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di Stefano Docimo
Quelli che spropositano di poetare
in punta di sandropenna
stortilabbruti oracoli dell’incommensurabile,
coll’occhio però scaltro al soldo e
alla carriera
Con dignità indosso il cappotto
delle battaglie perdute,
uniche decorazioni le medaglie del
non–oblio
Tanto, forse, siamo tutti
personaggi, maggiori o minori,
di un videogioco chiamato Vita,
tutti autenticamente virtuali, certo
ma poi non sarà che il post-umano
stroppierà, invero, nel troppo
[humano?
(Marco
Palladini, La vita non è elegante)
Divergenza sobilla? dipende ... gli
anelli
Catena più non fanno sibbene
orizzonti
A gara al gancio adattano l’inutile
Sul piacere singhiozzante luce
beatifica
Sminuzza le folgori i frantumi
congloba
Manopole serpendo con seghe di
raggi —
Ma chi è qui responsabile? chi la
roba
Sorveglia all’esito e i poteri
rettifica?
Perfetto apribocca sarebbe a un
feto futile?
Dipende ... l’energia concùbiti ha
pronti
Spollona i defunti ‒ dove stanno i ribelli?
(Edoardo
Cacciatore, Ma chi è qui il responsabile?)
I.
(2003)
Sì,
coacervo, sì… È proprio come una catena di dati. Ma chi è qui il responsabile? È quantomai difficile da
stabilire, dice. Il fatto è che oramai non ho più tempo. Non mi faranno più
sconti. Siamo assaliti ogni giorno, con accanimento mai visto prima. Sì, lo so,
non è possibile. Spero solo non mi vengano i crampi allo stomaco. Del
prosciutto cotto quasi congelato. E me lo sono trangugiato lo stesso, sì. Come
un nauseabondo prosciutto cotto a forma di cono gelato. Un gusto insolito,
resta quella patina oleosa e vomitevole sulle dita. Che poi vanno a macchiare
la tastiera del computer, mentre richiama la signora Olivia della Fast Web in un pressing solitario quantomai galante, che informa che avrò ben
centocinquanta, dico centocinquanta euro di sconto sulla prima bolletta. Bien. Ma intanto me ne sto gatto gatto a scongiurare una colica
intestinale. Tanto va la gatta al lardo… Stavo
leggendo, tra un Codice e uno Zibaldone, qualcosa a riguardo, sì, che
riguarda la salsedine. Mi somiglia. Forse continuerò a bere della Heineken, tanto per sciogliere il
ghiacciolo imbevuto di salsa al Rhum, così alla francese, che ho inghiottito.
Sì, in fondo marciamo in automatico. Basta farsi prendere la mano. O non.
Guiducci Rosalba. Basta assecondare la nausea col ruttino. Una Diana mild per nuocere gravemente alla
salute. Dunque, cerchiamo di fare luce. Chi è Rosalba Guiducci? Sì, insomma,
tra un crampo e l’altro. Tra un crampo e l’altro sentenziò. Crampo è parola
nobile, colica va già meglio. Chi è costei? Già. Il frigorifero era stato
messo a velocità troppo alta, al massimo grado. Chi sarà stato? Attendo con
ansia quei dolori seguiti da rigonfiamenti violacei e maleodoranti: quel liquido
giallastro che gorgoglia nell’io. Quella materia acquosa in odore di fogna. Intanto ci bevo sopra
una birra ghiacciata. Mai come. Avrà ancora un presente il monologo
interiore? Imbuto parlante. Zigzagando con rabbia, tanto per distrarsi.
Cioè per destreggiarsi. Ogni tanto ha l’impressione di. Velocizza i pensieri.
Una pansè. Viola come l’albatro nell’azzurro
ciel. Ti fai prendere la mano. Poi la miccia s’accende. Muro contro. Un
rendiconto, ecco cosa volevo scrivere. Una specie di rendiconto. Le zanzare ora
pungono anche di giorno. Più infìde. Invisibili e insonore. Ti massacrano.
Chissà perché proprio ai gomiti. A destra e a sinistra. Corro a metterci la AM.
Pungono al tramonto.
Science plan original
light. Ali di gabbiani bianchi mi sfiorano,
mentre attraverso il ponte. Un accumulo di dati. Odore acre di pomata.
Benessere congetturale. Un po’ di chiarezza, please. Si complica. Atti reali in
memoriam. Non sono esente da interferenze. Poggio le scatole di carne sul
tavolo di marmo della cucina. Non so perché m’è venuto in mente. La piazzetta
omeopatica al tramonto, ecco perché. Contemporanei tramonti. Piazzetta
risorgimentale, raccolta. Cristalli di ghiaccio, a scaglie. Me ne sto in
attesa. In cancrena. Troppe cose. Troppe. Troppaglie, Senza problemi. Sempre
seduto da qualche parte, ad aspettare. Troppi farfugliamenti. Quell’angolo con
il ristorante Da Siora Rosa. Accanto
al Museo Sveviano. Solo in panchina, a farfugliare. Come adesso, seduto davanti
al computer. Una volata. Ho attraversato il ponte e sono entrato da Sementi. Poi, appena rientrato. Ancora
seduto. Scocca la scintilla. Sul ponte assolato un’ombra mi viene incontro.
Appena seduto sulla poltrona girevole da ufficio mi viene in mente. Qualcuno.
Qualcosa.
Ci
sono più cose in dieci righe che nel mondo intero. Senza esagerare. Come faccio
a cambiarmi così in fretta. È colpa del movimento. Ci sono troppe cose nella
vita che. Il troppo stroppia. Tante
si risolvono per via cavo. Un groviglio di storie. Dalla materia inerte. E
inerme. Un pozzo di San Patrizio. Un pozzo senza sangue. Quell’andirivieni
onirico non ha senso. Troppi sensi. Nessun divieto. Tramoggia. Travalica.
Inatteso. Il fiato ottuso della sera, a passeggio per le vie del centro.
Trasborda, e questo è niente. Salta, dunque l’unità di luogo. In gramaglie.
Non
è possibile, dice. Non è possibile fare questo. Provochi un corto circuito.
Devi fermarti su una cosa. Una cosa per
volta. Ma se a me, una volta rientrato e seduto, dopo la volata, seduto,
dico. Taglia corto. Perché nulla deve entrare dall’esterno. È una questione di
coerenza. Vabbè, non farò entrare più nulla. Ma di quello cosa ne faccio?
Zanzare a Zanzibar. Cicaleccio notturno.
Poi
allora puoi sognare. Tutto un caos. Ma non puoi svegliarti e inserire la veglia
in ciò che stai sognando. Nooo? Ci vuole più astio nel condurre la réchèrche. Pas de qua. E allora? Dialogo a due voci, sul treno. C’è sempre
qualcun altro, no? Dice. E poi, uno fa sempre qualcosa, no? Si muove,
per la miseria. Alterato, ma con una leggera mestizia. Insomma, che c’entra il
cambiamento di luogo? Non puoi parlare e poi uscire e poi riparlare. Non
funziona. Perché? Acqua in bocca. E
allora le pause di respiro? Perché? Perché queste pause?
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Mario La Carrubba, Plenilunio, 2010
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Non
sapeva più svolgere il contraddittorio. Esce. No. Resta. Paronomasie. Ce ne
vuole a rassegnarsi. Si dirige nell'estasi, e poi si dirime. L’estate è il
romanzo. Davanti a via Bissolati. Dove c’è la redazione di Men. In men che non si
dica. Pantaloni bianchi, estivi. Biascica qualcosa sul mal di reni. Poi si
siede sulla panchina. Assediata. Tralasciare il resto. Troppe birre fanno
venire l'acidità di stomaco. È meglio il vino. In vino veritas. Lo dicevano i latini, mi dice tra lo stucchevole e
il vocabolarioso. Una notte senza cervello. È come un'alga sott'olio. Sono
molte le cose cancellate che non conosco. Scorcio lirico, ecco cos'è. Ma va?
C'è più spago da torcere. Basta cancellare la frase: “Ali di gabbiani bianchi
mi sfiorano, mentre attraverso il ponte”. Ma come? Se è la chiave di tutto. Ma
quale tutto e tutto. Sta zitto. La vita è fatta di soste. Lussuriose. Non ne
imbrocchi una, va là... Flumini era nel buio corridoio, a parlare di
massoneria. Non c'è ombra che tenga. E ripete: “Ma se quella è la chiave di
tutto”? Poi, con un suono nasale se ne esce con un birignao sul suono. Il
corridoio è forse un ingressino. Prima di uscire dalla porta di legno verde
sbiadito. Sulle scale ci sono i Sarrocco. L'infanzia è cupa come una notte
senza luna. Ma c'è qualcuno che ci dà spago. Un po’di bicarbonato per
l'acidità. In tempo reale. Il mondo cammina: è in continuo movimento. Ma sta
zitto tu. Che avevi smesso di scrivere per non stare troppo tempo seduto a
ingrassare. All’ingrosso. Ogni tanto una passeggiata. Scongiurata per il
momento una colite, erutta sapientemente nella stanza. Poi si stacca in uno
zibaldone d’ii. De profundis clamavi.
Tra i banchi, a leggere il libretto della Bur. Lo disturbano i rumori. Non
arriva al punto di. Stanco di leggere saliva. Bava di ragno. Ondulante suono di
cascina. Che ne è oggi del monologo? Il signor Coop, caratterista, col monocolo
che stranamente non gli cadeva anche quando pareva spaventato. Voce impostata.
In completo grigio di gabardine.
Traluceva una qual pallida luce. Dall’impostazione globale. Nasuta. Arsura
estiva da romanzo. Piantonato su un paio di scarpe inglesi, nere. Sciacquarsi
le budella, ogni tanto. Di gran sapore verde. Film anni quaranta. Una discesa
tutta in salita. In croste d'aie sinuose. Così, come sinuosamente andava.
Sceicco dagli organi di organza,
altalenando vai. Possibile riferimento trasognante. Baldanzoso. Brilla di
comune senso proprio. Andante con brio.
Parsimonia dell'occorrenza salivare. Saliscendi. Calava la notte sul caudillo. Mandrillo di Spagna scosceso.
D'antico lignaggio. È pericoloso starsene così chiusi nel guscio. Meglio
scorazzare al sole tra Trieste e Roma, tra piazza Hortis e piazza Cairoli. Due
piazzette patriottarde. Tutta la vita in panchina. Seduto sulla panchina di
piazza Hortis, a gustare uno spicchio di pizza al pomodoro e mozzarella,
accanto al Museo Sveviano. O a piazza Cairoli, col registratore, ed essere
riconosciuti da un tizio che vuole raccontarti tutto. Trentacinque anni prima.
A spiare i movimenti dei fascisti di Belladonna per Men. Rivoluzione sessuale e rivoluzione politica. È pericoloso
così. Ci si rimette il sonno e la testa. Non riesci a dormire. Con le
carabattole in testa. Meglio un caffè e svegliarsi del tutto. Recuperare il
tempo perso. Inerme. La scrittura ti prende e non pensi ad altro. La visita al
museo, dove si conservano alcuni manoscritti joyciani su fogli A5. In bella
copia. Grafia ordinata, in inchiostro nero. Chissà perché quest’anno non ci
sono riandato. Ho preferito visitare quello di Saba, a piazza Verdi. Troppo
sole. Sono stato fortunato, questa volta. Sdraiato sul molo, di fronte a piazza
dell'Unità. Anche la mattina era bello. Ai triestini piace passare davanti al
mare, con la giacca a vento. Anche a me. I gabbiani volteggiano, come a Ponte
Milvio. Due scatolette di Science plan original
light, per Mizzi. Alberto dice
che è un nome ungherese. Il viso stravolto di chi legge e scrive molto.
Soprattutto attorno agli occhi. I capelli arruffati. Come rovinarsi la vita,
scavando dall'interno. Tignoso. Per ritrovare una continuità nel discontinuo.
Marciscente. Joyce non parla mai di se stesso. In lui, tutto è
rappresentazione. Si nasconde dietro le quinte. Si diverte a nascondersi e a
vedere l’effetto sul pubblico delle sue stramberie. Sono la vittima di me
stesso. La mente mi sodomizza. E la carne? Buono il caffè bollente. Ad
aspettare ci si guadagna. Giravolte mattutine, controvoglia. Cattiva
digestione. Ravioli ai carciofi. O il tempo che cambia. Che gira. Polpette di
bicarbonato di sodio disciolte in acqua. Troppo tempo seduto. Stremato.
Scrittura non garantita. Vecchio pudore da gesuita. Non si voltava mai a
guardare fuori dalla finestra. Non si voltava mai a guardare all’indietro. Non
voltarsi mai. Volturno. Qualche volta
ci si diverte. Si può vivere con poco. Occhi ciancicosi. Ciancicati. Mi piace
andare alla GS in orario prandiale. O
portare a lavare la macchina sulla
consolare. Ampio servizio assolato. Invece da Fabio: quindici euro lavaggio a
mano con disinfestazione interna e lavoraccio di raccolta immondizia varia. All’Acqua Acetosa, accanto al Bowling.
Rapida camminata al ritorno, lungo i Sentieri
dei nidi di ragno. Velocemente. Perché le cose della vita sono veloci, in
contemporanea. È l'urgenza che chiama. L'assenza di tempo. Zeitnot. Sempre in contemporanea. Strictu sensu. In contemporanea: suona il citofono. Mi precipito
giù dalle scale. Raggiungo il portone. E i vasi? Risalgo rapidamente le scale,
con l'ascensore. Esco dall’ascensore e mi avvio sul pianerottolo. Si apre la
porta di casa ed esce il figlio con lo zaino in spalle e la chitarra a
tracolla. Allora ciao, vado a Parigi. Contemporaneamente si apre la porta della
vicina ed esce il signore che solitamente prende l'ascensore. Leo mi chiede di
riaprirgli la porta dell'ascensore con la chiave. Così, all'improvviso. Mi aspetta
di sotto. Allora ciao, in bocca al lupo. Crepi. Entro in casa con le calle, che
deposito nel lavello non senza agitazione. Apro la finestra del balcone della
cucina. I vasi bianchi contengono altri vasi. Telefono a O. Anche i vasi che
stanno sopra? No. Solo quelli bianchi. Afferro i vasi lunghi e riscendo di
corsa per le scale. Sta parlando con l'inquilina il cui marito è un mezzo
delinquente che mi ha rubato venticinque euro insieme al compare. Baci e
abbracci. Allora parte. Le viene da piangere. Sì parte. Ecco la vita, nella sua
cruda immediatezza. Non si ha il tempo di pensare. Poi, lunghi eoni di tempo,
senza che accada più nulla. Già. Questa è la vita. Fatta di porte che si aprono
e si chiudono. Lungo i cisposi sentieri. Il tempo di farsi una doccia. Ed ho
narrato in fretta i fatti. Tralasciando qualcosa. Nella sua stanza Foglie d'erba. Si danno il cambio: ora
si farà sentire l'altro. O gli altri due. Notazione seconda: il dramma avviene
sempre con la persona sbagliata, con quella che non vorresti avere sotto tiro.
Stessa cosa L'anno scorso a Marienbad.
Si fugge sempre, poi, a un certo punto, non più. A cercar fortuna. La stanza del figlio. Neanche il tempo
di salutarlo per bene. Io stesso, mi
scopro a pensare, ben poco so della mia vita vera. La partenza d'un figlio
ormai trentenne per Parigi alla ricerca di “realizzazione” fa sempre un certo
effetto. Ci si sente improvvisamente spogli e, in genere, non si è mai
all'altezza della situazione. Anche se non è mai la prima volta. Sono più di
dieci anni che porto le stesse lenti multifocali. Non so cos'ha fatto; ma
qualsiasi cosa abbia fatto, continui così, gli disse l'ottico qualche hanno fa.
La vista s'è fermata. Ci si lascia cogliere in fallo dalle micronarrazioni. Inevitabile per un concorso di colpa così.
Misteriosa anabasi. Panta rei. Un
solo rimpianto: non riuscirò mai a leggere tutti i libri della mia biblioteca.
Alcuni giacciono lì da secoli. Solo qualche pagina: Devoto, Il linguaggio d’Italia, letto circa un
terzo, circa un terzo di secolo fa. Proprio la sua età. Peggio si va con Dodds,
I greci e l'irrazionale, con
tentativi plurimi di lettura non mai superiori a una decina di pagine. Questa
sarebbe un'altra storia. Ha un effetto castrante. Lui. Ho resistito come ho
potuto. I figli ti spiano. Guardano con giusto sospetto al mestiere di
scrittore. Mentore che mente, sapendo si mentire. Qualche volta ha successo. E
questo lo accartoccia su se stesso. Lo rende improbabile. Oggi, entrando in
classe un alunno Kosovaro mi domanda se Trieste fa parte della Slovenia. Altro
racconto, in altro tempo. Atterrito, ammiro la fitta rete che ci sgretola. La
comunicazione non è più un problema. Partire è un po’ morire.
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Vincenzo Marsiglia, Baroque Ambient, 2014
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II.
(1989)
Gli stessi,
che quello stupido libro chiamato
Bardo
Todol
si porta dietro e propone da poco
più di quattromila
anni.
Perché?
Chiedo semplicemente:
Perché?
...
(Antonin
Artaud, Artaud le Mômo)
Sono
già tredici giorni ch'è partito. Son tre
notti che non dormo. Jacques Le Mômo
alle prese con problemi più grandi di lui mi accompagna lungo la scesa di Via
Fonteiana. Scelta sul tipo di studi. Spesso a passeggio insieme. Il giro del
palazzo. Nottataccia. Telefonato a scuola. Non nascondere nulla. Non nascondere
il nulla. Inutile cercare di mettere
ordine. Tredici giorni senza scrivere è troppo. Si potevano scrivere altre
cinquanta pagine. Una vita a imbrattar carte. Senza capo né coda. Solo con
ostinata incostanza. Birra da Michele. Con lo sconto. Una cassetta di birre bio da Michele. A un buon prezzo.
Scendere a buttare il sacchetto d'immondizia. È già tardi. Anche con
l'intontimento. Oppure aspettare ancora. Lemme lemme. Altri due pacchi di Diana specially mild per continuare a
nuocere gravemente alla salute. Solitudine agreste. Urbana, Lacustre,
Appenninica. Solitudine ovunque. La testa è pesante. Mi cade sulla tastiera.
Jacques L.M. è arrivato sere fa ed è
restato a cena. Problemi di lavoro e di salute. Lasciato con la ragazza. Un
mese e mezzo. Non resta che bere birra. Solita telefonata da numero riservato sul cellulare. Quattro
o cinque nel mese di maggio. Comprare anche un pacco di cialde di riso
soffiato, con qualcosa da spalmarci sopra. Crema di tofu al tonno, o di olive.
O qualcosa d'altro. Banana della GS Viver
sano, lasciano un cattivo sapore di cantina in bocca. Meglio quelle di Michele.
Verso mezzogiorno. Riuscire a vestirsi. E a lavarsi? Una cosa per volta. Solita
passeggiata. Nel pomeriggio telefonata al medico. Certificato e ricetta. Aprire
un baratro, in fondo alla salita. Forse è il modo più onesto di finire. Si
sente pulsare il sangue. Pubblicare cinque o sei pagine al giorno. A volte
possono essere tante. Come oggi. Un sorso di birra fresca mi tirerebbe su.
Avanzata in frigorifero. La ferrovia di via del Porto Fluviale. Ora è riuscito
a conquistarsi un gran finale. La vita non
è elegante. Invidia fraterna. Dallo sprofonno,
o sottoscala “Marcio” riemerge con Entropia
anno 2000, spianato sul tavolo del Casale
Podere Rosa, come da un oblò, in
attesa di cibo bio. Il mondo non
entra nel frigorifero. O sì, sì, invece, che entra. Spalmare qualcosa sul pane.
Ancora una macchia d'olio. Troppo bene così. Maglietta e calzoncini corti.
Calzini di spugna acquistati al Mercatone:
sei paia tre euro. E sandali di nera gomma. Ancora non in forma per scendere.
Più sincero, così. Troppa stanchezza. Un po' di feta sul pane. Non del tutto spalmabile. Friabile. Si frantuma nel
mangiarla. Dolore ai denti ed alle gengive. Da due o tre giorni. Scampato il
pericolo, anche questa volta. La Corona
è ancora bevibile. Fresca sui denti doloranti, soprattutto i molari, da ambo i
lati dell'arcata superiore. Quelli dell'arcata inferiore, persi nel nulla. In
un bacile. Dopo aver sputato sangue. Se non fosse che. Doccia e uscita. La
birra fa pisciare. Anche il Broncolsan,
per il fumo. La tenuta del monocolo
interiore. Non so se. Si fa fatica a terminare. Una pagina elettronica di Word. Uscire senza docciarsi. Chissene.
Oppure
no. Restare. Uscire nel pomeriggio. Continuare con la feta e col vino bianco Chardonnay
da agricoltura biologica. Fino a crollare dal sonno. Poi farsi una doccia e
uscire. Restano ancora le immondizie, e il manifesto da comprare. Le sigarette
possono bastare. Cinzia non ha buttato i numeri vecchi nel salotto, questa
volta. Chissà. Potevo almeno portare a lavare la macchina. Fin troppo bene, così.
A non far nulla. Fuori c'è il sole. Troppo. Ancora due fette di nivea feta su pane morbido e Chardonnay. Si legano bene. Solita
giornata persa. L'ultima volta c'era la visita di Gorbaciov al Papa, in
televisione. Circa quattordici anni fa. Il secolo scorso. L'altro millennio.
Allora suo figlio era uno dei caporioni dell'occupazione del liceo di via
Ripetta. Un caffè Lavazza Espresso Point
a cialde cancerogene, come tutto, del resto. Attendere che il segnale
intermittente si fermi. Led arancione per la temperatura dell'acqua. Quando
l'acqua bolle. Premere bottone a destra rosso per lo Stop. Sulla macchina da
scrivere meccanica. Epifanica. Sui fogli di carta ingiallita c'è scritto:
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Benedetta Montini, Scala n. 6: Azoto, 2013
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III.
(Ballata dell’Olympia)
Traballo un po’
Ma sul tavolino ci sto
Ora che al muro
Sono appoggiata
Traballo lo stesso
Ma un po’ meno
Sempre
in congedo. Quattordici anni fa. Passati in un eone. Un millennio fa. Il secolo
scorso. Avevo ripreso a battere sulla vecchia Olympia al mango. Ora in cantina. Dopo l'Amstrad, prima macchina con videoscrittura. Un ritorno al passato,
allora. Epifanico anch'esso. Innestato la retromarcia. Marmittoni bluastri
grigioneri con tappeti materni e libri paterni in scaffalature imbevute di mordente noce scuro. Alle spalle la piazzola con aiuola assolata, ma non in
quel momento. Il televisore Philips
Matisse e il divano biposto di pelle nera acquistato da Caviglia. L'altro divano di velluto, a
bande rosso-marrone, appoggiato al mobile bar in teak con piano di legno ribaltabile. Soporifero senso di
soddisfazione. Plenitudo dell'io. Fratino in abete color noce scuro con Amstrad. Congedo d'autore. Per la
rassegna Verso il racconto. Stile continuum. Produzione continua di
rifiuti. Maggiore velocità di scrittura. Se te ne vuoi stare a casa a lavorare,
a tentare di rimettere insieme congegni narrativi o anti, se te ne vuoi stare
bellamente a dare parola alla scrittura, oppure a fare quell'impossibile che non riesci a eliminare,
mentre tra un tuono di tarda primavera ed una pioggerellina sottile di fine
maggio, te ne stai a ritentare di varcare quella sogliola su quella poltrona o
seggiola girevole in camposanti alieni. Ma che vuol dire, ti dico. Se te ne
vuoi stare ancora, allora, in quella postura a scimmiottare lepri e vagabondi
del Dharma, in una sintesi assiologica e mostruosa, come inebetito dal
trambusto d'ere e rimesse, in prova continua con te stesso. Se vuoi, dice,
concederti un altro lungo lasso di tempio,
un incunabolo a modo, per tuffarti in una rissosa frequenza di ossimori
danteschi. Allora, vecchia canaglia,
stattene zitto e sodomizza il resto. A capitolare inermi periodi di tempo, a
romperti la schiena su arbusti sempreverdi, con impeto riproduci la fera, il bestion villano che biascica
un cattivo italiano, in latrati oscuri. Ma come lo sussulti il resto? Come? Non
è lasciando tutto al ritmo designato, che puoi cavartela. Quel giorno, in quel
lontano inverno dell’89, non ricordo che piovesse. La macchina rulla sul
mobiletto acquistato a Porta Portese e il rollio sale lungo il muro. Dispettoso.
Fare sentire la propria presenza. Alfabeto morse. Rumoroso. I colpi sui tasti
si trasmettono alla parete, insieme a quelli del mobiletto malfermo. Memoria al
quadrato, al cubo. Accanimento terapeutico. Del tutto alieno. Chiacchiere
all'inferno. Cadaveri in Mozambico. Anche di qua si balla. Lasciare libero il
passo. Nulla di fatto. Homo mnemonicus.
Homunculus. Anche Pablo ricorda.
Vuole tornare a vivere a Via del Porto Fluviale. Dove ha vissuto l'infanzia
povera e la giovinezza. Miseria e abbandono. Padre inetto Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere. Padre ex studente
liceale. Con la scusa di scrivere. Come ingannare il tempio. Bruscoli nell'occhio sinistro. Padre indigente. Scappato di
casa. Anche la madre. Poi scappato di nuovo. Senza una lira, da ragazzo. Ma con
un'idea di borghesia. Una parvenza.
Un soffio. Ricordava lo stesso. Lo stress.
Ora gli sembrava comodo ripensare a
quella prima giovinezza. Dunque l'uomo ricorda. Non ne può fare a meno. È
l'attività più intensa. L'uomo comune non pensa, ma è pieno di ricordi. Ci
ricama sopra, anche. Un rovello di memoria con un pensiero attorcigliato
intorno. Un tortellone. Di cosa si deve dar conto? E a chi? La memoria è la
vita che c'intriga, ci chiede d'essere capita, rappresentata, camuffata. Dunque
aveva ripreso la vecchia Olympia
dell'86, ancora lucida, mai usata, surclassata dalla Canon elettronica prima e da quella per la videoscrittura dopo. La
scrittura su quei tasti procedeva a fatica, una fatica di cui prima non si
aveva la cognizione, perché mancava il raffronto con quella più veloce e
moderna dei computers. In quel salotto dell'89, mentre l'Unione Sovietica
cominciava a sgretolarsi sotto i suoi occhi, si ricordava della sua prima
giovinezza al Flaminio. Coacervo, sì.
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