LETTERATURE MONDO
SU ROBERTO BOLAÑO
Il quinto cavaliere dell’apocalisse del moderno

      
Moriva undici anni fa a soli 50 anni il grande autore cileno il cui genio e la cui leggerezza stanno dentro una scrittura elaboratissima e insieme si sviluppano nelle trame di una fortissima autoconsapevolezza storico-letteraria che lo fa degnamente approssimare alle figure poetiche di Rimbaud, Baudelaire, Lautréamont e Mallarmé. Come loro manifestava una lucidità intellettuale e una tensione creativa che toglievano di mezzo qualsiasi illusione, qualsivoglia visione consolatoria e farisaica dell’arte.
      




   

 

di Pippo Di Marca                                                       

 

 

Il ‘selvaggio’ IMMORTALE (ovvero ‘il cervello di un giaguaro’)

 

Se fosse ancora vivo, oggi, 15 luglio 2014, Roberto Bolaño, compirebbe sessantuno anni, essendo morto appena cinquantenne il 15 luglio 2003. Questo dice l’anagrafe, la burocratica, asettica, fredda, ‘falsa’ liturgia degli atti amministrativi che ingabbiano le nostre vite. Ma non è... ‘vero’, per la semplice e incontestabile ragione che Roberto Bolaño, scrittore e poeta cileno nato a Conception e morto a Barcellona, è con assoluta evidenza uno degli ultimi, recenti ‘IMMORTALI’ apparsi e per così dire ‘incarnati’ tra di noi.

Dico questo non per celiare sulla indubbia grandezza di uno scrittore, ma con piena convinzione. Roberto Bolaño potrebbe (uso il condizionale in ossequio alle comprensibili perplessità su quanto affermo di un lettore poco o male informato oppure anche bene informato, ma in disaccordo più o meno radicale, come per esempio buona parte del cosiddetto establishment letterario italiano) essere la ‘reincarnazione’ di Arthur Rimbaud, secondo lui stesso; se non addirittura, secondo importanti critici, studiosi o storici della letteratura latino-americana, un Cervantes della modernità, o se si vuole della post-modernità. È, come che sia, un fatto che a questo autore possono essere accostati – o, per essere più rispettosi del canone occidentale fino ad oggi dato per acquisito, questo autore può essere accostato – oltre ai due giganti già citati, a protagonisti assoluti della letteratura come Cortàzar, Borges, Joyce, Rabelais, Kafka, Baudelaire, Artaud, Lautrèamont ecc... In altre parole apparterrebbe (uso sempre il famoso condizionale) al Pantheon degli ‘Immortali’.





Ma per argomentare in modo meno apodittico e generico restringerei l’attenzione sull’‘immortale’ che probabilmente gli è più vicino, Rimbaud: il poeta più geniale, ribelle al suo tempo e ‘selvaggio’ dell’Ottocento e, forse, di sempre. Lo stesso Bolaño suggerisce, anzi a dire il vero indica esplicitamente, con la superiore preveggenza che direi istintivamente appartiene a chi frequenta le sfere più rarefatte dello ‘spirito umano’, l’accostamento in uno dei suoi capolavori, I detective selvaggi. Un libro di oltre ottocento pagine – pubblicato nel 2003 da Sellerio, traduzione di Maria Nicola e ripubblicato quest’anno da Adelphi con la traduzione di Elide Carmignani – che è uno dei più straordinari romanzi di formazione apparsi nella seconda metà del Novecento e narra le vicende di alcuni giovani poeti ‘perduti’ nel Messico dei primi anni ’70: vi si staglia la biografia umana e letteraria dell’autore sotto le mentite, non tanto!, spoglie del suo alter ego, Arturo Belano, selvaggio protagonista di un viaggio on the road alla ricerca del sacro graal della vita e della poesia attraverso una surreale, allucinata, iperbolica Città del Messico e dentro l’orrore e la violenza del deserto di Sonora, nel Nord del Messico.

In altri racconti o scritti, parlando di sé in modo esplicito o ‘immedesimandosi’ in altri personaggi, per lo più diseredati, perdenti, disperati, vagabondi, ladri, puttane, assassini, pederasti, magnaccia, carcerati, vecchi fuori testa, Bolaño dice: “... Non era Rimbaud, era solo un ragazzo indio, insieme   estremo e ordinario, che ha cercato di strappare la poesia dell’esistenza, di fermare il lento naufragio delle nostre vite, il lento naufragio dell’estetica, dell’etica, del Cile, del Messico e dei nostri sogni del cazzo”. Si tratta, a ben guardare, di una lucida e disperata ‘dichiarazione di poetica’, oltre che di una poeticissima ‘lezione di vita’. Come una radicale dichiarazione di poetica, tutta in negativo, è una  citazione da Artaud posta come una lapide indelebile in esergo al suo ultimo capolavoro, pubblicato postumo da Adelphi, 2666. A partire da una visione nichilista dice, con Artaud: “Ogni  scrittura è una porcata. Chi esce dal ‘nulla’ cercando di precisare qualsiasi cosa gli passi per la testa, è un porco. Chiunque si occupi di letteratura è un porco, soprattutto adesso”. Di fronte al male, di fronte all’insensatezza e alla crudeltà della storia, che cosa può un poeta, un artista? “è la povera bandiera dell’arte” scrive Bolaño “che si oppone all’orrore e si aggiunge all’orrore... Una battaglia persa in partenza, come tutte le battaglie dei poeti... Lo sapeva Rimbaud, che si immerse con assoluto fervore nei libri, nel sesso, nei viaggi, solo per scoprire e comprendere, con una lucidità adamantina, che scrivere non ha la minima importanza: scrivere, ovviamente, è la stessa cosa che leggere e in certi momenti assomiglia abbastanza a viaggiare, e persino, in momenti privilegiati, assomiglia anche all’atto di scopare, e tutto questo, ci dice Rimbaud, è un miraggio, esistono solo il deserto e di tanto in tanto le luci lontane delle oasi che ci avviliscono”. (Oasi, va da sé, intesa come l’intendeva Baudelaire, un altro faro, o ‘immortale’, caro a Bolaño: “... Sapere amaro quel che si trae da un viaggio! Monotono e piccolo il mondo, oggi, ieri, domani, in ogni tempo, ci rivela a noi stessi. Un’oasi d’orrore in un deserto di noia”.)





Roberto Bolaño (1953-2003)


Va detto che nella ‘visione’ di Bolaño, Rimbaud e Baudelaire, insieme a Lautréamont e Mallarmé, costituiscono uno straordinario ‘quartetto’ di poeti che equivarrebbero, sul piano simbolico e su quello del linguaggio, a una rappresentazione dei ‘quattro cavalieri dell’apocalisse del moderno’. E che, a mio parere, il suo grande progetto – non so quanto consapevole, ma sicuramente raggiunto – è stato quello di ‘essere’ il quinto cavaliere. Pur nell’accettazione, anzi nella certezza, della sconfitta, tutta la sua sterminata e inesauribile opera letteraria e poetica è una narrazione devastata e devastante dell’apocalisse moderna, o, tout court, della storia umana in quanto ‘apocalisse’ permanente: a livelli di intensità, lucidità, ironia, sarcasmo, spietatezza, tenerezza, follia e leggerezza rarissimamente raggiunti da cervello, cuore e genio, umani. Ho detto genio e leggerezza non ha caso: la scrittura elaboratissima, complessa, a volte contorta, declinabile a trecentosessanta gradi su ogni fronte del dicibile scorre naturale – lo si sente, lo si percepisce, al di là dell'ovvio impegno, della necessaria concentrazione richiesti – scorre leggera come succede a tutti i veri geni: si mettono al tavolo, si siedono al pianoforte, prendono un pennello e le parole o le note o le immagini sgorgano e si materializzano, lievitano come fossero dettate da un’intelligenza o da una visionarietà superiori. Al netto, s’intende, dal rovello interiore e da una sofferenza che può assumere la maschera di una lucida disperazione intellettuale (pensiamo a Mallarmé, a Beckett) o la forma più dolorosa, ‘tragica’ di lacerante, ineludibile ferita mortale (il cui solo riscatto, forse, potrebbe essere rappresentato dall'illusione dell’“immortalità”). Questo è il caso di figure come Bolaño o Rimbaud o Lautréamont. Finirei, in questa ottica, prendendo a prestito citazioni da questi ultimi due compagni di viaggio o fratelli di Bolaño per restituire e testimoniare come meglio non si potrebbe il suo progetto, la sua poetica, la sua lucidità intellettuale e la sua ‘estrema’ tensione creativa.

Lautréamont, Poesie: “Tutta l’acqua del mare non basterebbe a lavare una macchia di sangue intellettuale”; “Ogni volta che ho letto Shakespeare, mi è parso di sminuzzare il cervello di un giaguaro” – che io, certissimo che Lautréamont approverebbe, mi prendo la libertà, per rafforzare ulteriormente quello che sto dicendo, di parafrasare così: “Ogni volta che ho letto Bolaño, mi è parso di  sminuzzare il cervello di un giaguaro”.

Rimbaud,  dal ‘Battello ebbro’: “... La tempesta ha benedetto i miei marittimi risvegli /... Più leggero d’un sughero ho danzato tra i flutti / che si dicono eterni involucri delle vittime / E da allora mi sono immerso nel Poema del Mare / dove un annegato che delira talvolta discende. / Ho seguito i marosi all’assalto degli scogli / contro i musi dei possenti oceani! / Ho visto il sole basso, bagnato di mistici orrori. / Ho urtato arcobaleni tesi come redini sotto l’orizzonte dei mari. / Ho visto crolli d’acqua in mezzo alle bonacce / e in lontananza , cateratte verso il baratro! /... Lascio un fragile battello come una farfalla di maggio /... Non ne posso più di seguire la vostra scia, vane ombre...”.

 

 

Luglio 2014 




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