di
Pippo Di Marca
Il ‘selvaggio’ IMMORTALE
(ovvero ‘il cervello di un giaguaro’)
Se fosse
ancora vivo, oggi, 15 luglio 2014, Roberto Bolaño,
compirebbe sessantuno anni, essendo morto appena cinquantenne il 15 luglio
2003. Questo dice l’anagrafe, la burocratica, asettica, fredda, ‘falsa’
liturgia degli atti amministrativi che ingabbiano le nostre vite. Ma non è... ‘vero’, per la semplice e incontestabile ragione che
Roberto Bolaño, scrittore e poeta cileno nato a
Conception e morto a Barcellona, è con assoluta evidenza uno degli ultimi,
recenti ‘IMMORTALI’ apparsi e per così dire ‘incarnati’ tra di noi.
Dico questo
non per celiare sulla indubbia grandezza di uno scrittore, ma con piena
convinzione. Roberto Bolaño potrebbe (uso il
condizionale in ossequio alle comprensibili perplessità su quanto affermo di un
lettore poco o male informato oppure anche bene informato, ma in disaccordo più
o meno radicale, come per esempio buona parte del cosiddetto establishment letterario
italiano) essere la ‘reincarnazione’ di Arthur Rimbaud, secondo lui stesso; se
non addirittura, secondo importanti critici, studiosi o storici della
letteratura latino-americana, un Cervantes della modernità, o se si vuole della
post-modernità. È, come che sia, un fatto che a questo
autore possono essere accostati – o, per essere più rispettosi del canone
occidentale fino ad oggi dato per acquisito, questo autore può essere accostato
– oltre ai due giganti già citati, a protagonisti assoluti della letteratura
come Cortàzar, Borges, Joyce, Rabelais, Kafka,
Baudelaire, Artaud, Lautrèamont
ecc... In altre parole apparterrebbe (uso sempre il
famoso condizionale) al Pantheon degli ‘Immortali’.
Ma per
argomentare in modo meno apodittico e generico restringerei l’attenzione
sull’‘immortale’ che probabilmente gli è più vicino, Rimbaud: il poeta più geniale,
ribelle al suo tempo e ‘selvaggio’ dell’Ottocento e, forse, di sempre. Lo
stesso Bolaño suggerisce, anzi a dire il vero indica
esplicitamente, con la superiore preveggenza che direi istintivamente
appartiene a chi frequenta le sfere più rarefatte dello ‘spirito umano’, l’accostamento in uno dei suoi capolavori, I detective selvaggi. Un libro di oltre
ottocento pagine – pubblicato nel 2003 da Sellerio, traduzione di Maria Nicola
e ripubblicato quest’anno da Adelphi con la traduzione di Elide Carmignani – che è uno dei più straordinari romanzi di
formazione apparsi nella seconda metà del Novecento e narra le vicende di
alcuni giovani poeti ‘perduti’ nel Messico dei primi anni ’70: vi si staglia la
biografia umana e letteraria dell’autore sotto le mentite, non tanto!, spoglie
del suo alter ego, Arturo Belano, selvaggio protagonista di un viaggio on the
road alla ricerca del sacro graal della vita e della
poesia attraverso una surreale, allucinata, iperbolica Città del Messico e
dentro l’orrore e la violenza del deserto di Sonora, nel Nord del Messico.
In altri
racconti o scritti, parlando di sé in modo esplicito o ‘immedesimandosi’
in altri personaggi, per lo più diseredati, perdenti, disperati, vagabondi,
ladri, puttane, assassini, pederasti, magnaccia, carcerati, vecchi fuori testa,
Bolaño dice: “... Non era Rimbaud, era solo un
ragazzo indio, insieme estremo e
ordinario, che ha cercato di strappare la poesia dell’esistenza, di fermare
il lento naufragio delle nostre vite, il lento naufragio dell’estetica, dell’etica,
del Cile, del Messico e dei nostri sogni del cazzo”. Si tratta, a ben guardare,
di una lucida e disperata ‘dichiarazione di poetica’, oltre che di una
poeticissima ‘lezione di vita’. Come una radicale dichiarazione di poetica,
tutta in negativo, è una
citazione da Artaud posta come una
lapide indelebile in esergo al suo ultimo capolavoro, pubblicato postumo da
Adelphi, 2666. A partire da una visione nichilista dice, con Artaud: “Ogni scrittura è una porcata. Chi esce dal
‘nulla’ cercando di precisare qualsiasi cosa gli passi per la testa, è un
porco. Chiunque si occupi di letteratura è un porco, soprattutto adesso”. Di
fronte al male, di fronte all’insensatezza e alla crudeltà della storia, che cosa
può un poeta, un artista? “è la
povera bandiera dell’arte” scrive Bolaño “che si
oppone all’orrore e si aggiunge all’orrore... Una battaglia persa in partenza,
come tutte le battaglie dei poeti... Lo sapeva Rimbaud, che si immerse con
assoluto fervore nei libri, nel sesso, nei viaggi, solo per scoprire e
comprendere, con una lucidità adamantina, che scrivere non ha la minima
importanza: scrivere, ovviamente, è la stessa cosa che leggere e in certi
momenti assomiglia abbastanza a viaggiare, e persino, in momenti privilegiati,
assomiglia anche all’atto di scopare, e tutto questo, ci dice Rimbaud, è un
miraggio, esistono solo il deserto e di tanto in tanto le luci lontane delle
oasi che ci avviliscono”. (Oasi, va da sé, intesa come l’intendeva Baudelaire,
un altro faro, o ‘immortale’, caro a Bolaño: “... Sapere
amaro quel che si trae da un viaggio! Monotono e piccolo il mondo, oggi, ieri,
domani, in ogni tempo, ci rivela a noi stessi. Un’oasi d’orrore in un deserto
di noia”.)
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Roberto Bolaño (1953-2003)
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Va detto
che nella ‘visione’ di Bolaño, Rimbaud e Baudelaire, insieme
a Lautréamont e Mallarmé, costituiscono uno
straordinario ‘quartetto’ di poeti che equivarrebbero, sul piano simbolico e su
quello del linguaggio, a una rappresentazione dei ‘quattro cavalieri
dell’apocalisse del moderno’. E che, a mio parere, il suo grande progetto – non
so quanto consapevole, ma sicuramente raggiunto – è stato quello di ‘essere’ il
quinto cavaliere. Pur nell’accettazione, anzi nella certezza, della sconfitta,
tutta la sua sterminata e inesauribile opera letteraria e poetica è una
narrazione devastata e devastante dell’apocalisse moderna, o, tout court, della
storia umana in quanto ‘apocalisse’ permanente: a livelli di intensità, lucidità,
ironia, sarcasmo, spietatezza, tenerezza, follia e leggerezza rarissimamente
raggiunti da cervello, cuore e genio, umani. Ho detto genio e leggerezza non ha
caso: la scrittura elaboratissima, complessa, a volte contorta, declinabile a
trecentosessanta gradi su ogni fronte del dicibile scorre naturale – lo si
sente, lo si percepisce, al di là dell'ovvio impegno, della necessaria concentrazione
richiesti – scorre leggera come succede a tutti i veri geni: si mettono al
tavolo, si siedono al pianoforte, prendono un pennello e le parole o le note o
le immagini sgorgano e si materializzano, lievitano come fossero dettate da un’intelligenza
o da una visionarietà superiori. Al netto, s’intende, dal rovello interiore e
da una sofferenza che può assumere la maschera di una lucida disperazione
intellettuale (pensiamo a Mallarmé, a Beckett) o la forma più dolorosa,
‘tragica’ di lacerante, ineludibile ferita mortale (il cui solo riscatto,
forse, potrebbe essere rappresentato dall'illusione dell’“immortalità”).
Questo è il caso di figure come Bolaño o Rimbaud o Lautréamont. Finirei, in questa ottica, prendendo a
prestito citazioni da questi ultimi due compagni di viaggio o fratelli di Bolaño per restituire e testimoniare come meglio non si
potrebbe il suo progetto, la sua poetica, la sua lucidità intellettuale e la
sua ‘estrema’ tensione creativa.
Lautréamont,
Poesie: “Tutta l’acqua del mare non
basterebbe a lavare una macchia di sangue intellettuale”; “Ogni volta che ho
letto Shakespeare, mi è parso di sminuzzare il cervello di un giaguaro” – che
io, certissimo che Lautréamont approverebbe, mi
prendo la libertà, per rafforzare ulteriormente quello che sto dicendo, di
parafrasare così: “Ogni volta che ho letto Bolaño, mi
è parso di sminuzzare
il cervello di un giaguaro”.
Rimbaud, dal ‘Battello ebbro’: “... La tempesta ha benedetto i
miei marittimi risvegli /... Più leggero d’un sughero ho danzato tra i flutti /
che si dicono eterni involucri delle vittime / E da allora mi sono immerso nel
Poema del Mare / dove un annegato che delira talvolta discende. / Ho seguito i
marosi all’assalto degli scogli / contro i musi dei possenti oceani! / Ho visto
il sole basso, bagnato di mistici orrori. / Ho urtato arcobaleni tesi come
redini sotto l’orizzonte dei mari. / Ho visto crolli d’acqua in mezzo alle
bonacce / e in lontananza , cateratte verso il
baratro! /... Lascio un fragile battello come una farfalla di maggio /... Non
ne posso più di seguire la vostra scia, vane ombre...”.
Luglio 2014