di Domenico Donatone
«Lottiamo tutti per la stessa libertà, non
per la stessa intelligenza.»
(Voltaire)
La decisione di Lucio Magri, giornalista
e politico italiano, fondatore storico nel 1969 della rivista “Il manifesto”,
(poi diventata quotidiano, insieme a Rossana Rossanda e Luigi Pintor), di
scegliere il suicidio assistito, ha
fatto riaprire la mai chiusa questione che investe il tema del “fine vita”.
Nel novembre 2011, esattamente il 28
novembre, Magri si reca a Bellinzona in Svizzera e sceglie di morire in una
clinica privata specializzata nell’applicazione dell’eutanasia. Le cause che
hanno generato questa decisione rimangono private, e, in quanto tali, da
rispettare; mentre la scelta è pubblica. È pubblica perché, contrariamente da
quanto si ritiene, ciò che ci appare estremamente individuale e personale è,
nella sostanza, perfettamente collettivo. Riguarda sì il singolo, ma può
riguardare chiunque un domani. Per questo è importante che ci si interroghi in
maniera serena di questioni che riguardano il testamento biologico e
l’eutanasia.
In Occidente si fa ancora fatica ad
elaborare in maniera costruttiva la morte, il lutto. La morte è vissuta come
perdita e non come liberazione o comunione con qualcosa. Tanti sono i rituali,
ma scarsa è l’empatia, tranne nei casi di persone note: attori, cantanti,
artisti, sportivi, politici. La recente scomparsa del motociclista Marco Simoncelli,
di soli ventiquattro anni, è la dimostrazione che il lutto è sentito
soprattutto quando a cadere è la vita che non è pronta o che decide di lasciare
spontaneamente il mondo. Accade che la morte di qualcuno esorcizzi quella delle
masse. La morte comune, invece, normale, beduina, come avrebbe detto Ungaretti,
non fa commuovere nessuno perché non comunica passione, perché quella vita non
ne ha, non la produce.
Discriminazione anche nella morte? Può
darsi, ma ognuno ha in mente un funerale, il proprio come quello di una persona
cara o di un artista. Pensare alla morte è parte integrante dell’inevitabilità
della vita: non si può sfuggire! All’interno del nucleo familiare la morte è
ancora un tabù, le resistenze a parlarne sono decisamente monolitiche, ogni
tentativo di argomentazione cede ai ricatti della religione cattolica oppure
del laicismo nichilista. Noi desideriamo interrogarci sulla vicenda di Lucio
Magri non dal punto di vista umano, ma dal punto di vista dei diritti. Ovvero è
lecito aprirsi ad una riflessione che più che coinvolgere le singole posizioni
politiche culturali e religiose o anche non religiose di ognuno, coinvolga
piuttosto la possibilità di accedere ad una “tecnica” che possa garantire il
fine vita? Se si sta male può essere riconosciuto all’individuo di decidere
come morire? Questo è il punto.
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Lucio Magri (1932-2011)
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Premettendo che l’argomento è scivoloso,
ostico, morale, etico e tutto quello che ne consegue, e sapendo che è
impossibile mettere d’accordo una nazione, per non dire tutti, nell’emergenza di questo avvenimento ci sono due orologi che
corrono: uno è quello della scienza, della tecnica, della fattualità sanitaria
e ospedaliera; l’altro è quello del diritto, della legge, quindi di una
interrogazione parlamentare. Così come è consentito l’aborto, si può consentire
l’eutanasia? La risposta dovrebbe essere sì.
Siccome le resistenze sono moltissime (vaticane e non) ed è indicativo di
un’apertura (sia pur discutibile) che uno stato federale come la Svizzera possa
consentire azioni che in Italia appaiono impensabili e impossibili (mica la
libertà può esistere solo in Svizzera!), il tema dell’eutanasia diventa
squallidamente politico per cecità dei partiti e decisamente snervante per
ingerenza della Chiesa, mentre ad accedere con subdolo privilegio finanche alla
morte sono i ricchi, i benestanti, la borghesia più potente. Non ci si dovrebbe
dividere, ma è inevitabile che accada.
Così, il punto fermo e “inattaccabile” è
la riflessione sugli strumenti scientifici, arrivare cioè a possedere per
diritto l’accesso ad una tecnica che
possa agevolare il passaggio dalla vita alla morte indipendentemente dalle
questioni religiose e laiche. Il tema non è che la vita è sacra, ma che il
diritto è sacro, che i diritti sono sacri, tanto più in una società dominata
dalla tecnica e forse ossessionata dalla scienza, in cui la finalità della
ricerca medico-scientifica è quella di consentire di conciliare il conflitto
tra gli universali contrapposti dell’etica, del diritto e della laicità, per
offrire soluzioni in grado di soddisfare e contemperare gli interessi
contrastanti.
Se l’aborto non è un delitto entro i
limiti imposti dalla legge, perché dovrebbe esserlo l’eutanasia? Qualcuno
muore, sempre e in entrambi i casi. Per i cattolici rimane omicidio tanto
l’aborto quanto l’eutanasia, mentre per i laici si aprirebbe la possibilità
ulteriore di comprendere che la «terribilità del bios», come diceva Mario Luzi,
qualora ci si senta costretti a vivere per forza, non sia a danno così
esclusivo dell’uomo, nonostante l’uomo rimanga intrinsecamente attaccato al bìos, alla vita. Ciò che è possibile con
la tecnica dev’essere altrettanto garantito attraverso il diritto, bisogna
necessariamente che si apra una riflessione che induca i governi a ritenere
indispensabile non l’accesso indiscriminato ad un istituto di legge che prevede
liceità, ma che sia riconosciuto e lecito che dinanzi alla morte-vita ogni
cittadino elabori per cultura e per formazione non solo il suo concetto di vita
e di morte, ma anche l’urgenza di sapere che è possibile accettare soluzioni
per la propria esistenza senza che la stessa debba essere tacciata di
illiberalità, di assassinio, di omicidio, di becero moralismo.
L’eutanasia potrebbe essere una forma di
emancipazione, cioè a dire sei tu che decidi di morire, non sei costretto, e
quando lo decidi, una tecnica ti consente di esercitare un tuo diritto. Il tema
è la tecnica perché essa consente ad ognuno di confrontarsi con una soluzione
ulteriore, e se può esistere una soluzione ulteriore vuol dire che si può agire
in difesa degli spazi concordatari, senza accanimento e senza eresia. Da questo
punto di vista la letteratura anticipa tutto. Emily Dickinson, in una sua
poesia scritta per l’argomento in questione, dice: «Il cuore prima chiede gioia
| poi assenza di dolore, | poi gli scialbi anodini | che attenuano il soffrire,
| poi chiede il sonno, e infine | se a tanto consentisse | il suo tremendo
Giudice | libertà di morire. ||»
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Un'immagine del film La camera verde (1978) di e con François Truffaut
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Sul tema non specifico, ma comunque
legato alla morte e al culto dei morti, per cui da come si muore si deduce
anche come si è vissuto, Henry James scrisse L’altare dei morti nel 1885, da cui nel 1978 François Truffaut
trasse ispirazione per dirigere il film La
camera verde, in cui i morti appaiono straordinariamente vivi, vivi per ciò
che in vita essi hanno rappresentato. Ma è seguendo la scienza che si scommette
sulla riuscita non del culto dei morti, ovviamente, ma sulla possibilità di
conciliare la vita con la morte. Quello che il pensiero elabora deve
incontrarsi con la fattualità dello stesso se non vi vuole essere astratti. Al
“possibile” della scienza va auspicato il consenso della politica, della
cultura.
Apparirà sterile, ma possedere per
diritto la tecnica è indispensabile (che sia essa fatta di un sondino, di una
flebo, di una siringa o di un macchinario). Indispensabile significa che
consente di liberarci dall’accusa di omicidio (tragicamente paventata da Marco
Travaglio in un suo editoriale). Se
posso usufruire di strumenti medico-sanitari vuol dire che mi si dà la possibilità
di scegliere per la mia vita. Posso fare la dialisi perché una macchina al
posto dei miei reni purifica il sangue. Questa è la tecnica, indispensabile! In
questo modo l’eutanasia si libera di gran parte delle faziosità intellettuali
nel momento in cui il diritto a morire del malato-morituro o anche della
persona fortemente depressa (e questo è stato il caso di Magri, ammalatosi di
depressione a seguito della scomparsa della moglie) viene sancito per diritto
da una tecnica scientifica che libera soprattutto chi effettua l’iniezione
dall’accusa di omicidio.
Un conto è fare il boia, un conto è
essere medico e sapere che un accanimento terapeutico non conduce a nulla. In
questo caso la libertà si sposa con la coscienza del medico che rispetta la
volontà di chi vuole morire e accoglie la sua specifica richiesta perché il
titolare della tecnica che conduce al trapasso è anzitutto il paziente. Sono io
che consento al medico di operarmi, mica frottole! Sono io che in ospedale devo
firmare delle carte prima di un intervento chirurgico: se le firmo è perché da
quel momento in poi paziente e medico sono d’accordo e co-responsabili.
Allo stesso modo posso dare il mio
consenso a che un medico mi consenta di non soffrire più, senza che egli
incorra in sanzioni disciplinari o rischi, come in Italia, il carcere.
Qui Paolo Flores d’Arcais è impeccabile
in un suo editoriale sul tema: «Se la tua vita non appartiene a te,
amico lettore, ne sarà padrone un altro essere umano, finito e fallibile non
meno di te. […] Quando si vuole porre fine alla tortura che ormai ha saturato
la propria esistenza, si ha sempre bisogno di assistenza: il pentobarbital
sodium non si trova dal droghiere, solo un medico lo può procurare.
L’alternativa è appunto l’esilio o lo strazio estremo dell’angoscia aggiuntiva:
gettarsi sotto un treno o nel vuoto o nella morte per acqua. Le anime “virili”
che si sono concesse perfino l’ironia (“se uno vuol farla finita ha mille modi,
senza piagnistei di ‘aiuto’”: i blog ne sono pieni), hanno davvero oltrepassato
la soglia del vomitevole.»
Quindi, senza un diritto che tutela le
scelte individuali e del personale medico si può continuare ad elargire solo
retorica, ad essere non plus ultra
del cattolicesimo e della religione laica nichilista. Per di più senza una
“tecnica” consentita, il cui accesso è indispensabile, si creano solo
discriminazioni e fastidiose élite. Sapere che in Svizzera si può e in Italia
no, sapere che chi è ricco può e chi è povero no, getta ulteriore benzina sul
fuoco su un argomento etico/morale/filosofico/scientifico che non può essere
liquidato con spicciola nonchalance.
Siamo tutti coinvolti!, ed è per questo
“sacro” motivo che è giusto interrogarci, parlarne e trovare una soluzione
dirimente, etica quanto giuridica. L’eutanasia, come il testamento biologico, è
una questione che non può non riguardarci. Il caso di Lucio Magri (ma
tantissimi altri possono essere citati, da Terry Schiavo a Mario Monicelli)
serve a favorire una conciliazione, una risoluzione, non ad accrescere una
diatriba. Solamente questa può essere la lezione, anche umana, di un uomo che
decide liberamente di morire.