di Plinio Perilli
“riconoscenti per quei sogni…”
“… Quando preparo un film, scrivo
molto poco.” – confessava il grande regista de I vitelloni e de La
strada, de La dolce vita e di 8 ½ – “Disegno invece i
personaggi, le scene. Ho preso questa abitudine quando lavoravo ancora al
varietà, in provincia. Da quell’epoca, disegno subito qualsiasi idea mi venga
in testa. Spesso, ci sono idee che sono già dei quadri. Il testo segue poi.
Così è stato per esempio con il personaggio di Gelsomina. Disegnare è per me un
modo di concentrarmi sui problemi che sorgono a ogni principio di film.”…
A vent’anni dalla morte (1993-2013),
tutti gli siamo immensamente grati per aver cinematograficamente sdoganato,
affrancato, la nostra italica fantasia ancora assetata e frastornata di
archetipi, annodata e cullata di attese sognanti, pigrizia atavica e innovante…
Due episodi su tutti mi hanno proprio
di recente catechizzato, calamitato a scriverne: Fellini & Fellini (Rai
Eri / Ediesse, Roma, 2010, pp. 230, € 14,00) un volume affettuoso e
documentato, quanto meditato, di una forte penna come Italo Moscati (uomo anche
di cinema, di teatro, sceneggiatore per la Cavani, davvero un intellettuale di
pregio, eclettico e “informato sui fatti”); resoconto comunque nuovo,
dopo tanti altri contributi perché spezza o meglio spiazza gli stereotipi sul
Grande Regista Federico Fellini col racconto dedito ma riazzerato della sua
vita, fra “le opere e i giorni”… E l’uscita recente del vorticoso, ridondante
film di Paolo Sorrentino La grande bellezza – bello e discusso – che
invece porta acqua a quest’eterno excursus disincantato, aguzzo e
morbido, sensuale e impennato ma mai fazioso sulla Roma, sull’Italia di sempre,
fra “nani e ballerine” (la famosa frase “critica” di Rino Formica sull’Italia
craxiana del massimo illusorio e seducente periodo di affari e politica,
socialismo e provvigioni, arricchiti e travet, attricette e radio-libere, feste
elitarie e larghe intese consociative, marchette e bolsi grandi ideali infranti
– ma non certo affranti!)…
“… Mille feste e un solo romanzo.
Cento donne” – verga Fabio Ferzetti – “e nemmeno un amore. Sessantacinque anni
e il sospetto di essersi buttato via. Jep Gambardella poteva essere un grande
scrittore, invece è solo un mondano, un giornalista cinico e strapagato,
invitato ovunque ma sempre in cerca d’altro. Fino a quando… Sulla scia della Dolce
vita, un grande affresco sulla disillusione, le bassezze, le mediocrità di
questi anni, viste nel prisma di una Roma caotica e segreta, sordida e sublime,
barocca e fantomatica”… Un film comunque “denso e inconsueto con cui faremo i
conti a lungo”…
Per non parlare della presenza
caustica e briosa del sempre caro, arguto Alberto Arbasino, che coi suoi libri
o articoli mai smette di intridere e fustigare – o meglio irridere – l’Italia,
l’Italietta di sempre, provinciale e retorica, convulsa e pletorica, ancor più
tragicomica e maldestra quando recita, incarna (o finge?!) il Moderno… “È
arrivato un bastimento giovane carico di… griffe, graffiti, gaffe, vaffa,
style, stress, strip, stop, spin, slot, loft, soft, flip, flop, hip, hop, hit,
hot, tip, top, gap, trip, trick, trans, trends, test, best, must, cult, suv,
suk, suck, slum, punk, pub, hub, sub, club, cool, care, car, change, lounge,
loop, look, lock, talk, doc, vip, clip, chip, cheap ’n’ blues off-the-road…”
che non c’è finta Via Veneto ricostruita allo Studio 5 che tenga…
Ma torniamo a quegli anni cruciali –
gli anni ’50 – quando dopo i grandi esiti del c.d. “neorealismo”, la triade in
auge Rossellini/De Sica/Visconti (senza dimenticare Peppe De Santis, Pietro
Germi, Lattuada e Monicelli, Zampa e Comencini…), lasciavano ormai spazio per
uno sguardo nuovo – per uno strappo forse più aspro che dolce – che aveva
comunque gli occhi di Fellini e di Antonioni… Ecco I vitelloni (1953), La
strada (1954), Le notti di Cabiria (1957)… E dall’altra parte Cronaca
di un amore (1950), Le amiche (1955), Il grido (1957)…
Furono elogi e polemiche. Un
guazzabuglio di opinioni e articoli, giustapposizioni. In sintesi si parlò, per
Fellini di regno e gloria della Fantasia (onirico-circense, ludica e quasi
surreale, quasi fra le righe e i gesti o patimenti della cronaca) – per
Antonioni invece di arte ed estro dell’Incomunicabilità: come a dire un
esistenzialismo tramutato in moderno estetismo, fenomenologia in celluloide,
una post-sartriana, rigenerata Nausea borghese… O se preferite un’eterna
indolenza etica, una candida e annoiata Indifferenza moraviana (La noia
uscì proprio nel ’60; mentre Il conformista aveva visto la luce nel ’51,
Il disprezzo nel ’54…)
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Federico Fellini (1920-1993)
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Forse il vero discorso da fare
sarebbe stato un altro!
Frammischiare, ordire una succosa e
inopinata contaminatio tra Fantasia e Incomunicabilità… Ammesso che
fosse possibile prendere, simpateticamente, entrambe le strade di un magnifico
bivio!… L’incomunicabilità della fantasia e la fantasia dell’incomunicabilità
– compensare, tagliare insomma gli sguardi, alchemizzarli, in sintesi e insieme
frammentazioni emotive… Perché questo fu quel cinema che partiva all’inizio
come sgorbio mentale, sovraesposto e interiore… Cinema disegnato, caricaturato,
per paradosso sublimato in grottesco, incubo o festevole, fastoso barocco
dell’inconscio (Federico Fellini); e cinema quasi dipinto, comunque fotografato
dall’occhio scarno, tagliente, insieme pittorico e documentaristico di
Michelangelo Antonioni
Furono polemiche, asprezze… Nemo
propheta in patria… E in patria Fellini ebbe le sue ampie gioie e le sue
nefaste delusioni. “Il Contemporaneo”, quotato periodico di punta della
Sinistra ufficiale, lo stroncò il 19 marzo 1955 con un articolo di Massimo Mida
sostanzialmente contro La strada – cui Fellini rispose, dolcemente
piccato, il 9 aprile… Ancora Ugo Casiraghi recensisce in negativo, non ci
stupiamo, “ideologicamente”, Le notti di Cabiria (“L’Unità”, 10 ottobre
1957)…
Memorabile poi la polemica (subita,
non certo voluta) di Luchino Visconti che ebbe a intonare la famosa, sventurata
frase del “Non amo i registi in –ini”… Insomma, l’esimio regista di Ossessione
e La terra trema impaurito, stizzito quasi che La strada fosse
considerata un po’ la fine del neorealismo (che in realtà era già finito, si
era sfinito per conto suo, forse col “fabuloso” Miracolo a Milano di De
Sica e Zavattini, 1950, di certo col raffazzonato mestierante esito di Stazione
Termini, 1952)!… Visconti di Modrone dunque proruppe in una tirata ben poco
nobile, avverso il giovin regista di Rimini:
“… La strada non è per nulla un film
neorealistico. Mi sembra piuttosto che i personaggi abbiano una natura di
eccezione, e che si tratti di una vicenda campata più sull’astrazione che sulla
realtà. È un film che probabilmente apre una nuova strada: una specie di
neo-astrattismo. È sottinteso che al termine neorealismo io do il significato
che persone più autorevoli di me in questo campo hanno ormai stabilito essergli
proprio.”…
Al che Fellini, che era nato sì
disegnatore (al “Funny Faces Shop”, ancora con i soldati americani a Roma, con
matita e carboncino, vendeva a tre dollari ritratti in dieci minuti), autore di
rivista e battutista per Aldo Fabrizi, replicò con perfetta e affilata positura
intellettuale, staremmo per dire con una brillante, vigorosa apertura
sinestetica:
“… Quale sia il significato che
persone ‘più autorevoli’ di Visconti abbiano ormai stabilito essere proprio al
termine neorealismo, io non lo so né mi consta un intervento che si possa dire
storiografico, e quindi almeno terminologicamente sicuro, sulla questione. Sono
però certo che il termine ‘neoastrattismo’ usato dall’autore di Senso a
proposito del mio lavoro, è quanto di più inesatto si potesse inventare: se
Visconti usa ‘astrattismo’ nel senso corrente della parola a proposito
dell’operazione artistica, mi pare che ci sia una contraddizione in termini,
poiché nulla è, per definizione, più ‘figurativo’ del cinema (mio e altrui). Se
invece il termine astrattismo è usato in senso generale o generico allora lo
sbaglio è veramente sostanziale (e forse non privo di malafede): io penso che
non si possa immaginare niente di meno astratto del mio modo di lavorare: il
mio rapporto col neorealismo (su cui mi sono formato) è appunto un abbandono
totale ai suoi dati, senza nessun schema né sociologico né estetico…”.
Nemo propheta in patria… Fu l’America, il coccodrillo
hollywoodiano in dorate lacrime, a decretare l’Oscar per La strada…
Molti anni dopo, del resto, colloquiando con Peter Bogdanovich, Orson Welles
mostrava accenti caustici e dolci, all’indirizzo del Fellini scanzonato poeta
per immagini, eterno ragazzo di provincia che sogna sempre – da grande – di
voler fare il regista: “Essenzialmente Fellini è un ragazzo di provincia che
non è mai realmente arrivato a Roma. Ne sta ancora sognando. E dovremmo essere
tutti riconoscenti per quei sogni. In un certo senso, sta ancora ritto fuori
del cancello, a guardare attraverso le sbarre. La forza de La dolce vita
viene dalla sua innocenza provinciale. È così totalmente inventato!”…
E poco più tardi fu il grande critico
e caposcuola francese André Bazin (padre putativo di tutti gli incipienti
talenti della nouvelle vague, da Truffaut a Godard a Rohmer…) a emettere
una sentenza pressoché definitiva, e dunque inoppugnabile sulla finta querelle
neorealismo/astrattismo, nonché sulla presunta Fine del Neorealismo… Il
memorabile saggio, del ’57, s’intitolava infatti “Le notti di Cabiria” o il
viaggio al termine del neorealismo (efficace anche per la vivace
sprezzatura alla Céline):
“… Fellini mi sembra aver completato
la rivoluzione neorealistica innovando la sceneggiatura senza alcun
concatenamento drammatico, fondata esclusivamente sulla descrizione
fenomenologica dei personaggi. In Fellini, sono le scene di legame logico, le
peripezie ‘importanti’, le grandi articolazioni drammatiche della sceneggiatura
a servire da raccordi, e sono le lunghe sequenze descrittive, apparentemente
senza incidenza sullo svolgimento dell’‘azione’, a costituire le scene
veramente importanti e rivelatrici. Sono, nei Vitelloni, il girovagare
notturno, le passeggiate stupide sulla spiaggia; nella Strada la visita
al convento; nel Bidone la serata al cabaret o la festa. È quando non agiscono
che i personaggi felliniani si rivelano meglio, tramite la loro agitazione,
allo spettatore.”…
Quello stesso Bazin che aveva colto
come pochi – e fin da tempi non sospetti – il dono estraniato e transustanziato
della recitazione di Giulietta Masina, il famoso, struggente suo ultimo sguardo
in macchina nel finale de Le notti di Cabiria: vera e propria dichiarazione di poetica
con cui Federico Fellini, diffidando di tutte le grammatiche (e le sintassi)
del Cinema, lo esaltava come nuova, costituenda e inventata Arte della
Modernità e dell’Inconscio:
“… La
prima immagine non solo degna di Chaplin, ma uguale alle sue più belle trovate,
è l’ultima delle Notti di Cabiria, quando
Giulietta Masina si volta verso la macchina da presa e il suo sguardo incrocia
il nostro. Unico, credo, nella storia del cinema, Chaplin ha saputo fare un uso
sistematico di questo gesto che tutte le grammatiche del cinema condannano. E
senza dubbio sarebbe fuori posto se Cabiria, piantando i suoi occhi nei nostri,
si rivolgesse a noi come la messaggera di una verità. Ma il fine ultimo di
questo tocco di regia, e quel che mi fa gridare al genio, è che lo sguardo di
Cabiria passa più volte sull’obiettivo della macchina da presa senza mai
esattamente fermarvisi. La sala si riaccende su questa meravigliosa
ambiguità.”…
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Giulietta Masina in Le notti di Cabiria (1957)
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Molti invero gli interventi, ma pochi
quelli davvero pertinenti, onesti d’autocritica. Ci piace ricordare la
ricostruzione storica dall’interno che ne fa Carlo Lizzani (anch’egli aiuto di
Rossellini, per Germania anno zero, così come Federico lo fu per Roma,
città aperta e per Paisà): “… Con La strada, sembrava che si
verificasse proprio il fenomeno denunciato come il più pericoloso per il cinema
italiano, e cioè non tanto l’apparizione di una poetica nuova, ispirata al
misticismo, quanto l’appropriazione, da parte di questa poetica, di quel mondo
degli umili che il nuovo cinema italiano aveva ‘inquadrato’ in maniera così
rivoluzionaria. ‘Inquadrato’ da Fellini, questo mondo degli umili – che pure viveva
di una materiale presenza in La strada – diveniva l’universo indefinito
dei ‘poveri di spirito’, dei matti saggi, dei bruti-fanciulli. Sul quadrante
del nostro cinema la lancetta segnava una brusca sterzata verso lo
spiritualismo e il simbolismo, e l’indicazione appariva insidiosa perché
sembrava effettuata all’‘interno del neorealismo’, con il linguaggio formale di
questa scuola.”…
Gustosissimo fu poi l’elogio
smargiasso e a denti stretti d’una figura importante e di lungo corso come
Mario Soldati (lo sceneggiatore con Ivo Perilli di tanti successi anni ’30
targati Mario Camerini, incunabolo e prodromo peraltro prezioso di ogni
rifiorita ascesa e stagione del dopoguerra – ma anche scrittore esimio,
romanziere nato, e regista in proprio di nobile “calligrafismo”): “… Così che 8
e mezzo è difettoso tutte le volte che si allontana da questo assioma del
niente da dire: tutte le volte che Felini si crede in obbligo di fornire un
significato, un simbolo, un sentimento, un rimorso, un’aspirazione che non sia
contenuta in quella fondamentale verità. Ho telefonato a Fellini dicendogli che
il continuo confondere realtà e sogno è, forse, la bellezza più viva di tutto
il film. ‘Stupendo!’, gridavo al telefono. ‘Dopo aver rifiutato tutte le altre
distinzioni che ho detto, tu rifiuti anche questa, elementare e sostanziale,
tra ciò che accade e ciò che uno immagina!’…”.
Polemiche, teorizzazioni,
storicizzazioni… Conta invece la poesia di quelle immagini, la loro strepitosa
e introiettata carica onirica – poi dipanata, sciorinata alla luce del sole.
In Un week-end postmoderno (“Cronache
dagli Anni Ottanta”, 1990), ad esempio, uno scrittore allora giovane e à la
page come Pier Vittorio Tondelli rintraccia i veri nuclei o barlumi poetici
delle opere di Fellini proprio negli abbandoni semplici all’istinto
esistenziale, alla pigra, dinoccolata deriva del suo autobiografismo: “… Rimini
d’inverno, come qualsiasi altra città della riviera, è anche la visualizzazione
straordinaria di una particolare nevrosi della cultura contemporanea: l’attesa.
Attesa del nuovo, del sogno, della vera vita. È in questo senso che film come I
vitelloni di Federico Fellini o La prima notte di quiete di Valerio
Zurlini o, per certi versi, anche Fuori stagione di Luciano Manuzzi,
sono ritratti di un paesaggio straniato, assunto a metafora dell’intera
condizione umana: l’attesa del cambiamento, della liberazione dalla grigia vita
provinciale, dalle ossessioni erotiche, da se stessi, dalla precarietà degli
anni giovanili”…
E torniamo a quello strepitoso
diario, romanzo di idee, inesauribile carnet o brogliaccio di appunti, schizzi,
autocritico e autoironico story-board mentale, lucidissimamente
visionario, che è Fare un film (Einaudi, 1974). Apriamo il capitolo
VIII, centrato sul rapporto tra Cinema e Letteratura:
“… Il Satyricon è un testo
misterioso prima di tutto perché è frammentario. Ma il suo frammentarismo in un
certo senso è emblematico. Emblematico del generale frammentarismo del mondo
antico quale appare a noi oggi. Questo è il vero fascino del testo e del mondo
che è rappresentato nel testo. Come di un paesaggio sconosciuto, avvolto in una
fitta nebbia che a tratti si squarcia e lo lascia intravedere. (…)
Potrei dire che la Roma della
decadenza rassomiglia molto al nostro mondo d’oggi, con questa smania buia di
godere la vita, la stessa violenza, la stessa vacanza di principî, la stessa
disperazione, la stessa fatuità. Potrei dire che gli eroi del Satyricon,
Encolpio e Ascilto, rassomigliano molto agli hippies, come loro ubbidiscono
unicamente al proprio corpo, cercano una nuova dimensione nella droga,
rifiutano i problemi.”…
Fellini ci manca per il talento e per
il suo sterminato, onnivoro metodo di libertà, di anarchia per davvero creativa…
Sempre nel suo eccellente compendio autobiografico (che è in realtà una
ininterrotta dichiarazione di poetica), Federico pone fortemente l’accento sul
mistero della cosiddetta creatività, sul suo enigma mai per fortuna del
tutto svelato o decrittabile. Gli basta però risolverselo, o meglio rimuoverlo,
proteggerselo a suo modo, con un brio profondissimo, un fervore inusitato –
jungheggiamo un po’! – d’Animus e Anima:
“… Tempo fa ho letto un saggio
illuminante di Neuman sulla creatività, o meglio, sul ‘tipo creativo’. Mi
permette confusamente e rozzamente di citarlo? Dunque, all’incirca diceva così:
chi è, che cosa è un creativo? Il creativo è colui che si colloca fra i canoni
consolatori, confortanti, della cultura cosciente, e l’inconscio, il magma
originario, il buio, la notte, il fondo del mare. Sono questa vocazione, questa
medianità, a fare il creativo. Egli abita, si pone, vive in questa fascia per
operare una trasformazione, simbolo di vita; e la posta in gioco è la sua
stessa vita o la sua salute mentale.”…
Nulla per lui e con lui contavano le
teorizzazioni, le misurazioni, le categorizzazioni aprioristiche od egualmente
ex post…
“… Vorrei vedere tutte le facce del
pianeta: non sono mai contento, e, se sono contento, vorrei confrontare il viso
che mi soddisfa con altri ancora, con tutti i visi possibili. È una nevrosi.
Potevo aver scritto nella
sceneggiatura che un sorriso doveva essere ‘tagliente’: scartando questo o
quello, scopro che quel sorriso, invece che ‘tagliente’ sarà ‘molle’. Ho
trovato un sorriso ‘molle’ che ferirà assai di più, nell’immagine, di qualsiasi
sorriso ‘tagliente’.
Il fatto è che, cercando visi, corpi,
gesti, tra gli sconosciuti, il film comincia a esistere come mai fin allora.
Esiste nella sua fase più affascinante: esiste a lampi, a frantumi. E io mi
abbandono alla seduzione di quei lampi, di quei frantumi: e delle cento
soluzioni diverse e opposte che mi si presentano per un solo personaggio.”…
Andrea Zanzotto, poeta laureatissimo,
poliedrico come un multiforme intagliatore di Logos ed Epokè, stilemi e
diamanti, e che collaborerà con lui nel Casanova, si delizia e s’intenta
infatti ad omaggiare e quasi trasfigurare “l’ingordo fanciullo Fellini” – sta
parlando de La città delle donne ma l’analisi, anzi l’anàmnesi vale per
tutta la sua parabola espressiva – e per la sua “concezione del cinema come
tesaurizzazione (accumulo) di luci, spazi accertati per ‘cooptazione’
attraverso continui e contraddicenti assaggi, sentieri o corridoi tagliati,
ponti saltati. Non un impossessamento del tempo attraverso un ritmo che
dispone, assesta e modula, ma uno strisciare ‘col’ tempo, con una durée
che non ha una sola direzione e tanto meno una sola ‘densità’…”.
Sì, a Fellini immenso cineasta, stava
veramente stretta la mera, precipua critica cinematografica – comunque
l’esegesi acclarata, la vulgata usuale di sempre, l’ermeneutica da
giornalisti pseudoeruditi, specializzati o specializzandi… Nulla a che fare col
suo concreto approccio visionario, bighellonante e insieme irruento da flâneur
incodificabile (nemmeno basterebbe un Benjamin!), da “vitellone”
fantasmagorico, da barocco del sogno, libertino mistico (“Gradisca…”),
neorealista surreale, metà clown bianco, metà augusto ricomposti
entrambi in un affascinante pendolo e universo circense, cioè alternarsi
ciclotimico dei due differenti, univoci yin e yang neurovegetativi…
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La scena finale di Otto e mezzo (1963)
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“… Quel tanto di dolente che c’è
nella continua guerra fra il clown bianco e l’augusto non è dovuto alle musiche
o a qualcosa di simile: ma alla circostanza che ci si presenta sotto gli occhi
un fatto che riguarda la nostra incapacità a conciliare le due figure. Infatti,
più vorrai obbligare l’augusto a suonare il violino, e più egli farà
scorreggioni col trombone. Ancora: il clown bianco pretenderà che l’augusto sia
elegante? Ma, tanto più questa richiesta verrà fatta con autorità, tanto più
l’altro si ridurrà ad essere stracciato, goffo, impolverato.”…
Ben lo capirono i talenti suoi
contemporanei, gli scrittori migliori (vaccinati forse, e per contrario con gli
stessi anticorpi)
Lo capì Pier Paolo Pasolini (con cui
collaborò, per i dialoghi “alla puttanesca”, sulla passeggiata archeologica de Le
notti di Cabiria; ma che presto poi anche allontanò, diremmo “omise”…); il
romanziere e poeta dei Ragazzi di vita parla per Fellini di “realismo
creaturale”: “La realtà di Fellini è un mondo misterioso – o orrendamente
nemico, o perdutamente dolce – e l’uomo di Fellini è una creatura altrettanto
misteriosa che vive in balìa di quell’orrore e di quella dolcezza. Così era
Gelsomina, e così è, assai più poeticamente realizzata, Cabiria.”…
Lo capì Italo Calvino, che gli dedicò
un bellissimo saggio “generazionale” in apertura di Fare un film… “Tanto la
provincia vitellona quanto la Roma cinematografara sono gironi dell’inferno, ma
sono anche insieme godibili Paesi di Cuccagna. Per questo Fellini riesce a
disturbare fino in fondo: perché ci obbliga ad ammettere che ciò che più
vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino.”…
Lo capì
Umberto Eco, massimo studioso di semiologia e affini, che lesse ad esempio Ginger e Fred (1985), satira sbilenca e acerrima della
Televisione, di ogni possibile e pletorico universo massmediatico, con grande
ammirazione post-strutturalistica: “… La
televisione di Fellini è troppo. Troppo tutto, troppo sopra il rigo. Si ride,
si riconoscono dei riferimenti, ma questa televisione non è disegnata da
Daumier, e neppure da Grosz, è dipinta da Hieronymus Bosch. Niente di male, la
televisione di Ginger e Fred è un bel
pezzo di grottesco, ma va al di là della satira di costume…”.
Lo capì of course il caro Alberto Arbasino – deliziosamente
impertinente, volitivo ed esaustivo – fra i pochi a saper inserire Fellini
nell’albo d’oro di una magnanima e di-vertente critica antropologica della
nostra ossimorica, viziosa virtude italica, fra “Grande Bellezza” e Un Paese Senza… E lo fa, incredibile ma vero, proprio raccontando
una felliniana festa a Fellini organizzata nella primavera del ’60, in Francia,
dagli italiani più maldestramente agiati, fastidiosamente borghesi. Vera chicca
da film sul film, chiamiamola pure una “s-fellinata”, quasi un cortometraggio
da critica antropologica in fieri: “
“… Anche la ‘notte romana’
organizzata dagli italiani dopo La dolce vita è stata una squinziata per
poveretti: a nessun pranzo di coscritti, in Italia, ci si permetterebbe di dar
da mangiare così male. Ma arrivando a questa villa “Bene Fiat” (curioso nome)
sulla collina, tutti i connazionali già si toccavano davanti alle file di
lumini cimiteriali in fondo al giardino, perfino con mazzolini di fiori per
terra. Verano, Musocco, dicevano i cinefili connaisseurs. Come cibo, pane e
salame, très typique mortadella, caratteristici spaghetti, e fiaschi di
vin rosso: uno spuntino per muratori di Léger. Notte romana?… Mentre Fellini
era vittima dei noiosi, e le starlettes di seconda imparavano a mettersi in
bocca i maccheroni senza sbrodolarsi, la piscina era illuminata con bottiglie
di whisky sul fondo, come decorazione. Ma si è appurato che erano vuote, quando
le povere starlettes, dopo il maccherone, hanno incominciato a lasciarsi cadere
nell’acqua una dopo l’altra, per fare Appia Antica. Verso il tardi, parecchi
fotografi sono stati picchiati e scacciati, perché si comportavano malissimo.
Diverse macchine non si sono ritrovate, così delle belle hanno dovuto farsi
chilometri in tacchi alti dentro la ghiaia.”…
Colpisce, certo, che Fellini abbia
regolarmente imbrigliato, mascherato, sterilizzato quasi la sua vis politica,
comunque il suo resoconto in atto sulla Realtà in marcia, sui sogni di ogni
possibile rivoluzione, contestazione, sulla militanza progressista cui in
concreto adempiere, firmando propri negli anni caldi dal ’68 ai ’70 “di
piombo”, con una serie di fughe onirico/fantastiche, mitico reinventate, che
metaforizzano il Moderno senza affatto catechizzarlo o ammonirlo all’azione, alla
lotta civile… Controlliamo le date: il Satyricon (1969), I clowns
(1970), Roma (1972), Amarcord (1973), Il Casanova di Federico
Fellini (1976), Prova d’orchestra (1979)…
Se si pensa ai coevi film “impegnati”
di Godard & Compagni, i quali collettivamente firmavano nel ’67 un
documentario come Lontano dal Vietnam (e c’era anche Alain Resnais,
William Klein, Joris Ivens, Agnès Varda, Claude Lelouch…) – con Godard che
faceva autocritica in prima persona, spiega Mereghetti, sui rapporti tra cinema
e militanza politica, e invita ciascuno a creare “un Vietnam in se stesso,
nella sua vita quotidiana”, il confronto stride – ma in fondo anche scoppia, si
frammenta polverizzandosi in un engagement alla lunga più recitato dello
stesso disincanto sincero…
Del resto, che cos’era Prova
d’orchestra se non – come chiosa Giorgio Strehler sul “Corriere della Sera”
del 14 marzo 1979 – un “amaro, direi disperato e inquietante apologo”
sull’Italia di allora, di sempre e del domani che già è diventato il nostro
oggi del Terzo Millennio?… “Prova d’orchestra è il film del malessere,
dell’angoscia, della confusione, e anche della sofferenza.” – soggiunge Jean A.
Gili, importante studioso d’oltralpe – “È caratterizzato da contraddizioni
insolubili perché la sua funzione non è quella di dare delle risposte ma di
sollevare dei problemi, come ad esempio quello dei rapporti tra l’individuo e
la società.”…
Nulla per Fellini e con Fellini
valgono le teorizzazioni, le misurazioni… Dobbiamo semmai saltare di palo in
frasca e tornare lontano, profetare il futuro – anche il suo, a vent’anni dalla
morte – nell’antica cronaca amicale di una corrispondenza giovanile, figurarsi,
tra Federico García Lorca e Dalì… Nelle lettere folleggianti e quasi amorose
che Salvador Dalí scriveva da Figueras al suo amico del cuore (era il 1928: lo
stesso anno in cui iniziava la sua collaborazione en artiste al grande
cinema muto e surreale di Buñuel), emerge proprio questa disillusione al
contempo sia verista che surrealista – questa voglia di ricominciare da capo,
forse anche lui giunto, impantanato e poi levitato al bivio duale e antitetico,
poi specchiato e simmetrico, tra Fantasia e Incomunicabilità:
… Fotografia
Io dico ai poeti: amo i mazzi di fiori, perché niente
assomiglia così tanto agli asini putrefatti. I mazzi di fiori che dipingono gli
acquarellisti non assomigliano ai mazzi di fiori perché non assomigliano
affatto agli Asini putrefatti.
Nessun animale più portato alla crudeltà
e all’antipatia della colombella.
Nessun animale invece più portato
alla tenerezza del piccolo ippopotamo.
…
Fotografia, CINEMA = nascita della
poesia – PICCOLA VITE.
Primo Poeta di tutti PICASSO.
Non ci sono poeti che scrivono.
I migliori dipingono o fanno del cinema.
Buster [Keaton], Harry Langdon.
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Una scena del Fellini Satyricon (1969)
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La grande bellezza di quei mostriciattoli putrescenti
(Dalí li chiamava “i miei piccoli putrefattini”), è la stessa di Fellini,
entomologo in cuore e poeta per immagini, seduttore impigrito e mago d’ogni
ancella, baiadera, acrobata o circense di Psiche… E forse anch’egli junghiano
D.O.C., amico e paziente di Ernst Bernhard, ci avrebbe detto con Hillman che
“un’immagine archetipica è animata (…) è una ‘presenza emotiva’ che offre un
rapporto emotivo”… Per Hillman infatti, come ben spiegava Aldo Carotenuto, la
patologia psichica non è rappresentazione della devianza, ma dell’anima, è
espressione dunque di momenti di un mitema che non possono essere meglio
espressi…
In una lettera che gli scrisse Ennio
Flaiano Roma per Roma, il 23 ottobre 1969 dopo aver visto il Fellini-Satyricon
(e dopo l’amaritudine della loro lite dopo Giulietta degli spiriti, che
però mai estinse la loro amicizia “da liceali”, diceva Federico) c’è forse
tutto il senso e il nonsenso della sua ricerca, della sua arte-artigiana,
poetica sempre, perché visionaria e viscerale assieme, sacrata fra macchie e
scarabocchi, caricature e agnizioni…
Caro Federico,
approfitto della
fine dello sciopero postale per dirti che ho visto il tuo Satyricon e che mi ha
colpito, meravigliato, tenuto sveglio e, in fondo, deliziato. Non ci manca
niente. Me lo sognerò spesso e volentieri. So che si potrebbero discutere certe
soluzioni, ma hai raggiunto l’essenziale: la continua drammaticità dei mostri,
cioè di noi stessi. Le persone che uscivano dal cinema e dicevano “A me non è
piaciuto”, sembravano uscire in realtà dal film.
Mi pare giusto, per la vecchia
amicizia che ci disunisce, dirti queste cose e mi auguro che anche tu l’intenda
nel modo giusto.
Un caro abbraccio e i miei
complimenti anche a Bernardino Zapponi.
Tuo
Ennio (Flaiano)
Frastornata fabula della Dea Realtà,
in tutti i misteri della sue fughe – gaudiose o dolorose… La continua, e
aggiungiamo comica “drammaticità dei mostri, cioè di noi stessi”…
Perfettamente specchiati, riassunti in tutti i visi del mondo, tutte le
facce del pianeta…
Allora, perfino il suo
Casanova-Pinocchio diventa sintomatico e acerrimo, cosmopolita e senza tempo!
Cinema, certo, e in grande Stile; ma anche visualizzata, orchestrata critica
sociologica non meno che immaginifica, inopinata antropologia culturale:
“… Un film astratto e informale sulla
‘non vita’. Non ci sono personaggi, né situazioni, non ci sono premesse né
sviluppi né catarsi, un balletto meccanico, frenetico e senza scopo, da museo
delle cere elettrizzato. Casanova-Pinocchio. Disperatamente mi sono aggrappato
a questa ‘vertigine da vuoto’ come all’unico punto di riferimento per
raccontare Casanova e la sua inesistente vita. Quest’occhio vitreo che si
lascia scorrere sulla realtà – e trapassare, cancellare da essa – senza
intervenire con un giudizio, senza interpretarla con sentimento, mi è sembrato
emblematico della drammatica, esuberante inerzia con cui oggi ci si lascia
vivere.”…
Casanova-Pinocchio, e insieme
Casanova-Fellini, rinascono ogni volta, incredibile a dirsi, proprio nel
passaggio da bambino prodigio a burattino espressivo – con un’adulta e
successiva paura, paura non della malattia, attenzione (la quale è
sempre feconda, e fecondante!), ma addirittura della guarigione!!! Simbolico
colpo di scena che andrebbe proprio affidato, più che agli studiosi
standardizzati di cinema ai già succitati, e spesso sinestetici, scienziati di
Psiche… Torniamo appunto alla romanzesca, intrigante biografia di Italo
Moscati:
“… Federico Fellini si sente male
mentre gira La strada e quando va dall’illustre psicanalista Servadio,
che lo vuole indagare fin in fondo all’anima, si sente ancora peggio.
Claustrofobia? L’episodio ha un
sapore fantasioso e paradossale. Servadio confidò alla collega Simona Argentieri,
molto interessata al cinema, che i rapporti con il regista sono pochi, meno
delle dita di una mano.
Servadio smentì poi che ci fosse
stato un temporale a dare il pretesto per una fuga dal lettino del suo studio.
Federico si sarebbe alzato dal lettino,
avrebbe aperto la finestra e pregustando una doccia liberatrice avrebbe
piantato il professore per correre sotto la benefica pioggia liberatrice.
A chi credere? La doccia, ‘fuga dalla
guarigione’ secondo la definizione della Argentieri, resta lì appesa alle più
svariate supposizioni.”…
Il finale, se proprio vogliamo
trovare un finale alla rievocazione di un uomo e un artista che li odiava – li
evitava, li reiterava, li confondeva, li irrisolveva! – non può in realtà che
essere onirico e incarnato. Come una poesia di García Lorca, il lungo poemetto
dedicato a New York:
Nell’appassita
solitudine senza fionda
danzava il mascherone bernoccoluto.
Metà faccia del mondo di sabbia,
di mercurio e sole addormentato l’altra metà.
Il mascherone! Guardate il mascherone!
Sabbia, caimano e terrore su New York!
Come il sogno della bambina con cui chiude (e inconclude) il suo libro
autobiografico, vent’anni dopo la sua morte, forse ancora un monologo in
progress, una inaudita e prospettica confessione in atto, abbacinante e
insieme sfumata, che tutti ci riguarda e ci chiama, al gran Teatro 5
dell’Inconscio :
“… A un certo momento si avvicinano
tre bambini e mi chiedono l’autografo. Sto cercando una penna e un foglio di
carta per accontentarli, quando mi sento tirare per una manica: una bambinetta
rosea e dalle treccine bionde, con l’immediatezza concisa e anche un po’
brutale che hanno spesso i bambini, mi dice così: ‘Ma tu Fellini non cambierai
mai?’ E guardava per aria con dei begli occhietti azzurri estranei e
indifferenti alla sua stessa domanda. (…)
‘Ci proverò’, ma il foglietto era già
zeppo di firme, di scritte, di macchie, di scarabocchi. Non c’era il più
piccolo spazio libero, inutilmente lo rigiravo fra le mani cercando un angoletto
pulito. Infine, un po’ scoraggiato mi decidevo a scrivere ugualmente in un
minuscolo margine. L’impresa era disperata, impossibile, facevo una gran fatica
per farci stare la mia risposta, ma alla fine dovevo rendermi conto che il
risultato era uno sgorbietto impercettibile. Nessuno avrebbe potuto leggerci
‘ci proverò’. Nemmeno io. Insomma, la testimonianza scritta della mia
intenzione di cambiare si riduceva a un puntino indecifrabile, un granellino di
polvere, non esisteva proprio.”…
(luglio 2013)