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di Alessandro Ticozzi
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1976
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Antonello
ha esordito come autore dialettale (Sora Rosa), per poi distinguersi, anche in lingua, come poeta della sua città (Roma Capoccia, Roma,
Grazie Roma) e di utopie e disillusioni della sua
generazione (Lilly, Compagno di scuola): come furono i suoi inizi?
Come furono non
lo so, però ti posso rispondere come me li immagino. E mi immagino un ragazzo
grasso che neanche in un’epoca come quella – siamo nella prima metà degli anni
Sessanta, e di “culto del corpo maschile” ancora non si parlava – sarà riuscito
a schivare le prese in giro e magari qualche scherzo anche crudele. Meglio
starsene soli nella propria stanza, anzi, “cameretta”. Ed è in quella cameretta
che il giovanissimo Antonio Venditti, 14 anni e 90 chili, “crescendo bene,
grasso come un maiale” (Mio padre ha un
buco in gola) scrive le sue prime canzoni al pianoforte, che suona (o forse
è stato almeno in parte obbligato a imparare a suonare) dalle scuole
elementari. Ecco, gli inizi di Venditti me li immagino così, tra letto
scrivania e sgabello del piano, a provare e riprovare, suonare e risuonare,
cantare e ricantare versi come “A Sora Rosa me ne vado via / ciò er core a pezzi pe’ lla vergogna /
de questa terra che nu mm’aiuta mai / de questa gente
che te sputa ’n faccia / che nun ha mai preso na farce in mano / che se
distingue pe’ na cravatta”. E mi sono ritrovato a
pensare che forse lo stile pianistico percussivo di Antonello e il suo modo di
cantare a gola spiegata portino con sé un po’ di quella rabbia giovanile. Se
invece tu intendessi gli inizi al Folkstudio o cose
così, beh, per quelli c’è Google o – ancora meglio… – il mio libro Ciao uomo (Quarant’anni oltre il sipario)
pubblicato da Arcana.
Come
mai, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, Antonello
abbandona progressivamente l’impegno sociale a favore di un prodotto
confezionato secondo i canoni del pop commerciale italiano, con album quali Sotto il segno dei pesci e Buona domenica?
Prima di
rispondere alla seconda domanda, vorrei cercare di uscire da un equivoco: io
non so perché Venditti abbia fatto questo o non abbia fatto quello, nel senso
che solo Antonello conosce le motivazioni più profonde del proprio agire. Ma
prima di scrivere il mio libro mi sono molto documentato, con un certosino
lavoro di “topo di Internet”, ma anche interpellando colleghi miei e suoi in
grado di aggiungere qualcosa di poco conosciuto o addirittura inedito alla mia
ricerca. Aggiungiamo nello shaker una spruzzata di buon senso, e qualcosa in
grado di riempire piacevolmente il bicchiere possiamo ben dire di averlo.
Quindi, l’abbandono dell’impegno ha avuto sicuramente a che fare con una fase
personale della vita di Antonello Venditti, ma anche di molti altri uomini e
donne della sua generazione (il famoso “riflusso”, l’altrettanto famoso
“rifugio nel privato”). Aggiungerei anche – pur essendo accaduta nel giugno
dell’84 – la morte di Enrico Berlinguer: non credo di sbagliare se affermo che
l’impegno politico e sociale di Venditti dovessero molto alla figura del
segretario comunista. E poi, non è che il pop commerciale sia più remunerativo
della cosiddetta canzone impegnata?
Cos’ha
spinto Antonello a fondare nel 1982 l’etichetta discografica Heinz Music, con la quale ha pubblicato i suoi
successivi album, tra cui In questo mondo di ladri
(1988), Benvenuti
in paradiso (1991), Prendilo tu questo frutto
amaro (1995), Che fantastica storia è la
vita (2003) e Dalla pelle al cuore (2007)?
Anche qui, posso
fare solo supposizioni: per avere il totale controllo della sua attività
artistica (anche sul versante squisitamente economico), per non dover
sottostare ai ricatti delle major, e non parlo di “industria discografica”
perché di quella – anche da indipendente – Antonello ha continuato a fare
parte. Aggiungo che la decisione, presa in tempi “non sospetti”, assume un
valore ancora più importante alla luce di quel che è diventata l’industria
discografica, e anche di quel che ne è rimasto. Oggi, sicuramente, un Antonello
Venditti non potrebbe crescere, se non forse come interprete. Ma passando sotto
le forche caudine di uno dei vari talent.
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Antonello Venditti in concerto
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Che
sorprese ci riserva ancora la carriera di Antonello secondo te?
Ignoro che
sorprese ci possa riservare ancora la carriera di Antonello Venditti, anche
perché altrimenti non sarebbero più sorprese. So però che cosa vorrei
riservasse a me da ascoltatore: un album di cover italiane e straniere, nelle
quali esprimere le sue doti vocali e interpretative. Perché Antonello Venditti
è stato un grande cantautore, ma – età permettendo, e comunque un altro
“Antonio”, Tony Bennett, al di là dell’Oceano canta ancora splendidamente a 88
anni – resta pur sempre un cantante che in Italia ha pochi rivali.
***
Così invece
Ernesto Bassignano ricorda Antonello Venditti nei
suoi primi anni di carriera:
“Alla fine dell’ottobre
del ’68 sono arrivato al Folkstudio, mentre facevo
teatro di strada con Gian Maria Volonté: un amico m’aveva detto che a Roma
c’era un posto bellissimo dove i cantautori si riunivano. Così mi ha presentato
Cesaroni, cui ho fatto sentire le mie canzoni: io fino a quel momento facevo appunto
solo teatro di strada e, avendo appena scritto le mie prime canzoni ispirandomi
a Tenco, De André, Dylan e compagnia bella, mi ha presentato a Francesco, Antonello e Giorgio, che
proprio da pochi mesi avevano cominciato a suonare insieme – in particolare
Francesco e Antonello, perché Giorgio era un chitarrista di Francesco e non di
più: un traduttore di Cohen, ma non un vero cantautore. Da quel momento, essendo
io il più vecchio e politicizzato, decisero di darmi in mano la palla della
faccenda: formammo così un gruppo che abbiamo chiamato “I Giovani del Folk”, e tutte
le sere per duemila lire cantavamo le nostre canzoni insieme a Paolo
Pietrangeli e Giovanna Marini. Avevamo il nostro spazio di cantautori in cui è
nata la cosiddetta “scuola romana”: Antonello l’ho conosciuto lì, e siamo stati
sempre insieme finché lui con Roma
capoccia ha cominciato a diventare più famoso. Io ho continuato a fare le
Feste dell’Unità e la mia vita politica: in seguito l’ho visto poco e ci siamo
allontanati, ma da fine ’68 al ’72 siamo stati molto insieme.
Nei primi tempi
eravamo veramente un gruppo affiatatissimo: lui era un burlone già allora e lo
chiamavamo “cicalone” perché raccontava barzellette ininterrottamente. Cantava Sora Rosa, Lontana è Milano e Gesù
Cristo: queste erano le sue tre canzoni. Lo prendevamo un po’ in giro
perché non gli potevano mai toccare i capelli in quanto aveva paura che gli
cadessero: così noi stavamo sempre a scompigliarglieli. Arrivava al Folkstudio con un maggiolone bellissimo e costosissimo, mentre
noi eravamo con la Cinquecento: era un borghesaccio figlio
di un professore e di una professoressa. Siamo andati in giro a fare i primi
concerti a Foggia, alla Reggia di Caserta e al Teatro Instabile di
Napoli: mi ricordo quei giorni meravigliosi, di cui mi rimane una musicassetta
tutta sgangherata. Eravamo tutti insieme e il pianoforte non c’era mai: quella
volta lui l’aveva chiesto e non ce l’hanno fatto trovare al teatro che era
pieno. Eravamo tutti pronti ad accompagnarlo con le chitarre: qualcuno
sbagliava sempre qualcosa, e, quando lui si incazzava e scendeva dal palco per
andarsene, noi lo riportavamo sopra. Un’altra cosa – che credo sia testimoniata
sul web – è quando abbiamo eseguito le canzoni di Natale insieme a Raitre: io
cantavo a Babbo Natale una specie di swing molto divertente, mentre lui faceva
dei improvvisazioni jazzistiche col piano un po’ a cazzo di cane. Il pianoforte
era vecchio, come tutti gli strumenti presenti nel Folkstudio:
ogni tanto saltavano i tasti per aria, lui li prendeva da terra e, invece di
metterli a posto, li buttava per aria e continuava a suonare senza i tasti.
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Ernesto Bassignano
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Oggi non siamo
più molto amici, e questo mi dispiace: io d’altronde nell’80 sono diventato
critico musicale di Paese sera, ed era
imbarazzante perché dovevo giudicare i dischi dei miei amici. Quelli di
Francesco li trattavo bene, mentre quelli di Antonello progressivamente meno: i
suoi ultimi di cui ho parlato bene sono stati Sotto il segno dei Pesci e Sotto
la pioggia, mentre da Cuore in
poi ho cominciato a trattarlo un po’ male, affermando che aveva tradito la
canzone d’autore per diventare un cantautore pop. Faceva delle canzoni distanti
rispetto a quelle che facevamo prima, e lui diceva che non capivo che erano
cambiati i tempi. La realtà è che prima si scrivevano dei testi che diventavano
pian piano delle canzoni: c’era il motivo, la rabbia e l’occasione. Poi invece è
diventato uno che, insieme a Colombini, andava in sala con cento LP, li metteva
su, sceglievano il riff migliore e più
o meno lo scopiazzavano: così è avvenuto anche per Ci vorrebbe un amico, il cui ritornello è copiato da una canzone di
Springsteen. Seguiva la moda, e di impegnato da parte sua non c’è stato più
niente: anche i tentativi con Berlinguer o l’emigrata suonavano fasulli. L’Antonello
che era stato fino al ’78 era un’altra cosa: uno dei nostri, appartenente alla
canzone d’autore pura, malgrado anche oggi sia un grandissimo cantante e
creatore di canzoni.
Dal punto di
vista umano, Antonello è una persona generosa, simpatica e buona, però con il
passare degli anni – e dei miliardi guadagnati – è cambiato moltissimo. Si è
occupato degli affari, comprandosi anche macchine sempre più grosse: è
diventato un ricco borghese, diversamente da quelli come me che hanno
continuato a fare i comunisti. Si è creata una grossa distanza tra noi: è un peccato,
in quanto Francesco è un solitario incazzato con tutto il mondo che non si può
frequentare, mentre Antonello sarebbe frequentabilissimo, ma se lo incontri ti chiede
se stai ancora facendo l’impegnato con la canzone d’autore, prendendoti in giro
perché dice che hai la coda di paglia. Non ci si può frequentare purtroppo: io
e tanti altri non è che siamo rimasti degli stupidi comunisti di una volta, bensì
gente con una coerenza culturale di fondo fortissima che non sopporta chi ha
tradito l’assunto come lui. Se lo vedo ci salutiamo e ci abbracciamo, ma con molto
imbarazzo perché lui sa che io non lo stimo come persona. Fa dei discorsi
stranissimi come fosse il Papa: io gli voglio bene – e credo che me ne voglia
anche lui – e quando fa un concerto si ricorda sempre di noi, a differenza di
Francesco che non parla mai del Folkstudio. Lui invece
lo ricorda sempre: è un tipo romantico e nostalgico, una persona molto carina,
però ha guadagnato troppo e non sopporto che, vergognandosi di questo, tratti
male le persone impegnate”.
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