SENSO SCENICO
1.
Proemio
Che c’è di strano in questo: aver
tenuto
dentro un buco recondito quest’osso
dagli anni lavorato ma lucente
come un fossile raro nella crosta.
Straniante è forse avere decomposta
la semenza di altri in questo imbuto
che in segreto mi passa succhi e
mente
di un mondo alterno che mi marca
addosso.
Quando penetrerà il tuo infrarosso
sotto nei grumi a strati della
crosta
forse mi leggerai trasversalmente
forse si chiarirà il mio saluto
spettatore caduto qua nel fosso
inconcludente della mia proposta.
2.
Nel vuoto
Esser sé stesso e insieme farsi
altro.
È in questa ferma fede di
ventriloquo
che l’attore si raschia col suo
equivoco
rastrello genuino e scaltro.
Finché una spugna in testa gli
cancella
l’ora, il pensiero, la postura e il
ruolo:
a un balcone di nebbia il suo
lenzuolo
di paura suda, sbrandella
in fili i lappi di più vite assunte,
l’impuntura del vólto che si scuce
a un madido frontale che gli cuoce
in gola le parole espunte.
Essere fuori, e dentro a un altro
ignoto
per un rapace amplesso? qua, nel
vuoto?
3.
Il doppio
Ma ci pensi? Era un altro. Quello, a
me sconosciuto.
Sorda a tutte le spie del torpore e
del tatto
sfiatata da altalene di contentezza
e noia
era lui che allevavo rimboccavo
condivo.
Scema che non capivo come s’era
perduto
che in quella sua altalena mi
accuzzavo a rimpiatto
che i suoi musi smontavo con un
bacio più scaltro
e facevo novene con le sue mezzevìe.
Quante macellerie la mia carne ha
temuto!
Ma il suo gusto era scaltro, mi leccava
sul piatto
delle notti serene, sulla gola che
aprivo
come esca e crollavo dentro un’asma
di gioia.
Il mio boia è venuto furtivo e
schivo: un gatto.
Scuoiava le mie vene fingendosi
quell’altro.
4.
Il vietato
So che sono matura, conca. Matrioska
forse.
Ma pischellina torno se mi accarezza
lui.
Ogni mese mi salta, le stagioni si
mischiano
sulla sua pelle liscia, sul riso suo
che luccica.
Può essere tua carne – occhi e porte
lo dicono.
Ma madre a lui non sono, semmai
quasi sorella.
Così mi slego e rido, mi spando sul
gasato
sto nella casa giovane che non ho
mai abitato.
Oh il mondo non fa grazie, mi regala
una cella.
L’arreda a colpe e regole, ma il
punto è il mio ombelico
che accalda i baci suoi e oltre ogni
età lo supplica.
Il punto è ancora il tempo fitto
come nevischio
che mi sfarina al gelo se tardo e
tremo in lui.
Ma non è per paura. Per sfinimento
forse.
5.
Deposizione
Era là, bello steso. Dormi? dico.
Poi lo giro e... che spago! Vitreo,
gelido.
Ciglia finte e rossetto
sbaciucchiato.
Al collo un succhiotto o no, forse
un livido.
Se sapevo come s’era ingrippato
fra traveste e viali? Baah! Le
stradico
che il sabato si giocava a calcetto
e lui c’era: un portierone perfetto.
Ora tutto si spappa. Chi era Rico?
E da me vuol saperlo, che c’ho un
brivido
che mi s’appizza ai denti, sì un
tacchetto
a spillo come... in quel piedone alato
alla porta, e là dopo: steso, livido
lui-lui o una parte, un suo gioco,
dico?
6.
Vedovanza
Sventagliando le foto sulla tavola
disciogliendo nell’acqua il suo polase
misurando sul ciglio del terrazzo
quanti passi oltrevolano pù lei
cose e fatti non sono che tue
favole
mi ridico e m’incoccio quella frase
di lei appesa al vuoto del terrazzo
mentre le stendo un no non lo
farei.
Sventagliando le foto come carte
di un suo geloso solitario leggo
in quegli abbracci antichi il suo
disparte
il suo polverizzarsi di sostanza
persa all’aria... e nell’acqua in cui mi friggo
una sete tardiva per avanzo.
7.
Inanità
Caro, accasiamoci... così si
chiude il caso –
sflanella intercalando lei un
sorriso
fiducioso in matrimoni e norme – finiamola
con i nostri vagabondaggi
anarchici.
Annuisce lui torcendosi in un crampo
che fa a fettine addome e identità,
lo macina
sotto un rimorso cronico che pavido!
urla di petto a lei che l’ha
aspettato tanto.
Si attacca l’umido d’agosto sulla
pelle
si addensa la città in una frottola
di turisti e fantasmi e frenesie per
isole.
Si avviano mano in mano lungo l’argine
del loro lago delicatamente immobile
lei lui la loro ligia inanità.
8.
Cronaca
Era rientrato in casa col revolver
ma lei s’era serrata in automobile
il figlio era uno slego di bicipiti
suonavano alla porta due mannìbbali.
Non voglio più sentirmi soprammobile
si disse arrotolando nel pullover
i proiettili e il sogno un po’ cannibale
di divorarla tutta quella bipede.
Il figlio spiccò un fischio e un
destro abile
sfondarono la porta i pii mannìbbali
si spaccò lui la nuca sullo stipite
un colpo partì a vuoto per lo
stabile.
Lei sempre nella Punto,
irremovibile.
Ma il fatto ha un rospo dentro, da
risolvere.
9.
Fra amiche
-
Eeh con le donne era un tipo imbattibile.
Pronto e preciso come un
tirassegno.
Caruccio, premuroso,
imprevedibile... -
-
Ma poi sgusciava a pesce (già, il suo segno). -
-
Ciuleur, cianciuso, una melacotogna
appiccicarsi a un truglio così
amabile. -
-
Finché non è venuta la cicogna
e là si è sdato, niente più,
introvabile. -
–
Forse
era troppo figlio per un figlio? -
–
Certo
era un paraculo parossistico. -
–
Ma vivrà
dove? Resta qualche appiglio? -
–
Chessò...
seguendo un filo un po’ spionistico
pare arruolato e perso per
guerriglie.
–
Ci credi
tu? Per me ha sclerato a mistico. -
10.
Tattoo
Leggimi, perlustrami: è un drago
alato
a serpentine viola il petto, è un
tratto
di foresta amazzonica la schiena,
son roseti spagnoli queste natiche.
Non voglio più la vita mia: è a lato
al sorpasso di me questo coatto
scordare sui colori la mia pena
sgargiarmi addosso biografie
acrobatiche.
Quando l’inchiostro mi si inietta a
pelle
il sangue per seguirlo si scrittura
scarta la buccia delle proprie
cellule
mi intaglia a spuma barca oblò
libellula
mi fa piaga e fenomeno ribelle
che sfrangia il corpo, impalla la
natura.
(da Per sensi e tempi,
Book Editore, 2003)