di Alberto Scarponi
Che
cosa fa lo Stato italiano per sostenere la cultura (questo è il tema). Perché‚
in quello che fa o non fa si può leggere un concetto di cultura: per esempio
che la cultura sarebbe uno strumento, qualcosa che può anche essere
disprezzato...
... un
instrumentum regni. Anche se
oggi non c’è nessun regno, è tutta una repubblica...
… ma la politica ha sempre un regno.
Sì, come
vizio della mente per il politico la cultura è questo, è qualcosa di
strumentale. Ma voglio parlare autobiograficamente. Io ho cominciato a
riflettere sul rapporto politica-cultura quando, andando all’estero, mi sono
accorto che questo rapporto esiste, nel senso che, sebbene sia nei fatti molto
difettivo, è però necessario. Io non avevo mai pensato alla cultura in termini,
diciamo così, politici. Semmai, per me, è stato l’inverso: avevo sempre pensato
che gli uomini politici fossero filtri di una cultura, che insomma nascessero
dentro una cultura, buona o cattiva (e anche da quello potessero essere
giudicati), che ci fosse questa reciprocità o comunque questo rapporto
interrelazionale. Io ho cominciato a vedere con gli occhi dell’uomo di cultura
che si trova all’estero e crede di poter contare naturalmente sulle istituzioni
ad hoc che ci sono in tutti i
paesi e che anche noi abbiamo, perché‚ abbiamo gli Istituti di cultura
italiani all’estero, e mi sono accorto
che questo è invece un deserto. Però un deserto non del tutto spopolato, ma
abitato da gente allo sbando. Quindi quello che rende anche l’immagine della efficienza
e della consapevolezza di un paese maturo nel nostro caso è veramente...
inadeguato. Ecco, diciamo così: inadeguato, troppo dequalificato e casuale,
salvo qualche lodevolissima opera personale che in genere non risulta gradita
alla burocrazia. Facciamo tuttavia qualche eccezione: Parigi, New York...
Ma ciò dipende dalle persone, non viene da
una politica coordinata, una politica dello Stato italiano.
C’è questo,
comunque, che il governo ha capito che si tratta di basi importanti e le ha
fornite di mezzi. Il resto, però, è lasciato lì. In una nazione come la nostra
che ha come prima ricchezza e sostanza la cultura... non solo gli oggetti
materiali, ma anche le opere dei suoi autori, quello che secondo me doveva
essere il primo dei ministeri è lasciato ai margini come «beni culturali»...
Perché si pensa solo agli oggetti, alle cose
che si vedono...
Sì, ma
perfino quelle non è che siano considerate un granché. C’è stato Ronchey che
s’è fatto sentire, ma nella sostanza tutte queste cose restano marginali,
mentre dovrebbero essere per noi centrali. Ma prescindiamo anche da tali
centralità e priorità. Non si è neppure a livello di – come dire – correttezza,
di proprietà presentabile: siamo molto, molto inadeguati. E questo non è
ammissibile. Lo dico in termini di patriottismo italiano. La gente al potere
si sente custode esclusiva. Loro la fanno da padroni, ma in fin dei conti sono
lì provvisoriamente; mentre la cultura appartiene prima di tutto a quelli che
la fanno, a coloro che ne sono i testimoni. E quindi anche della continuità
nazionale italiana siamo noi scrittori, sono tutti gli artisti i più gelosi
custodi. E quando si vedono queste cose, beh, o uno ha i nervi di gomma oppure
deve reagire in un certo modo. Ecco l’origine di tante polemiche a cui anch’io
mi sono associato. Nel caso di Stoccolma l’ho fatto in maniera diretta perché
ho assistito direttamente allo strozzamento di attività molto positive e molto
utili per il paese che erano già in corso. Come la casa editrice Italica: una
editrice molto piccola, non commerciale e molto prestigiosa, per cui tutti
aspirano ad essere presenti in essa, sia gli svedesi e tutti gli scandinavi
(perché si fanno edizioni bilingui), sia gli italiani. Tra l’altro, ha fatto
conoscere in quei paesi Guicciardini, Campanella, il teatro popolare italiano,
Beccaria, Manzoni e naturalmente i contemporanei, più che altro i poeti, forse
perché i libri cercano di non essere troppo voluminosi. Allora: qui mi ha
colpito questo modo di concepire la cultura come puro strumento...
... come strumento politico.
... più che
strumento di politica, di politicanza: fosse politica, ancora...
... avrebbe qualcosa di nobile.
... si
potrebbe ancora capire: è una linea, condivisibile o no, ma invece questo
degrado!
Se poi lo paragoniamo con quanto fanno
altri.
Io ho
rapporti frequenti con la Francia. E questo confronto mi umiliava,
m’indispettiva veramente. Vedere come i francesi agiscono in questo campo, che
cosa è per loro la cultura, come è capitale. Anzi finiscono anche per gonfiare
un po’ le cose: ma questo vuol dire che sono attenti. Basta vedere l’attività
dei loro istituti in Italia: non solo a Roma, anche a Firenze e altrove...
Non solo i francesi, ma anche i tedeschi,
gli spagnoli, gli americani...
Insomma,
molti, giustamente, fanno questa politica di espansione e di incontro
culturale...
Come politica di sostegno alla cultura viene
in mente quella tedesca...
... che
finanzia questi istituti specializzati... Ce n’è uno d’arte a Firenze di
livello altissimo, un punto di riferimento necessario...
... oppure l’accademia di Villa Massimo a
Roma, dove ogni anno viene ospitato un certo numero di giovani scrittori e
artisti affinché facciano, per dodici mesi, questa esperienza culturale e
questo incontro. Il che è anche un modo intelligente d’espandere la propria
arte. Ora, tutto questo noi possiamo addebitarlo soltanto al piccolo formato
della politica italiana?
Io credo che
sia la classe incolta che ci ha governato... sempre... e quello che avrebbe
dovuto essere il vessillo della nostra presenza è diventato invece un cencio,
uno straccio. Ciò è veramente umiliante.
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Mario Luzi
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E la situazione italiana attuale?
Regna una
visione provinciale e di piccolo cabotaggio, persino elettoralistico. Non
abbiamo mai avuto un governo che si investisse della responsabilità di
rappresentare in ogni aspetto tutta la nazione con tutte le sue energie, le sue
contraddizioni, e tutta la sua storia. Prima c’è stato il vuoto della retorica
fascista, poi, molto più a lungo, il vuoto nulla.
Una delle giustificazioni, anzi la
giustificazione prima e forse unica di questo disinteresse del governo per la
cultura, col conseguente abbandono di quest’ultima alle mene personali o
clientelistiche, è appunto stata la volontà di difenderla dall’atteggiamento
dirigistico del fascismo. Per tale motivo ci si sarebbe astenuti dal far
intervenire la politica nelle cose dell’arte.
Questo mi
trova d’accordo. Ma non si tratta di mettere la politica nella cultura. Il fatto è che il sostegno avveduto
e dovuto alla cultura ha aspetti di vita nazionale che
devono essere rappresentati. Qui non c’entra il far politica nella cultura,
qui è lo Stato che adempie il suo ufficio. Quando ciò non avviene, è allora
che le istituzioni, che pure esistono, sono in realtà lasciate ai maneggi dei
politicanti, non esistendo una politica che assegni loro una missione culturale
in Italia e all’estero.
Paradossalmente, è la mancanza d’una buona
elaborazione politica che consegna la cultura ai politicanti.
Quanto al
fascismo, sì, il suo miserabile trionfalismo non merita certo di essere
ereditato. Tuttavia, se esso ha fatto cose che dovevano oggettivamente essere
fatte e che ancora servono, quelle cose non è che debbano per forza essere distrutte
in quanto fasciste. Al più si tratterà d’ammodernarle e di adattarle alle
esigenze nuove: a esigenze non totalitarie, ma di libertà.
Sta proponendo un rapporto non schematico,
ma vivo e, per così dire, accorto col passato.
Sì. Prendiamo
l’Italia ottocentesca: alle sue origini, lo Stato italiano era in un certo modo
più vicino alla cultura, perché i politici erano anch’essi intrisi di cultura
risorgimentale.
Si erano formati entro un dibattito
culturale.
Appunto,
nascevano da un dibattito. E loro hanno fatto, bonariamente, per esempio la Società Dante Alighieri: che è stata la nostra massima presenza
culturale all’estero. Pure questa non è sempre andata a finir bene, però nella
sostanza una fedeltà alle sue origini c’è, sebbene modesta. Ebbene, questa
famosa Italietta mi commuove: ebbe una pensata molto bella, quella di fondare o
favorire la nascita di centri d’interesse, di scuole. Poi, certo, il modo
dimesso in cui vengono gestiti tali centri oggi (talvolta sono addirittura
abbandonati) ne fa un reparto scaduto; ma ciò nonostante, si tratta di
qualcosa di pulito. In ogni caso, volevo dire che l’Italia risorgimentale si
muoveva bene.
Lo Stato italiano ottocentesco...
Lo Stato
italiano ancora risorgimentale, quello degli inizi, ancora desanctisiano, aveva
questo spirito e pensò a questa rete di collegamento col mondo. Con le vedute
d’allora...
Le vedute d’allora avevano dietro di sé un
progetto, quello di costruire la coscienza nazionale. A tale fine si trovavano
le istituzioni che allora si riteneva fossero giuste: la Società Dante
Alighieri oppure le Delegazioni di storia patria. Queste istituzioni sono
ormai esangui sia all’esterno che all’interno.
Non le hanno
mai rinsanguate adeguatamente.
Ciò è accaduto perché...
... non c’è
più senso dello Stato...
... non c’è più un progetto. In altre
parole, non si sa dove l’Italia debba andare. Forse l’unico progetto esistente
è oggi quello dell’industria culturale che apre la cultura al mercato, ma
semplicemente coi criteri del mercato.
Questa però è
o sarebbe una resa dello Stato. Le istituzioni di cui stiamo parlando
dovrebbero infatti servire a mediare. Ci può essere un interesse privato,
soggettivo, non so, di un editore, di un istituto di ricerca privato, per
esempio, a produrre una certa conoscenza. Allora sarebbe compito
dell’istituzione statale far prevalere su simili progetti il contesto
oggettivo...
... magari collegati a un disegno di
costruzione della coscienza comune.
In fondo
dovrebbe colare per le vene delle persone preposte a tali istituzioni il gusto
di farlo. Non credo che i funzionari francesi (e parlo di loro perché sono
certamente i più abili e coerenti in questo campo), non credo che ricevano una
particolare formazione per svolgere simile compito. Ritengo che le loro azioni
siano semplicemente dettate dal senso dello Stato che le guida.
Non crede che ci sia ormai una sorta di
complesso di inferiorità nella interpretazione che i politici danno della
nostra cultura?
C’è un
complesso d’inferiorità giustificatissimo, anzi più che di un complesso si
tratta di un riscontro oggettivo di inferiorità, ma nella proposizione,
nell’offerta, nella disponibilità. Non ci dovrebbe essere nelle persone di cultura
che sono consce della cultura italiana, la quale non è in stato di soggezione
di fronte a nessun’altra. Ma la levatura dei nostri politici fa che questi
credano che le cose stiano effettivamente così e si comportino di conseguenza.
Ora, guardando le cose dal punto di vista
delle persone di cultura (e slittando in qualche modo su un discorso parallelo),
come valutare la situazione italiana oggi, in specie per quanto riguarda la
letteratura?
Nel
complesso, se noi guardiamo alle scienze, mi sembra che il quadro generale sia
abbastanza vivo. Non è un momento creativo in Europa, direi, non c’è una
stagione particolarmente feconda. Molto viene dall’America, ma in tutti i
campi noi abbiamo delle personalità e anche degli istituti che funzionano
(nella storiografia, nella filosofia, nella fisica, nell’ottica, nella
medicina). Qui è vero che l’azione carente dello Stato ha fatto pagare molti
scotti alla nostra ricerca, ma in sostanza essa riceve il rispetto che si
merita. Quanto alla cultura letteraria, secondo me, come dicevo, viviamo un
periodo non buono dalla fine della seconda guerra mondiale: d’allora
l’invenzione in questo campo è un po’ debole in tutta l’Europa. Pensiamo invece
all’America latina, per esempio, e anche all’America del nord.
Lei ritiene che si tratti semplicemente di
una stagione transitoria oppure c’è qualche cosa di specifico che ostacola la
cultura letteraria in Europa.
Mah, possiamo
dire che la temperie anche intellettiva europea si è sfibrata di fronte ai
paradossi, ai mostri della sua storia. In fondo c’è stato un tale contraccolpo
di déception, di disinganno, che anche lo slancio
inventivo ne ha risentito. E poi bisogna capire che era stata estremamente
feconda la prima stagione del novecento, quella che va dal realismo, dal
simbolismo fino alla seconda guerra mondiale, col futurismo, l’espressionismo,
il surrealismo; per cui la mente europea si è trovata scarica. Di questo
bisogna tenere conto.
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Bill Viola, Senza titolo, still video image
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Si tratta di questo oppure vale la
affermazione di Adorno secondo cui, dopo Auschwitz, non si può più fare poesia?
Non mi sembra
un’affermazione accettabile. È chiaro che, come dicevo, si sono avuti
contraccolpi vitali, esistenziali, che si sono riflessi in tutti gli aspetti
del vivibile, ma non è che non si possa più fare poesia... Non si potrà più
fare quella poesia, non si potrà più insistere in una
visione centrata su valori che si sono perduti, questo sì; ma la voce
dell’uomo, del sogno umano, tutto ciò che parla delle aspettative o del ritardo
anche, del dolore, questo non potrà tacere. E in effetti si sono trovate varie
forme per farlo, discutibili forse, ma si è continuato a lavorare, se vogliamo
magari in modo dispersivo; ma questa condizione si è espressa.
Allora possiamo tornare all’altra
spiegazione.
In Italia non
è una grande stagione culturale. Questa non è paragonabile alla cultura dei
primi cinquant’anni del Novecento. Vi sono però delle persistenze e delle
conquiste anche di spazio, di orizzonte. Ecco, lo sfondo è un po’ sfocato; ma
la rilevanza individuale su questo sfondo ci può essere. Non so, Sciascia,
Moravia, che sono morti, poi Volponi, anche lui scomparso.
Umberto Eco?
Eco può
essere indicativo dello stato della cultura letteraria italiana e non solo
italiana, dove prevale la sistematicità della scienza (di tutte le scienze
dell’uomo e della letteratura). Questo affidamento della soggettività creativa
a mezzi che la sostituiscono è significativo della fase di storia letteraria in
cui ci troviamo.
Si può dire che, dopo la seconda guerra
mondiale, la letteratura ha incontrato, nell’Europa occidentale, una società
che non l’accetta più?
Sì, è una
società che non ci si riconosce. Anche perché è talmente appiattita sui mezzi
che usa che non ha neanche voglia di indagare su se stessa e di sapere che cosa
è. Le basta sapere che cosa fa.
Forse la sovrabbondanza estensiva ma anche
intensiva dei mezzi (penso ora ai computer e alle loro possibilità comunicative),
forse questa molteplicità di mezzi di crescita distrae, porta a fermare
l’attenzione più sul fare che sul senso dell’essere. Oppure c’è una struttura
sociale, una vita quotidiana...
Anche la vita
quotidiana è dominata da questo produttivismo anonimo: tende a scomparire
l’impronta personale sulle cose che si fanno. Gli sviluppi dell’informatica finora
sono abbastanza dominati dall’uomo, ma la realtà virtuale sta diventando
sempre meno virtuale e qui c’è una frontiera pericolosa. Qui la letteratura
diventa sempre più necessaria, sebbene sia sempre meno amata. La poesia è –
come dire – un ultimo grado di coscienza e di resistenza da parte dell’uomo. E
qua e là si verificano ancora queste resistenze, questi gridi, anche se
restano isolati.
Qualcuno pensa che i giovani che si isolano,
soprattutto quelli che si automarginalizzano nei centri sociali (dove c’è
un’autonoma produzione artistica: essi hanno una loro letteratura e soprattutto
una loro musica), esprimano questa resistenza. Potrebbero essere questi alcuni
dei luoghi da dove partono tali gridi?
Sì, i giovani
hanno trovato questa forma un po’ consolatoria e un po’ accusatoria che è la
musica rock e temo che anch’essa contribuisca a tagliare l’erba sotto i piedi
della poesia e della letteratura. Comunque, si tratta di un’espressione dello
stato delle cose.
Potremmo affrontare il tema del rapporto
della letteratura con il potere in termini biografici. Lei è in qualche modo
un erede dell’ermetismo e l’ermetismo risolveva il problema distaccandosi dal
potere, rifiutandolo.
Devo dire che
questa attitudine morale è rimasta. È difficile da far capire agli altri, ma è
rimasta: come una forma di horror, come un raccapriccio quasi, che non guarda
alle varie tendenze ma coinvolge tutto. Questa è l’impronta, il suggello che è
rimasto, almeno per me, ma credo anche in altri. Per esempio, mi ricordo Carlo
Bo quando è stato fatto senatore a vita, ciò che era un po’ una cooptazione nel
potere politico. Quante incertezze, perplessità egli ha avuto prima di
accettare. Beh, naturalmente anche questa è una deformazione: si demonizza il
potere fino a sentire come profano e degenerativo tutto quanto viene da lì.
Ma questa è la concezione che lei ha trovato
davanti a sé‚ da giovane?
Questo era lo
stato reale della nostra vita d’allora: c’era il fascismo, con tutte le sue
conseguenze. Ma si tratta di reazioni che s’imprimono nel codice morale e psicologico
delle persone. Così io ho sempre evitato... Non è che non abbia mai incontrato
ministri o altri... non so, Giovanni Spadolini era mio amico... Ma questo
avveniva al di fuori di ogni rapporto reale, tanto più al di fuori di rapporti
di lavoro. Tanto è vero che quando sento dire che per fare questo o quello nel
campo della cultura occorre rivolgersi allo Stato, per dire, o alla Regione (e
si tratta probabilmente di una mentalità più sana della nostra, una mentalità
la quale ritiene che le istituzioni abbiano anche questi doveri, il compito di
contribuire a sostenere l’azione culturale), io non capisco bene che cosa
occorra chiedere, se una sanzione, se un appoggio. Ecco, io ho sempre sentito
il potere politico come antagonista.
Questo perché la letteratura e la cultura
sono un altro potere, un potere diverso?
Sì, sono
un’altra cosa. Come ho cominciato ad amarla io, come ho cercato a mio modo di
farla, la letteratura è una sfera di lavoro, di ricerca, che tiene d’occhio
tutto quello c’è. Non è che si voglia rinchiudere in sé o coprire gli occhi, ma
non può essere mediata da nulla. Non ci deve essere patto di nessun genere.
Questo in qualche modo porrebbe la letteratura
in antagonismo con altri punti di vista.
Sì, ma non
necessariamente. Possono anche verificarsi momenti di consenso tra vari
criteri di condotta, dove ci sono. Per esempio la sinistra culturale ha trovato
questi momenti di contatto con altri in certe fasi, poi però s’è visto che la
stessa sinistra era altrettanto asservita a un potere che la dominava,
piuttosto che essere essa a informarlo. Quindi oggi è entrato in crisi quel rapporto,
il rapporto che poteva aver avuto con essa ad esempio Volponi o, prima ancora,
Vittorini.
La famosa polemica di Vittorini con
Togliatti alla fine degli anni quaranta espresse proprio un forte punto di
crisi nel rapporto fra intellettuali di sinistra e potere politico, il potere
dell’opposizione. Ma in che senso?
Nel senso che
c’era stato un iniziale malinteso di fondo. Vittorini, allo stesso modo in cui
in precedenza si era illuso sul fascismo, ora s’illudeva sulla sinistra. Lui e
altri pensarono che in questi movimenti politici potesse vedersi l’inizio d’una
possibile rigenerazione nei rapporti umani.
Davano alla politica un credito eccessivo?
Non era
questione di politica in quanto tale, ma di dottrina. Ritenevano che quel
pensiero potesse costituire una base per tale rigenerazione. E va detto con
onestà che la letteratura non sempre fu in antitesi; ma, poi, i nodi vengono
sempre al pettine. L’autonomia e la purezza di vedute che la letteratura
richiede non puoi appoggiarle a nessuno e a niente. E così, anche certe cose
che sembravano andare alla fine, nella prassi risultarono impossibili. Mi
ricordo, a Firenze, Romano Bilenchi di cui sono stato amico: lui era molto
severo, molto impegnato in questo rapporto, e però anche lui alla fine ha
dovuto riconoscere... Bilenchi, alla fine degli anni quaranta, entrò con molta
consapevolezza nella politica, nel giornalismo politico, e difese davanti al
partito, il partito comunista, la letteratura dalle tentazioni del realismo
socialista che proprio allora era in auge. E l’avevano lasciato fare. Poi però
il suo senso di giustizia e di libertà s’impennò davanti ai fatti della
Germania e più tardi, soprattutto, dell’Ungheria.
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Romano Bilenchi
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Siamo nel 1953; e, per l’Ungheria, nel 1956.
Sì, infatti.
Così dovette lasciare. Anche lui, infine, dovette riconoscere che non c’era possibilità
di coniugare il politico con il letterario.
Proprio a Firenze è nato, agendovi a lungo,
un romanziere che visse sulla propria pelle le difficoltà di questo rapporto
fra letteratura e politica culturale della sinistra. Mi riferisco a Vasco Pratolini.
Pratolini
tradusse anche in propria poetica l’unità fra letteratura e visione politica
della sinistra. Non so se ricorda Metello, dove lui più dichiaratamente adotta
l’analisi marxista.
L’ha adottata come poetica, ma proprio
all’uscita di questo romanzo Pratolini fu oggetto di polemiche da parte dei
dirigenti della politica culturale del partito comunista: forse proprio a
dimostrazione della difficoltà da parte della politica ad accettare in toto l’autonomia della letteratura anche quando essa attribuisca a una poetica
la rappresentanza formale della propria linea culturale. Ma lei come è stato
dentro?
Io non sono
mai stato in politica.
Intendevo: com’è stato dentro queste vicende
e questi problemi.
Ho sempre
contestato, magari amichevolmente, questo rapporto e le scelte conseguenti. Ho
avuto anche polemiche, per esempio con Pier Paolo Pasolini, sul realismo e su
cose simili, dove io ho sempre difeso non la poesia pura ma la poesia
disinteressata, fondata sul naturale, sulla natura...
Ma anche Pasolini voleva tornare, possiamo
dire, alla natura.
Lui voleva
tornarci per nostalgia. Pasolini, con la sua analisi molto marxista, mi
accusava di essere metastorico, cioè di non essere attaccato all’osservazione
quotidiana dei fatti. E questo era un po’ un errore da parte sua, perché‚ in
fondo, sebbene non avessi il senso polemico verso la realtà che aveva lui, la
realtà mi arrivava lo stesso. Solo, cercavo di prospettarla in uno sfondo più
continuativo, meno cronistico. E alla fine ci trovammo anche d’accordo.
Sul piano del pensiero generale, da dove ha
tratto la sua ispirazione?
In generale
io sono stato molto più interessato a certe espressioni del pensiero cattolico
di sinistra, non so, quello di Mounier oppure di La Pira, ma senza mai confondere
le cose. Questi pensieri forse si faranno sentire, ma quando l’evoluzione
naturale e matura fa sentire la loro voce. Non è che io abbia mai fatto
propaganda. C’è uno scrittore, Rodolfo Doni, che ha assunto questo
cattolicesimo militante di sinistra quasi come sua tematica in opere
indubbiamente meritorie. Io no. Se ho una tensione caritativa, questa viene
dalla mia fede, dalla mia educazione, dalla mia natura e su quel piano si
esprime.
La sua attività letteraria come entra in
rapporto con la società? Viene semplicemente mediata dalla sua persona e non da
ideologie o teorie?
La realtà è
da cercare sempre, non è data. È seguendo il nostro senso vitale, più che dando
realtà alle cose, che possiamo cercare qual è oggi la condizione dell’uomo. Io
sono acceso da questo desiderio, di inseguire la realtà fino al momento in cui
diventi verità. E quindi tutto mi può servire, ma non una dottrina
prestabilita, rigorosa, schematica, la quale anzi mi è utile evitare. Ma tutto
il resto del vivente e anche quello che tenta di venire alla luce, ogni
conato, entra un po’ nel mio interesse, nel mio campo d’osservazione.
La verità è ciò che diviene natura, ciò che
diviene naturale?
La verità –
non per essere Pilato – diviene continuamente, non è una cosa stabilita per
sempre. È che a un certo momento uno sente una coincidenza di anima e di storia
e allora ha la percezione di essere nel giusto e nel vero, di aver toccato un
punto di verità. E tuttavia si sa che poi questo punto non persisterà, perché
interverranno altre condizioni a mutarlo.
Questo significa che la sua ricerca la porta
a un dialogo continuo con la realtà. Ma anche con altre ricerche di analoga
tensione, con altri poeti?
Sì. Fra i
grandi maestri io guardo a Dante e Leopardi. Ce ne sono anche altri, ma quelli
sono i punti fissi. Dante come poeta contemporaneo, antico ma anche il più
contemporaneo, e Leopardi come moderno, come poeta che ha sentito il dramma
della modernità e lo ha fatto vivere, dando veramente il senso morale e critico
della trasformazione. Dante ha la percezione dell’istante in cui accadono le
cose collegata al senso dell’eterno, della dottrina che unifica il mondo. Noi
oggi non abbiamo più una dottrina così forte, unitaria o rassicurante, ma
quello che Dante c’insegna è che nell’istante si determina la storia eterna,
pure gettata su elementi provvisori, veloci, effimeri.
Ma dal punto di vista della concezione del
mondo si tratta di due opposti, mi sembra. Leopardi vive in un mondo non
strutturato, nel vuoto assoluto e pensa la solitudine dell’uomo
nell’universo...
Sì: dell’uomo
che deve ricostruire individualmente un’unità perduta, persino la realtà che
Leopardi mette in dubbio. Di qui l’importanza dell’immaginazione, della
sensibilità, insomma della finzione verbale che in un certo senso è chiamata a
restituire all’uomo il senso di ciò che ha perduto, fra cui soprattutto il suo
rapporto con la natura. Quindi, certamente, sono due mondi diversi, e tuttavia
sono due grandi menti disciplinari, vorrei dire, che impostano il rapporto
dell’individuo con il tutto. Con soluzioni diverse, senza dubbio, ciascuna
delle quali è totalizzante: non c’è via di mezzo, non c’è scappatoia, è sempre
tutto in gioco; e in ogni particolare si gioca il tutto.
Questo esclude, potrebbe dirsi, una poesia
parziale. Ma allora, sul piano sociologico, il poeta non rischia di trovarsi
sconnesso rispetto alla vicenda sociale?
Lei allude al
divorzio della poesia dalla società che esiste ormai da un secolo e mezzo. A me
sembra piuttosto che ora, magari sporadicamente, si possa creare una vicinanza,
proprio perché le istituzioni oppositive non ci sono più, perché sono tutte in
crisi. Anche la società adesso è caotica e pervasa d’anonimato. La macchina sta
lì in agguato: così siamo tutti sulla stessa barca. A questo punto è allora
possibile che, anche senza volerlo, questi avvicinamenti ci siano.
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Paola Pivi, Senza titolo, Biennale Arte Venezia, 2003
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Si riferisce allo sviluppo della società
contemporanea nel suo complesso, non alla vicenda politica italiana.
Alla società
in genere, che è caotica perché sta dentro questa crisi e dunque non è contro
la poesia, non è contrapposta a chi, come il poeta, tenta di dare il nome alla
malattia in cui essa si trova. È possibile che anche la società si apra alla
ricerca di un punto di riferimento. Oggi viviamo in uno stato di possibilità
remote, più che di prospettive immediate.
Forse possiamo dire che oggi viviamo il
tempo della possibilità. La società contemporanea e anche l’individuo stesso
vivono dentro la possibilità forte di fare, di costruire, di pensare cose
nuove; e questo sconcerta.
Sì, è vero, è
un po’ il tempo dell’ipotesi. Quello dei dogmi è finito da parecchio e
l’ipotesi prolifera.
È però un’ipotesi che tende ad affidarsi al
potere e ai mezzi della scienza.
Si tratta di
un potere e di mezzi integrativi, che a me non sembrano importanti. È tuttavia
significativo che oggi si diano, anche in letteratura, fenomeni di affidamento
ai mezzi della scienza.
Ma come fare per non seguire questa strada?
In altre parole, come trovare le forme di azione letteraria nuove fuori
dall’uso diretto della scienza linguistico-estetica?
Io, da figlio
e cittadino di questo tempo dell’ipotesi, ho cercato una libertà espressiva e
anche costruttiva. Ho tentato di assumere anche in me questa apertura e
versatilità: per esempio, in questi ultimi tempi si è ampliata la gamma delle
domande e la mia poesia, anche strutturalmente, si è fatta più interrogativa.
Certamente l’interrogazione esiste perché io non ho alle spalle una dottrina
che m’includa, ma è certo che questo tempo caotico e pieno di ansia
interrogativa mi ha messo in apprensione per sé
e per il suo futuro. È un tempo che mobilita l’immaginazione e anche il
pensiero.
E quanto all’Italia attuale?
Vedo un paese
sorpreso da ricchezze insperate, da possibilità materiali inattese (anche se
poi tutto è molto precario e fasullo), sorpreso perché questo ha interrotto o
rimosso da sé dei valori tradizionali, che potevano anche essere angusti,
potevano anche apparire antiquati, nei quali però si sentiva, nonostante fossero
ormai diventati formali, un originario rapporto con l’espressione autentica
dell’umano. Il paese allora, rimuovendo questi valori, si è trovato – nella
laicità del benessere, del possibile appagamento materiale – in un deserto di
banalità e di indifferenza. E questo è molto brutto. Quando poi le euforie e
le soddisfazioni sono diventate malsicure, è intervenuto uno sbandamento. A chi
possono rivolgersi le persone? Allo Stato? Pretendono, certamente, da esso; ma
in realtà non ci credono: lo Stato non è altro che un inadempiente che deve pagare. La Chiesa, la
religione? La religione è stata dequalificata dall’allontanamento dei
fedeli...
Per la laicizzazione della società?
Sì, e la
Chiesa ha dovuto inseguire queste persone e laicizzarsi parecchio. Il che le ha
nociuto. Così noi ora viviamo un periodo molto brutto. Non è a caso che
risorgono o nascono dottrine aberranti...
Si riferisce, per esempio, al razzismo?
Mi riferisco
alle sette in genere e il razzismo è una credenza di setta anche quello, coi
suoi testi e riti. Così non abbiamo né il ricambio politico ordinario, che si
alimenta di rilievi, di constatazioni razionali, né la resistenza su principi
veramente validi. Anche se devo riscontrare con piacere un diffuso desiderio
di pace, un pacifismo (anch’esso un po’ ritualizzato, va detto) che è un
valore riconoscibile nella nostra società, con molte effettive tensioni e
rifiuti pratici. Se c’è qualcosa che fa sperare in senso positivo è questo
bisogno di pace. È l’unica prospettiva attendibile.
Dalla politica non si attende nulla?
La politica
finora è stata lontana dalla cultura e, in particolare, dalla letteratura..
Ma come si può costruire un rapporto fertile
di vicinanza fra l’una e l’altra se la letteratura deve sentirsi altra cosa
dalla politica?
È un fatto di
resistenza della letteratura. Questa e la cultura in generale devono essere
consce di sé, non servire nessuno, e questo non perché noi siamo dei clercs, ma semplicemente perché si sa come va a
finire. Solo a condizione di non patteggiare con la politica militante – che
non è la polis –, la letteratura può essere utile e feconda per la politica come per la
gestione della società.
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