istituzioni oppositive non ci sono più, perché sono tutte in crisi. Anche la società adesso è caotica e pervasa d’anonimato. La macchina sta lì in ag­guato: così siamo tutti sulla stessa barca. A questo punto è allora possibile che, anche senza volerlo, questi avvicinamenti ci siano.





Paola Pivi, Senza titolo, Biennale Arte Venezia, 2003


Si riferisce allo sviluppo della società contempora­nea nel suo complesso, non alla vicenda politica italiana.

 

Alla società in genere, che è caotica perché sta dentro questa crisi e dunque non è contro la poesia, non è con­trapposta a chi, come il poeta, tenta di dare il nome alla malattia in cui essa si trova. È possibile che anche la società si apra alla ricerca di un punto di riferimento. Oggi viviamo in uno stato di possibilità remote, più che di prospettive immediate.

 

Forse possiamo dire che oggi viviamo il tempo della possibilità. La società contemporanea e anche l’individuo stesso vivono dentro la possibilità forte di fare, di co­struire, di pensare cose nuove; e questo sconcerta.

 

Sì, è vero, è un po’ il tempo dell’ipotesi. Quello dei dogmi è finito da parecchio e l’ipotesi prolifera.

 

È però un’ipotesi che tende ad affidarsi al potere e ai mezzi della scienza.

 

Si tratta di un potere e di mezzi integrativi, che a me non sembrano importanti. È tuttavia significativo che oggi si diano, anche in letteratura, fenomeni di affidamento ai mezzi della scienza.

 

Ma come fare per non seguire questa strada? In altre pa­role, come trovare le forme di azione letteraria nuove fuori dall’uso diretto della scienza linguistico-estetica?

 

Io, da figlio e cittadino di questo tempo dell’ipotesi, ho cercato una libertà espressiva e anche costruttiva. Ho tentato di assumere anche in me questa apertura e versatilità: per esempio, in questi ultimi tempi si è ampliata la gamma delle domande e la mia poesia, an­che strutturalmente, si è fatta più interrogativa. Certa­mente l’interrogazione esiste perché io non ho alle spalle una dottrina che m’includa, ma è certo che questo tempo caotico e pieno di ansia interrogativa mi ha messo in apprensione per sé  e per il suo futuro. È un tempo che mobilita l’immaginazione e anche il pensiero.

 

E quanto all’Italia attuale?

 

Vedo un paese sorpreso da ricchezze insperate, da possibilità materiali inattese (anche se poi tutto è molto pre­cario e fasullo), sorpreso perché questo ha interrotto o rimosso da sé dei valori tradizionali, che potevano anche essere angusti, potevano anche apparire antiquati, nei quali però si sentiva, nonostante fossero ormai diventati formali, un originario rapporto con l’espressione autentica dell’umano. Il paese allora, rimuovendo questi valori, si è trovato – nella laicità del benessere, del possibile appaga­mento materiale – in un deserto di banalità e di indiffe­renza. E questo è molto brutto. Quando poi le euforie e le soddisfazioni sono diventate malsicure, è intervenuto uno sbandamento. A chi possono rivolgersi le persone? Allo Stato? Pretendono, certamente, da esso; ma in realtà non ci credono: lo Stato non è altro che un  inadempiente che deve pagare. La Chiesa, la religione? La religione è stata de­qualificata dall’allontanamento dei fedeli...

 

Per la laicizzazione della società?

 

Sì, e la Chiesa ha dovuto inseguire queste persone e laicizzarsi parecchio. Il che le ha nociuto. Così noi ora vi­viamo un periodo molto brutto. Non è a caso che risorgono o nascono dottrine aberranti...

 

Si riferisce, per esempio, al razzismo?

 

Mi riferisco alle sette in genere e il razzismo è una credenza di setta anche quello, coi suoi testi e riti. Così non abbiamo né il ricambio politico ordinario, che si alimenta di rilievi, di constatazioni razionali, né la re­sistenza su principi veramente validi. Anche se devo ri­scontrare con piacere un diffuso desiderio di pace, un pa­cifismo (anch’esso un po’ ritualizzato, va detto) che è un valore riconoscibile nella nostra società, con molte effettive ten­sioni e rifiuti pratici. Se c’è qualcosa che fa sperare in senso positivo è questo bisogno di pace. È l’unica pro­spettiva attendibile.

 

Dalla politica non si attende nulla?

 

La politica finora è stata lontana dalla cultura e, in particolare, dalla letteratura..

 

Ma come si può costruire un rapporto fertile di vi­cinanza fra l’una e l’altra se la let­teratura deve sentirsi altra cosa dalla politica?

 

È un fatto di resistenza della letteratura. Questa e la cultura in generale devono essere consce di sé, non ser­vire nessuno, e questo non perché noi siamo dei clercs, ma semplicemente perché si sa come va a finire. Solo a condizione di non patteggiare con la politica militante – che non è la polis, la letteratura può essere utile e feconda per la politica come per la gestione della società.

 




Scarica in formato pdf  


  
Sommario Interviste

Il contatore dei visitatori Shiny Stat è attivo da dicembre 2006