di Domenico Donatone
«Se,
dunque, la poesia diventasse esodante, se quella
tessera si staccasse dal resto, se cominciasse a cambiare colore, se - invece
di stimolare atmosfere sognanti, abbandoni panici o mistici, elucubrazioni
solipsistiche orgogliose o disperate - inducesse la gente comune a fissare
l’orrore della storia non con l’occhio paralizzato e compiacente predisposto
dalla TV e dai mass media, se allenasse i lettori a ragionamenti meno aridi di
quelli fatti da troppi politici, filosofi, scienziati, economisti, si
ricostituirebbe un noi non più costretto a nuotare solo sott’acqua, ma
capace di arrivare in superficie, dove forse ci sono cieli più azzurri, venti
più respirabili, e ci si potrebbe orientare verso qualche meta.»
(«Sulla
poesia esodante. Intervista di Ezio Partesana a Ennio Abate»:
http://www.poesia2punto0.com/2013/08/03/sulla-poesia-esodante-intervista-di-ezio-partesana-a-ennio-abate/)
Interessante,
efficace, esodante.
Sono i tre aggettivi che suscita la bella intervista curata da Ezio Partesana a Ennio Abate. Il primo è nato a Milano nel 1963.
Laureato in filosofia con una tesi su Adorno, vive tra
la sua città e Venezia e lavora come traduttore e autore di testi per il
teatro. Tra le sue pubblicazioni più importanti si indica «Critica del non vero»
(La Nuova Italia, 1995). Il secondo vive a Milano dal ’62 e ha insegnato nelle
scuole superiori. Finalista al Premio di poesia Laura Nobile dell’Università di
Siena nel 1991, presieduto da Franco Fortini, ha pubblicato cinque raccolte di
poesia: Salernitudine (Ripostes,
Salerno 2003), Prof Samizdat (E-book edizioni Biagio Cepollaro
2006), Donne seni petrosi (Fare Poesia 2010), Immigratorio (CFR
2011), La polìs che non c’è (CFR 2013). Ha
tradotto dal francese e curato manuali scolastici sulla Commedia di
Dante. È coautore con Pietro Cataldi ed altri del testo Di fronte alla
Storia (Palumbo 2009). Collabora con varie riviste, tra cui Allegoria, Hortus Musicus, Inoltre, Il
Monte Analogo, La ginestra. Dal 2006 al 2012, all’interno delle
iniziative della Casa della Poesia di Milano, presieduta da Giancarlo Majorino, ha condotto il Laboratorio Moltinpoesia.
Condirige con altri la rivista Poliscritture (www.poliscritture.it) e cura il blog Poesia
e Moltinpoesia (http://moltinpoesia.wordpress.com/).
Accogliere
l’intervista sulle pagine della web-review Le reti di Dedalus
è un motivo non solo di ulteriore diffusione del pensiero critico, ma ragione
convinta di accrescimento delle questioni in essa inerenti, del fitto dialogo
tra Partesana e Abate. L’intervista si
sviluppa da un testo di Ennio Abate, dal titolo «Appunti. Per una poesia esodante. Sulla ex-piccola borghesia o ceto medio in
poesia», pubblicato on-line su questa traccia: http:// www.poesia2punto0.com/2012/09/25/appunti-per-una-poesia-esodantesulla-ex-piccola-borghesia-o-ceto-medio-in-poesia-di-ennio-abate/.
Prima
di evidenziare il punto saliente del confronto tra Partesana
e Abate, è necessario un preambolo al brano per agevolare il chiarimento di
alcune posizioni che, come critico, mi saranno consentite. Posizioni che in
qualche modo intercettano quelle sostenute da Ennio Abate.
Teorie
critiche sulla poesia sono state scritte e continueranno ad essere scritte. Si
può teorizzare di tutto. Le avanguardie storiche lo confermano: Marinetti
teorizzava “la guerra come sola igiene del mondo”, Palazzeschi il controdolore, per cui “si può ridere di tutto, anche dei
funerali.” Ennio Abate teorizza la “poesia esodante”.
Una teoria poetico-politica formulata dallo stesso autore, non diversamente da
come fecero Marinetti, Palazzeschi, Breton, Tzara.
Che lo faccia anche Ennio Abate non sorprende. Sorprende maggiormente la sua
teoria: poesia esodante.
Poesia che tende alla fuga, all’esodo. Una fuga da cosa e da chi? Per capirlo
procederemo con ordine.
Più che
un’intervista, trattasi di un vero e proprio dialogo, un vero e proprio
confronto sulla linea di quelli che non si è più abituati a ricevere. Qualcosa che
in sé ricorda i tempi d’oro di fervente polemica tra Pasolini e Fortini. Il
tempo dei poeti di Officina, che
possono essere considerati gli ultimi veri poeti d’Italia del secondo
Novecento. Il tema che regge il confronto è il seguente: poesia esodante. Cosa vorrà dire? Bene,
dalle domande di Partesana ad Abate, che risponde non
in qualità di critico letterario, di esperto tecnico, ma in qualità di poeta-critico,
perché è la stessa scrittura poetica un atto critico, di interrogazione su un
tema, si evince chiaramene il pensiero di Ennio Abate. Un pensiero di nobile
levatura. Un pensiero la cui cifra semantica ricade sul lettore come ulteriore possibilità
di capire e stabilire l’efficacia perdurante dell’azione critica. Prima di
specificare cos’è e cosa s’intende per “poesia esodante”,
Ennio Abate specifica quali propositi, quindi quali “legami culturali” danno vita
al concetto di poesia esodante.
|
Oronzo Liuzzi, Meteorite di poesia (035), 2013
|
Abate afferma: «Per
“legami espliciti” tra poesia e storia intendo in primo luogo quelli che la
poesia intrattiene con tutto il sistema dei saperi
umanistico-scientifici. E poi quelli con tutti i linguaggi (gestuali, visivi,
simbolici, astratti) che sono delle vere e proprie correnti oceaniche. Ma non
basta. La poesia è legata ai corpi. I poeti stessi sono corpi che interagiscono
con altri corpi (di singoli, di gruppi, di folle; e ci metterei persino i corpi
“istituzionali”…). E poi non ha forse legami col
tempo? Con gli anni in cui quel determinato poeta vive, ma pure con gli anni o
i secoli che il poeta riesce a riassumere in sé, quando accoglie ora una tradizione
durata a lungo o ora solo pochi anni “rivoluzionari”? Quindi la mappa dei
“legami espliciti” potrebbe essere cercata in un conglomerato che potrei
chiamare: poesia-saperi-linguaggi-corpi-tempo
(esistenziale, storico). Tali legami, però, diventano “impliciti”, se occultati,
velati, ridimensionati, trascurati da quanti pensano la poesia come fosse o
dovesse essere la negazione della storia o del “reale”
[…]».
La domanda che segue meglio evidenzia i
contenuti socio-culturali e anche politici di questo tipo specifico di poesia.
Infatti, Enzio Partesana chiede: «Vorrei allora chiederti quali siano
gli strumenti di chiarificazione o, detto altrimenti, se tu scrivi che: “La
poesia esodante è il tentativo di rompere gli
steccati [...] in cui oggi sta una certa poesia”; vorrei tu indicassi in primo
luogo quale sia la necessità (anche politica, naturalmente) di questa rottura
e, in secondo luogo, quali siano gli strumenti attraverso i quali questa
rottura dovrebbe consumarsi».
Abate risponde: «Non
ho indicato “gli eventuali ‘strumenti’ di una rottura” perché, nella confusa
crisi che viviamo dopo l’eclisse di qualsiasi progetto “forte”, evocare o
auspicare genericamente delle rotture in assenza di soggetti chiari e
affidabili mi pare un azzardo. Se ci troviamo al buio, meglio non agitarsi.
Tanto più nel campo della poesia. Anche qui le conclusioni di certe rotture
“rivoluzionarie” (ancora la neoavanguardia!) le abbiamo pur viste. Si sono
avute mere spartizioni, del tutto “endo-accademiche”,
del potere culturale: al tradizionale baronato universitario s’è associata una
quota di nuovi baroncini (anche sessantottini), tra i più svelti a legarsi, qui
in Italia, prima all’industria culturale e poi a quella dello spettacolo. E
oggi la sfera del “consumo di poesia” è del tutto congeniale a un “momento
produttivo” sì, ma direi di poesia “per universitari”.[…] Non vedo
quasi più punti d’appoggio per un intervento di gruppo. Perché – ripeto –
soggetti, capaci non di consumare ma di usare/riusare criticamente la poesia
(passata e presente) in vista di un possibile nuovo progetto, non se ne vedono.»
Lo scenario che descrive Ennio Abate è
intellettualmente fermo e decisamente preciso sulla condizione
cultural-politica dell’Italia. Possibilità per sollevarsi dalla crisi, usando
la metafora della poesia e usando, in sostanza, la poesia stessa, non ci sono.
Non è Abate ad essere eccessivamente pessimista, è il mondo che è cambiato
drasticamente. L’esigenza che si pone è, appunto, quella dell’esodo. La
fuga! Un punto interessante quanto ordinario, che sembrerebbe così legarsi ad
un sentimento abbastanza diffuso in caso di incendio politico-culturale. Se la
casa brucia, bisogna fuggire. L’Italia è in fiamme, molti si danno alla fuga. Sul
termine “esodo” sia Partersana che Abate si stimolano
a vicenda, ripercorrono storie e vicende della cultura letteraria più recente senza
porsi limiti e pregiudizi. Partersana è subito aperto
al dialogo, lo intercetta non solo come possibilità di confronto ma come
esigenza sia interna che esterna al luogo del tema affrontato. «Capisco... è per questo allora che
hai scelto il termine “esodo”? Se la risposta è affermativa mi rimane però un
dubbio che la derivazione filosofica della parola da te usata da, diciamo, Toni
Negri, non chiarisce: la fuoriuscita è solo dalle istituzioni poetiche, quella
che potremmo chiamare la sfera della circolazione della merce-poesia, o anche
dalla poesia in quanto tale? Ti domando, insomma, se credi si debba uscire
dalle contraddizioni della poesia verso qualche cosa d'altro, e se sì, cosa?».
La risposta di Abate è decisamente
interessante: «La
parola ‘esodo’ ha un affascinante alone, soprattutto biblico e più recentemente
politico-filosofico (Walzer soprattutto; e poi da noi Negri, Virno ed altri).» C’è un’immagine, però, che meglio qualifica
l’esodo: la gabbia. Ennio Abate riproduce un suo testo poetico, ascrivibile
all’idealità di Pasolini e di Roversi, efficacissimo sul piano della
comunicazione intellettuale e filosofica.
Esodo
Nell’esodo
dunque.
La
tana di sempre sfondata.
La
gabbia approntata da secoli
aperta, finalmente deserta…
|
Giuliana Laportella, Senza titolo, 2012
|
«Non li commento o spiego.», dice Abate
riferendosi ai versi sopra citati, «M’interessa
quella immagine della gabbia. In essa vedo adagiata anche una certa poesia:
quella cortigiana che produce la merce-poesia, mentre la poesia più inquieta –
romantica o critica – ha tentato sempre di uscirne.» L’intento del poeta è di
riprodurre l’efficacia dei versi, il senso pragmatico della poesia, intesa non
più come astrazione scolastica, per cui letta e in parte vissuta nelle aule, la
poesia torna ad essere l’eterna assente nella vita delle persone. C’è uno scopo
da perseguire. Lo scopo è teorizzare una diffusa sistemazione politica e
letteraria della poesia. Abbracciare la storia: è questo quello che vuole la poesia esodante.
Consentire non le solite spartizioni del potere editoriale e universitario, ma superarli,
andare oltre quella gabbia di successo borghese e far sì che si possa respirare
un modo di fare poesia davvero libero, serio, decisamente saldo ad uno schema
di relazione e di valori socio-politici e culturali pronti a fare distinzione
tra poesia e poesia, non come lo faceva Croce, ovvero sulla base di un
idealismo troppo a lungo abusato, ma su una base concreta di relazione
poesia-storia, poesia-linguaggio. Messo dinanzi all’incalzare delle domande di Partesana, su modelli di poesia-esodante,
Abate espone in 14 punti, tratti dal libro Per
una poesia esodante, la sua tesi. La poesia esodante deve, in sostanza, corrispondere a questi
obbiettivi:
·
attenzione
vigile a «pensare l’orrore del mondo e
della storia» che viviamo e subiamo, ma allo stesso tempo convinzione che «pensare in poesia l’orrore del mondo non
può significare cedere a tale orrore, al Niente».
·
sforzo
di destarsi dal «sogno della poesia» (non esiste in questi versi nessun abbandono all’«oasi di piacere-libertà-bellezza della
Poesia». Piuttosto piena
consapevolezza che la poesia, di per sé, non è libertà. E – aggiungerei – che i
poeti esodanti «sanno di non essere liberi». E
che, quindi, devono anche “uscire dalla poesia” (se questa finisce per combaciare con la gabbia di cui dicevo prima); ed essere, in altri termini, poeti-critici, evitando la
dissociazione impostasi – direi dopo
gli anni Settanta del Novecento - tra poesia e critica;
·
tenacia
nello stare addosso alla realtà e ai conflitti sociali (La sola cosa che
importa è / il movimento reale che abolisce / lo stato di cose presente); il che non comporta una ottimistica o
volontaristica «ripresa dell’impegno (etico, politico) in poesia». In questi versi,
anzi, si insiste sia sulla necessità destruens (Nulla che prima non sia perduto ci
serve) sia sulla modestia e l’assenza
di tronfiezza e sicumera nel lottare: Non sapremo se avremo avuto ragione»;
·
la
capacità di «maneggiare la politicità del
linguaggio» mira interamente a un
dialogo, a un discorso persuasivo e problematico, da condurre tra persone che
agiscono nella storia e hanno problemi da affrontare in comune; da qui un
lessico concreto, la solida sintassi, la coincidenza tra metrica del singolo
verso e frase compiuta nei versi più asseverativi: I presupposti da cui moviamo non
sono arbitrari; tutto è divenuto gravemente oscuro; La
verità cade fuori della coscienza);
|
Juan Fernando Herràn, Senza titolo, Colombia 2010
|
·
la
scelta di muoversi in una zona lirico-politica, che io chiamerei dell’«io/noi»,
evitando sia il puro lirismo, sia il discorso politico diretto; anche perché
questo poeta «sa che la realtà sfugge alla forma»; e lo ricorda qui nel verso: La verità cade fuori della coscienza.
Il testo al
quale Abate fa riferimento è un testo poetico di Franco Fortini[i]
dal titolo Gli ospiti. Una poesia la
cui forza espressiva, dialettica, assertiva, semantica e politica, difende il
tracciato dell’esodo. Si tratta non di fuga,
come il termine potrebbe più semplicemente far intendere, ma di fuga-politica, quindi di “resistenza”: stare
al centro del dibattito ma dall’esterno. Idea non così strana perché evidente
nel fatto che molti luoghi deputati alla critica, alla poesia, così come alla
stessa politica – si pensi al Parlamento – sono scevri di sostanza. Il
Parlamento non dispone più del rispetto e della stima dei cittadini, così come
le università, e bene fa Abate a ribadirlo, sono ormai luoghi in cui i
“baroncini” esercitano il loro potere accademico. Luoghi in cui si diventa
docenti, assistenti o ricercatori, solo dopo che si è portato ai professori per
una vita la borsa.
Il concetto-guida
di poesia esodante
è di immersione nella storia, di ricerca attenta al rigore semantico della
poesia civile (impegno, indagine, azione politica;) e impiego concreto dei
significati migliori della sperimentazione, non per forza neoavanguardistica ma
più semplicemente di tradizione del nuovo (pluralità semantica,
differenziazione dal contesto lirico, eliminazione del contesto sognante;). In
questa poesia non deve esserci utopia, sogno, libertà, intesi come espressioni
dozzinali di una ricerca meramente idealistica, ma capacità di formare
nuovamente un tracciato semantico e lessicale autentico, capace di agitare un
dibattito poetico e di determinare in coloro che hanno perseguito la poesia da
epigoni, un’improvvisa presa di coscienza della possibilità fattuale di
determinare un “io/noi” capace di evidenziare il tessuto culturale e politico
della storia attuale. Ennio Abate, pur non volendo, si lega ad un progetto ideato
da Antonino Contiliano ed altri poeti-critici, che si
chiama “Noi Rebeldìa 2010 - We
are winning wing” (Noi
rivoltosi 2010-Noi siamo l’ala della vittoria), rintracciabile sulle pagine de Le reti di Dedalus.
Un progetto che potrà meglio condurre ad una riflessione che qui si lancia come
“ponte critico”: la poesia vuole stare al centro o fuori dalla società futura?
Sarà esodante oppure collettiva? Ad Ennio Abate e
all’amico Antonino Contiliano si dà la possibilità di
confrontarsi sulla pagina on-line di Dedalus e di giungere ad una risposta-soluzione, dopo
essersi immersi nuovamente nei loro rispettivi progetti-regia di poesia
contemporanea.