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di Alessandro Iovinelli
Chi
ha seguito la produzione letteraria di Eduardo Rebulla ricorderà senz’altro i
romanzi che lo rivelarono tra gli autori più interessanti degli anni Novanta: Carte celesti, Linea di terra, Segni di
fuoco e Sogni d’acqua (tutti
editi da Sellerio). Si tratta della cosiddetta tetralogia dei quattro elementi, giacché i suoi testi si inscrivevano
nel solco dell’antica tradizione empedoclea per la quale l’universo – e dunque
quel che vi accade – va ricondotto a quattro poli: l’acqua e il fuoco, la terra
e l’aria.
In
realtà, poiché questi testi risalgono all’ultimo decennio del Novecento, esprimono
una tendenza dell’età del postmoderno, la quale produsse tra i suoi migliori
frutti una narrativa consapevolmente metatestuale e finanche intersemiotica. A
quel filone, nel quale ritroviamo altri autori italiani – a cominciare da
Tabucchi –, è a pieno titolo ascrivibile l’opera di Rebulla con la sua
scrittura colta ed elegante, il solido ancoraggio nel romanzo storico,
l’attraversamento delle arti figurative per mezzo delle vite dei pittori e dei
loro quadri.
Questa
fase si è chiusa una decina di anni fa, tant’è vero che nel più recente La misura delle cose (Sellerio, 2008) Rebulla
ha rivolto la sua attenzione ai drammi della nostra epoca (la diffusa minaccia
terroristica) e ai grandi temi dell’umanità contemporanea (l’eutanasia).
Nelle
Conseguenze estreme Rebulla cambia di
nuovo registro, ambientazione storica, tematiche.
Siamo
nella sua Sicilia, negli anni del secondo dopoguerra, una fase cruciale nella
storia della regione e del Mezzogiorno tutto, allorché si è formato – per dirla
in termini gramsciani – un blocco storico fondato sull’alleanza tra i
latifondisti e i gruppi mafiosi.
Rebulla
ce lo racconta a partire dall’assassinio di Accursio Ramirez, il segretario
della camera del lavoro di Xacca – entrambi sono nomi fittizi, benché alludano
a personaggi esistiti e luoghi reali. Il romanzo parte da questa scena chiave,
cioè la rappresentazione del delitto, per poi seguire l’inchiesta. Non vi è un
solo protagonista, ma gli eventi vengono ricostruiti da una serie di inquirenti
ufficiali e ufficiosi: il commissario Riera, l’avvocato Montalto, gli amici e i
compagni della vittima, tra i quali Peppino, che è altresì il marito della
nipote prediletta di Accursio, Lina.
Si
avverte la doppia elica della struttura narrativa delle Conseguenze estreme: da una parte, c’è l’architesto di origine
sciasciana con l’indagine come strumento non tanto di detection, ma di riflessione sulle dinamiche profonde della
società; dall’altra, vi è una memoria familiare, della quale l’autore si sente
in debito, e che probabilmente è stato il primo motore della storia che leggiamo,
anzi il collante stesso, quello che preferisce insistere sul vissuto e
sull’introspezione dei personaggi, anziché su elementi esteriori più
superficiali, quali sarebbero i colori del paesaggio o le cadenze dei bozzetti
e delle scene minori. La struttura del giallo tradizionale è infatti un puro
strumento narrativo. Prima di tutto, perché molto presto il lettore comprende quali
siano gli esecutori, i mandanti, nonché il movente del delitto. Ma poi anche
perché, a differenza degli specialisti del genere, da Simenon a Camilleri, il
progressivo accertamento della verità non si traduce in alcuna affermazione
della giustizia. Anzi: accade tutto il contrario. Più chiara è la soluzione del
caso, maggiore è l’opera di occultamento delle prove e di sostanziale impunità
dei colpevoli.
Di
qui il sentimento di frustrazione che si estende dai protagonisti, in primis la tormentata figura del
commissario Riera, al lettore che non può che prendere atto di come le cose
andassero allora – e non soltanto allora – nella lotta alla mafia.
Del
resto, Rebulla non è autore che coltivi il piacere dell’intrattenimento con il
suo lettore. A differenza dello stesso
Sciascia, che resta comunque il suo ideale precedente, non c’è nessuna via
d’uscita dal gorgo, dal labirinto, dalla morta gora in cui affondano i
protagonisti dell’inchiesta e la stessa Sicilia, nemmeno in termini metafisici
o metastorici. La verità non sarebbe stata inaccessibile, se vi fosse stata la
volontà di scoprirla e condannarla. Così non è stato.
Pertanto
tutta la seconda parte del romanzo mostra proprio il contrario di quel che ci
aspetterebbe, se fossimo lettori naïf
di un giallo, anzi dell’ennesimo thriller,
per il quale la nostra industria editoriale stravede. L’intento di Rebulla è un
altro. Allo stesso modo, il suo messaggio è inequivocabile: anche lo stato si
accordò con la mafia, tanto da isolare e punire tutti coloro che provarono a
combattere un tale accordo. La sconfitta dell’unico soggetto politico di massa
che avrebbe potuto cambiare il corso della storia, cioè il PCI, ha assunto
questo significato.
Ci
sarebbero tutti gli estremi per un violento pamphlet
di polemica storiografica e politica. Ma lo stile di Rebulla non è mai
aggressivo e ridondante. Semmai, in lui prevale una sincera pietas per la solitudine dei pochi
rimasti a battersi dentro le istituzioni affinché, se non la realtà storica,
almeno la verità fattuale sia affermata.
Nella
produzione romanzesca italiana, Le
conseguenze estreme rappresenta una nuova tappa di una realizzazione di
alto livello, là dove si combinano due elementi della migliore letteratura: il
carattere inquietante e non consolatorio dello svolgimento narrativo e l’alta
qualità di uno stile incisivo, originale, cristallino.
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