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di Ennio
Bìspuri
Una limpidezza di linguaggio, un’assoluta pregnanza
semantica e lessicale, una corretta costruzione linguistica e uno stile
scorrevole ed elegante, contribuiscono a determinare una lineare composizione e
permettono di cogliere nei singoli racconti i punti focali relativi alla
psicologia dei personaggi e degli snodi narrativi.
Molto interessanti sono anche gli excursus linguistici
che, con una sottile ironia, talora introducono alcuni racconti, quasi a
riesumare l’antico dibattito tra i nominalisti medioevali come Ockham e
Abelardo, in un confronto tra gli oggetti, i concetti e i ‘nomi’ che li
esprimono, permettendo all’autore di operare giochi linguistici sempre
stimolanti e persino divertenti con la loro dilatazione attraverso diminutivi,
assonanze ecc., che ribaltano, all’inizio dei rispettivi racconti, gli esiti
spesso tragici dei medesimi.
Particolarmente interessante è anche l’alternarsi, nello
stesso racconto, della terza e della prima persona, in un percorso narrativo
che permette all’autore di descrivere e di connettere dialetticamente i dati
quasi documentari dell’esperienza ‘esterna’ con quelli interni del personaggio
che confessa al lettore i conflitti derivati dalla vicenda che sta narrando.
Ciò premesso, è necessario evidenziare subito che
l’intera raccolta, costituita di quindici racconti, presenta una divisione
interna tra tracciati narrativi totalmente fantastici (ma potrei dire anche fantascientifici) e apologhi a sfondo
realistico, ancorché sempre conclusi e racchiusi in un perimetro espressionistico
e surreale.
Appartengono al primo gruppo i racconti La donna dei ritratti (che dà
inspiegabilmente il titolo alla raccolta), Metropolis,
Gioco di specchi, All’isola, Il giardino di sangue, Sotto
osservazione, Un delitto, Ombre.
Appartengono al secondo gruppo i racconti Fantasie e fantasmi, L’abito marrone, L’appuntamento, Andata e
ritorno, In famiglia, L’altro e Visita di controllo.
Il gruppo dei racconti fantastici risente di alcuni
influssi letterari ricorrenti ed esplicitamente evocati dall’autore, che fanno
capo a Jorge Luis Borges e ad Adolfo Bioy Casares a Julio Cortázar, a Gabriel
Garcia Marquez e a quella letteratura latino-americana aperta verso il
fantastico, che nel caso di Morgia si sposa però con atmosfere e influssi anche
opposti, come quelli ruotanti intorno all’angoscia e all’annientamento
dell’individuo (Beckett, Kafka), presenti anche nell’espressionismo sia figurativo
sia cinematografico, ma anche con atmosfere e influssi diversi, vicini al
romanticismo, come von Kleist e Hoffmann. Così i temi tanto ricorrenti
nell’universo poetico di Borges e degli altri scrittori latino-americani, come
il gusto della metafora, il gioco degli specchi e delle ombre (nel caso di
Cortázar, come ne La invención de Morel,
addirittura fotogrammi strutturati in forma umana), il viaggio, la biblioteca e
il doppio, si ritrovano tutti in questi racconti fantastici, senza escludere Cegueira (Cecità) di José Saramago, che è forse il testo più vicino alla
poetica di Morgia. Ma anche Italo Calvino, Tommaso Landolfi, Dino Buzzati e
perfino Poe e Adalbert von Chamisso sono presenti nelle fonti ispirative
dell’autore, che previlegia il Mistero attraverso la rappresentazione di
contesti labirintici (o concentrici) nei quali l’individuo si smarrisce e si
perde in una sorta di autocombustione psicologica.
Nel primo racconto, La
donna dei ritratti, che parafrasa esplicitamente il film di Fritz Lang del
1944, The Woman in the window,
tradotto male in italiano con La donna
del ritratto, un tale Thomas Brown, che vive in un luogo indefinito, si
vede arrivare una lettera che gli comunica di aver ricevuto una cospicua
eredità da una persona che si chiama come lui, deceduta a Dublino. Di qui un
viaggio rocambolesco e labirintico del protagonista, che finisce per relegarsi
in una gigantesca biblioteca che contiene tutti i vocabolari di tutte le lingue
esistenti e che diventa praticamente la sua tomba, mentre la donna dei
ritratti, Elisabeth, appare e scompare come una larva evanescente,
inafferrabile e misteriosa.
Nel secondo, Metropolis,
che già nel titolo vuole essere un altro omaggio esplicito al Fritz Lang di Metropolis (1927), ma anche a Bioy
Casares, risulta costruito su un intricato scambio di manoscritti, sul mito di
una Società Perfetta (in fondo è la Repubblica di Platone con esiti rovesciati,
governata da scienziati-saggi e divisa in lavoratori e guardiani) che persegue
il programma di eugenetica razziale molto simile a quello messo in atto dal
Nazismo.
Il terzo racconto, Gioco
di specchi, costruito con minore carica fantastica e rimanendo ancorato a
una sola idea centrale, che richiama vagamente Le città invisibili di Calvino e Das Schloss di Kafka, con una conclusione persino dantesca,
presenta una sua particolare bellezza, freschezza narrativa e originalità.
Lo stesso vale per All’isola,
una grandiosa e ben costruita metafora che ricorda Il deserto dei Tartari di Buzzati, La invención de Morel di Cortázar e il film del 1969 Sotto il segno dello scorpione dei
fratelli Taviani, dove prende corpo il tema dell’assenza e insieme della
minaccia.
Il giardino di
sangue è un racconto fiabesco
ispirato esplicitamente alle Mille e una
notte.
L’idea di Sotto
osservazione, centrata su un neonato-ottuagenario in fuga, che viene
emarginato e abbandonato in una stanza, è interessante e angoscioso, quasi a
esprimere una diagnosi catastrofica, che richiama la banalità del male, su chi oggi viene al mondo per vivere in una
società disumanizzata e dominata da una ferocia senza alternative.
Ombre è costruito su un tema ricorrente nella letteratura
fantastica, in modo particolare nel racconto Peter Schlemihl, scritto da Adalbert von Chamisso nel 1813 e uscito
in Italia con il titolo L’uomo senza
ombra. Nel racconto di Morgia la metafora viene però rovesciata: non è un
uomo che deve tornare in possesso della sua ombra perduta, ma è un’ombra,
appartenuta a un uomo appena deceduto, che deve trovare un uomo privo di ombra.
Questo personaggio evanescente, che somiglia molto all’Unheimliche (il Perturbante)
di Freud, riorganizza la sua vita come se fosse un individuo vivo (“Nel
prendersi il padrone, la morte si era dimenticata di me”, pag. 211). Non
riuscendo però a suicidarsi, l’ombra si trasforma in un pluriassassino fino a
incontrare finalmente un uomo senza ombra al quale apparterrà a pieno titolo.
Un delitto è un racconto che descrive una pulsione a uccidere di ascendenza
gidiana da parte del protagonista chiamato con l’iniziale M., che vuole dare
senso alla sua vita e giustificare la sua esistenza uccidendo senza motivo
qualcuno che non conosce. M. è molto accurato nel vestire, metodico e maniaco
dell’ordine (come spesso lo sono gli assassini o presunti tali, per esempio
l’indiziato Bossetti, che ripeteva sempre gli stessi gesti tutti i giorni), ma,
non riuscendo a trovare nessuno adatto per essere ucciso, decide di uccidere
varie persone o recuperare e sezionare vari cadaveri nei cimiteri, per
ricostruire con l’ausilio della stregoneria e attraverso organi diversi, come
Frankenstein, una creatura chiamata W., a lui perfettamente somigliante.
Un discorso diverso caratterizza gli spaccati offerti
dalla quotidianeità dilatata fino all’ossessione e dalla ripetizione maniacale
di gesti insignificanti che i racconti a sfondo realistico presuppongono e
implicano, rispecchiando il vicolo buio lungo il quale cammina l’uomo
contemporaneo, dominato da una banalità (ancora la banalità del male!) che uccide il pensiero e la stessa felicità.
Tutti questi racconti sono costruiti all’interno di un
tracciato narrativo molto nitido nel suo realismo marginale, che si ripete con
variazioni irrilevanti, avendo come protagonista sempre lo stesso personaggio, chiamato perfino
con la stessa iniziale M. (M. come Morgia? M. come maniaco? M. come Mörder, il Mostro di Düsseldorf?) e su uno sfondo
realistico che previlegia l’antropologia quotidiana con tutte le sue
contraddizioni e le relative angosce, connesse con la difficoltà di vivere e di
comunicare.
Si tratta di personaggi solitari, scontrosi, abitudinari,
percorsi da turbe e fobie con coazioni a ripetere e con pulsioni omicide e
autodistruttive.
Particolarmente bello e ben strutturato è il racconto Fantasie e fantasmi, nel quale il
personaggio solitario M., maniaco e preciso fino all’ossessione di costruirsi
un inventario degli oggetti insignificanti che si trovano nel suo appartamento,
si accorge che qualcuno, non visto, sposta gli armadi, i letti, distrugge il
vasellame ecc., insomma irrompe nel suo Ordine e violenta la sua casa. Convinto che possa essere la sua domestica,
la licenzia, fa installare telecamere a circuito chiuso, si compra una pistola
e rimane in attesa, finché un giorno avverte un rumore che proviene dalla
camera da letto; vi si precipita, scorge un’ombra riflessa sullo specchio dell’armadio e apre il fuoco. Lo specchio si frantuma, ma M. ha ucciso se
stesso.
Ben strutturato e molto originale come metafora
chiaramente espressionistica, è il racconto
L’abito marrone, che descrive l’ossessione di un uomo dominato da una
coazione a viaggiare in treno per andare a Sondrio, dove però non ha niente da
fare, oppure in altre località italiane che nemmeno conosce. L’importante, per
lui (ed è la seconda ossessione) è avere un bell’abito da indossare. Al termine
della parabola, l’uomo girovaga per le stazioni e vi trascorre anche la notte,
finché, a lungo andare, non ha più il suo bel vestito marrone ed è costretto a
vivere come un barbone coperto di stracci.
Ugualmente ossessionato dall’indossare un bel vestito è
il protagonista anonimo (è scritto in prima persona) del breve e uno dei più
riusciti racconti, L’appuntamento,
nel quale si descrive un’altra sindrome maniacale di un uomo che, con una
qualche assonanza con il Godot di
Beckett, deve presentarsi tutti i giorni, ossessivamente attento alla
puntualità, a un appuntamento per aspettare qualcuno che non viene.
Sulla stessa linea è da collocare Andata e ritorno, che, a mio avviso, è il più bel racconto
dell’intera raccolta.
Compiuto e ricco di implicazioni sul piano dell’analisi
sociologica e imparentato con la poetica dell’Espressionismo, che sembra
trasformare in una forma metafisica esagerata lo smarrimento e il naufragio
anagrafico pirandelliano di un Mattia Pascal del Duemila, il racconto ha come
protagonista un ispettore ministeriale, il professor Carmine Poma, che rientra
da un viaggio di lavoro e non è più riconosciuto dalla sua famiglia e da tutti
i suoi amici. Infatti nonostante le sue proteste è stato dichiarato morto, con
tanto di data sui necrologi dei giornali, fino a essere costretto ad
autoemarginarsi, senza poter reagire, e a spegnersi in un progressivo quanto
inarrestabile degrado.
In famiglia esprime in forma ben costruita e con una drammaticità
silente l’emarginazione radicale di un travet quasi fantozziano, il ragionier
Trani, costretto a scendere tutti i
gradini di un isolamento senza speranze sia sul lavoro, dove viene minacciato
di licenziamento, sia in famiglia, con la moglie e i figli che si vergognano di
lui.
Come nel caso del professor Carmine Poma, anche il
ragionier Trani deve prendere atto dell’ostilità granitica che il mondo intero
riserva nei suoi confronti.
Sarà così costretto ad adattarsi e a dormire in un
“vecchio cesso inutilizzato” (pag. 248), da condividere con altri, dove, quando
si addormenta, può rivedere solo in sogno, senza però riconoscerli, i volti
della moglie e dei figli.
Di fine struttura narrativa con evidenti incidenze
espressionistiche è il racconto L’altro,
centrato ancora su un protagonista chiamato M., un famoso professore
universitario dalla folta barba, che, dopo essere stato lasciato dalla moglie
Eleonora, si ritira a vivere da solo in un elegante appartamento sull’Aventino,
a Roma, e nel corso delle varie notti trascorse alla scrivania per scrivere un
libro, si accorge che in una stanza di un appartamento di fronte, c’è un uomo
chino sulla scrivania come lui, con la barba folta, a scrivere alla luce di una
lampada, mentre una donna, molto somigliante alla moglie Eleonora, a una certa
ora della notte gli porta il caffè e lo bacia. Preso dalla curiosità, M. passa
molte notti a scrutare quell’uomo, finché alla fine, tornato all’università per
fare lezione, si rende conto che nessuno dei suoi allievi lo riconosce, mentre
l’altro, proprio quell’uomo scrutato
tutte le notti e a lui somigliante, con una folta barba, ha preso il suo posto
e sta facendo lezione ai suoi allievi.
Il tema del doppio ritorna nel racconto Visita di controllo, incentrato su un
attore di teatro, Andrea G., che è ossessionato dal fatto che i personaggi da
lui interpretati possano materializzarsi ed ergersi contro di lui o che la sua
mente possa partorire i suoi fantasmi (“Morire come persona e rinascere in un altro,
privo di una vita autonoma, ma vivo grazie alla mia interpretazione”, pag. 282;
“…la mia mente potesse arrivare fino al punto di materializzare i suoi
fantasmi, dando loro un corpo”, pag. 283). Anche lui, come tutti gli altri
personaggi dei racconti precedenti, si isola dal mondo e fantastica di aprire
una scuola di recitazione (“il teatro è stregoneria”, pag. 286) e di recitare
tutte le parti, anche femminili, di King
Lear, solo nella sua stanza, in una allucinazione che diventa placenta
della sua stessa follia e il segno di una guarigione a rovescio.
Sostanzialmente l’universo umano che scaturisce da questi
racconti presenta i connotati della desolazione. È un universo evidentemente
caratterizzato e connotato dal Vuoto, come se tutti gli impulsi positivi negli
esseri umani si fossero disseccati e prosciugati gradualmente, per dar vita a
creature moralmente sghembe e psicologicamente deformi. È tuttavia un universo
tutto e solo maschile, nonostante il titolo sembri indicare il contrario. Tutti
i personaggi sono uomini, con l’aggravante che le poche donne che vi compaiono
sono solo comparse che svolgono ruoli di domestiche, di badanti o, al più, di
amanti occasionali o di mogli pedanti. Viene da pensare che l’autore ha volutamente
esonerato la donna dal comparire come protagonista nelle sue storie proprio per
mettere nel cono della sua nera luce narrativa solo personaggi maschili oscuri
e repellenti, incapaci di vivere e schiavi delle loro fobie distruttive e
autodistruttive, come a dirci che la donna ha compiuto in modo definitivo e
irreversibile il suo sorpasso sugli
uomini, relegati pertanto alla loro estrema mediocrità.
Gli apologhi qui presentati, sia quelli inscritti in una
dimensione fantastica sia quelli riconducibili all’interno di un realismo esplicito,
ancorché parziale, compongono un affresco di una società che sembra aver
smarrito completamente i segni della solidarietà e dell’umanesimo, i principi
dell’Illuminismo e della pietas.
Senza alcuna sottolineatura politica o una esplicita
considerazione etica, l’autore, come un entomologo, si limita a descrivere le
varie vicende dei suoi personaggi senza comunicarci alcuna sua condanna e tanto
meno indicarci quale potrebbe essere una via d’uscita da questo mondo malato.
Ne risulta una diagnosi impietosa della società postmoderna, anche se non viene
mai fatto alcun riferimento allo specifico economico, al mondo della
pubblicità, alla cosmologia mediatica, alle magie del web, ai social network,
al twitter, all’uso dei cellulari, dell’I Pad e del computer.
È come se i protagonisti di queste storie semirealistiche
si muovessero in una realtà premoderna piuttosto che postmoderna.
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