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di
Desirée Massaroni
Ciò che forse colpisce
di più nell’ultimo libro di Daniele Comberiati, La caduta dei gravi.
Roma, gli anni Novanta, la fuga, è il connubio fra la leggerezza stilistica
e la tragicità con cui l’autore formula i suoi interrogativi, con cui rievoca
gli abissi, il giovanile senso d’angoscia nell’affrontare il mondo e la
vuotezza ontologica della sua generazione. E che le vite ‘di chi non ce l’ha
fatta’, di persone fragili, ci passino accanto quasi inosservate, senza rumore
e scalpore, non può stupire. Nel coevo familismo italiota, di baruffe
letterarie e autopromozionalità, intorno al fenomeno ‘letteratura’, tutto ciò è
esiziale. Così il libro di Comberiati, umile nel formato quanto agile dentro
una narrazione senza presunzioni programmatiche, ci ricorda tra le righe anche
questo. Si direbbe che proprio grazie al suo sofferto e ironico, disperato
quanto incalzante pensiero riflessivo La caduta dei gravi non sia un
lamento, un banale e idealizzato delirio d’impotenza, e sembra in primo luogo
un tentativo di scrittura critica.
“Però si può morire
in tanti modi, e gli anni Novanta sembravano specializzati per inventare nuove
modalità di morte: ci si spegneva per noia, per goffaggine, perché si stava
dentro un tempo che non stava scritto da nessuna parte, non aveva la rabbia dei
Settanta, il declino apocalittico degli Ottanta né l’asetticità futura dei
Duemila. (...) Il meglio è passato e noi non c’eravamo, ce lo dicono
deprimendoci quarantenni che la rivoluzione l’hanno persa davvero, mica come
noi, che non abbiamo neanche questa possibilità (…). Dunque si faceva finta di
fare la rivoluzione e in ogni caso la rivoluzione l’avremmo fatta per creare un
mondo che non avevamo pensato noi, eravamo semplicemente manovalanza ideologica
(…)” (p. 12-13).
Ciò che c’è di angosciante dunque non è in uno scontro o in
un conflitto, quanto piuttosto in una tragica compresenza di non-luoghi e di
non-tempi riducibili a un’unica immagine: corpi gonfi, assuefatti, alienati,
che si spengono poco a poco come a voler evitare il confronto con la storia.
Corpi che perdono la loro partita con la storia che è sempre la storia di
qualcun altro per cui, scrive l’autore, “i corpi degli anni Novanta non hanno
mai perso perché non si sono mai messi in gioco” (p. 56). Caduta
dei gravi, di corpi pesantissimi che Comberiati vede staccarsi e piombare giù,
pezzo per pezzo, come i vagoni di una locomotiva che indifferente continua ad
andare avanti. L’autore si reputa d’altronde narratore di una storia che non
esiste, che non è mai esistita; per com’è “così talmente banale e squallida” (p. 5) si sente
coinvolto in un meccanismo cui partecipa sebbene con una costante
consapevolezza che si concatena così a dimensioni diverse e uguali alla sua.
Gli spaccati di realtà sono il quartiere romano Appio Tuscolano brulicante di
personaggi animati da “un fuoco fatuo che sarebbe durato lo spazio ormonale di
un’adolescenza” (p. 13), su cui sembra che cada la colpa per un’insufficiente
azione che li sottrae a se stessi con drammatica inconsapevolezza. E tuttavia
Comberiati è giudice esso stesso del suo personaggio, la cui fuga all’estero
per il precariato lavorativo è soprattutto fuga dalla deriva psicotica di
Giacobbone, Marco, Lorenzo. È fin troppo facile andarsene secondo l’autore
sebbene il ‘distacco dalla realtà’ alluda anche a quello di un’intera generazione
che, nostalgica dei fallimenti, mente a se stessa, finge, reitera una recita di
anacronistiche rivoluzioni.
E tanto è più pungente a tratti la sua ironia, grave il suo
risentimento, tanto più egli si sente schiacciato dal peso della colpa; la forza
della scrittura di Comberiati mi pare sia dunque in una capacità di
mimesi filtrata da riflessioni critiche e da ricordi nostalgici
dell’adolescenza che nel procedere narrativo s’allargano a smitizzazione, a
rabbia verso tutto e in primo luogo verso se stesso. La sua frustrazione
specifica, l’impossibilità di un intervento allora come adesso, si riversano su
questo libro con un cinismo dichiarato come a voler scrollarsi di dosso il peso
di quei corpi e delle insostenibili mura cittadine troppo immobili e troppo
angoscianti per il peso della storia. E le tinte pastello dei palazzi
altrettanto incombenti si fanno spesso mortuarie, riflesso per l’autore di una
nostalgia appiccicosa e lenta. Una sorta di tavolozza espressiva per cui lo
sfondo urbano ne risulta sempre allucinato, specchio di un disagio collettivo
in “un tempo grigio che si credeva di poter colorare con tinte pastello, come
se stessimo ancora nel passato e non ancora nel futuro. Ma allora dove
eravamo?” (p.12).
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