LETTURE
DANIELE COMBERIATI
      

La caduta dei gravi. Roma, gli anni Novanta,
la fuga

 

Cuneo, Le golette, 2014,  pp. 69, € 10,00

    

      


di Desirée Massaroni

 

 

Ciò che forse colpisce  di più nell’ultimo libro di Daniele Comberiati, La caduta dei gravi. Roma, gli anni Novanta, la fuga, è il connubio fra la leggerezza stilistica e la tragicità con cui l’autore formula i suoi interrogativi, con cui rievoca gli abissi, il giovanile senso d’angoscia nell’affrontare il mondo e la vuotezza ontologica della sua generazione. E che le vite ‘di chi non ce l’ha fatta’, di persone fragili, ci passino accanto quasi inosservate, senza rumore e scalpore, non può stupire. Nel coevo familismo italiota, di baruffe letterarie e autopromozionalità, intorno al fenomeno ‘letteratura’, tutto ciò è esiziale. Così il libro di Comberiati, umile nel formato quanto agile dentro una narrazione senza presunzioni programmatiche, ci ricorda tra le righe anche questo. Si direbbe che proprio grazie al suo sofferto e ironico, disperato quanto incalzante pensiero riflessivo La caduta dei gravi non sia un lamento, un banale e idealizzato delirio d’impotenza, e sembra in primo luogo un tentativo di scrittura critica.

 

“Però si può morire in tanti modi, e gli anni Novanta sembravano specializzati per inventare nuove modalità di morte: ci si spegneva per noia, per goffaggine, perché si stava dentro un tempo che non stava scritto da nessuna parte, non aveva la rabbia dei Settanta, il declino apocalittico degli Ottanta né l’asetticità futura dei Duemila. (...) Il meglio è passato e noi non c’eravamo, ce lo dicono deprimendoci quarantenni che la rivoluzione l’hanno persa davvero, mica come noi, che non abbiamo neanche questa possibilità (…). Dunque si faceva finta di fare la rivoluzione e in ogni caso la rivoluzione l’avremmo fatta per creare un mondo che non avevamo pensato noi, eravamo semplicemente manovalanza ideologica (…)” (p. 12-13).

 

Ciò che c’è di angosciante dunque non è in uno scontro o in un conflitto, quanto piuttosto in una tragica compresenza di non-luoghi e di non-tempi riducibili a un’unica immagine: corpi gonfi, assuefatti, alienati, che si spengono poco a poco come a voler evitare il confronto con la storia. Corpi che perdono la loro partita con la storia che è sempre la storia di qualcun altro per cui, scrive l’autore, “i corpi degli anni Novanta non hanno mai perso perché non si sono mai messi in gioco” (p. 56). Caduta dei gravi, di corpi pesantissimi che Comberiati vede staccarsi e piombare giù, pezzo per pezzo, come i vagoni di una locomotiva che indifferente continua ad andare avanti. L’autore si reputa d’altronde narratore di una storia che non esiste, che non è mai esistita; per com’è così talmente banale e squallida” (p. 5) si sente coinvolto in un meccanismo cui partecipa sebbene con una costante consapevolezza che si concatena così a dimensioni diverse e uguali alla sua. Gli spaccati di realtà sono il quartiere romano Appio Tuscolano brulicante di personaggi animati da “un fuoco fatuo che sarebbe durato lo spazio ormonale di un’adolescenza” (p. 13), su cui sembra che cada la colpa per un’insufficiente azione che li sottrae a se stessi con drammatica inconsapevolezza. E tuttavia Comberiati è giudice esso stesso del suo personaggio, la cui fuga all’estero per il precariato lavorativo è soprattutto fuga dalla deriva psicotica di Giacobbone, Marco, Lorenzo. È fin troppo facile andarsene secondo l’autore sebbene il ‘distacco dalla realtà’ alluda anche a quello di un’intera generazione che, nostalgica dei fallimenti, mente a se stessa, finge, reitera una recita di anacronistiche rivoluzioni.

 

E tanto è più pungente a tratti la sua ironia, grave il suo risentimento, tanto più egli si sente schiacciato dal peso della colpa; la forza della scrittura di Comberiati mi pare sia dunque in una capacità di mimesi filtrata da riflessioni critiche e da ricordi nostalgici dell’adolescenza che nel procedere narrativo s’allargano a smitizzazione, a rabbia verso tutto e in primo luogo verso se stesso. La sua frustrazione specifica, l’impossibilità di un intervento allora come adesso, si riversano su questo libro con un cinismo dichiarato come a voler scrollarsi di dosso il peso di quei corpi e delle insostenibili mura cittadine troppo immobili e troppo angoscianti per il peso della storia. E le tinte pastello dei palazzi altrettanto incombenti si fanno spesso mortuarie, riflesso per l’autore di una nostalgia appiccicosa e lenta. Una sorta di tavolozza espressiva per cui lo sfondo urbano ne risulta sempre allucinato, specchio di un disagio collettivo in “un tempo grigio che si credeva di poter colorare con tinte pastello, come se stessimo ancora nel passato e non ancora nel futuro. Ma allora dove eravamo?” (p.12).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




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