da Il non potere (Zona, 2007)
Il passaggio
La stanza è senza luce:
fulminata
la lampadina (in questa pioggia
crudele
come una mitraglia di ossessioni):
non ci fa mica ridere una donna
che si inciampa per la strada e cade…
È tutta andata via la
gioventù
svenduta mese dopo mese per far posto
a questa produttiva lacrima.
Oh, una lampada da accendere
che illumini soltanto un poco
il ciondolo di plastica, le foto…
E invece tutto schiara mutazione: il sole
di nuovo alla finestra e quella voce,
implacabile, che torna.
Questo salire e scendere,
crollare
o correre all’ombra dei grattacieli
sulla pista ciclabile (il cielo
è spaventoso qui) tu immagina
questo cadere e ridere continuamente
tra le siringhe a terra e le carcasse
dei mici che non ce l’hanno fatta:
bisognerebbe arrendersi
o andare via fuggire
ricominciare tutto altrove, dove
nessuno ti conosce, dove nessuno sa.
E questa sera la luna sarà
gonfia come un ovulo di sangue
(sarà la terra scossa di tremendo):
un’emergenza che giustifichi la pena,
l’urgenza di un’azione definitiva.
Ma no, ma no, c’è il sole…
un sole sopportabile e mediocre,
che mette sonnolenza, che dissuade…
*
«Tu cosa stai facendo
della vita?».
«I verdi prati, i grandi
orinatoi
lo schifo: ci faceva ridere ed invece…
In un cesso a sverginare adolescenze
praticando insegnamenti altrui
mi sono guadagnato questa piccola
cicatrice
proprio sopra l’orecchio destro, non
si vede
ma fa più male di quanto possiate…
Mi salvarono due poliziotti
che vagavo sanguinante per la strada,
mi offrirono un panino, una coca-cola
e la poltrona del questore dove
dormire.
Al risveglio, mi ricordo, c’era
l’alba
ed era enorme, sopra ogni cosa».
«C’era un grosso martello
sotto lo specchio:
argentato, lucente, bilanciamento
perfetto
per inferire un colpo preciso e netto
contro la tempia…».
Oh prendere la forza di non
imbracciare
più l’arma del telefono sparando
messaggi così inutili di aiuto.
Ma non sarà così, sarà la storia
a divorare il bello, a vomitarlo
come una scoria oltraggiosa e impura
da ripulire con cura ai bordi del cesso…
*
«Il sangue rende impura,
ripugnante
imbratta sangue il letto e tra le
gambe
no, non sarò felice più di niente
con tutto questo sangue che mi perde…
Queste protuberanze orrende
dove un corpo era esile, innocente:
due bozze lo condannano all’informe
ruolo della femmina in amore».
Lei
dice: «Guarda la mela che pende
dal ramo, immatura e adolescente:
è goffa se prepara già domani
per lei maturazione un nuovo ciclo.
Cadrà rigonfia e molle e dirà marcia
il contadino sostenendosi la pancia
con gli occhi corrugati dalla sete.
Ma l’utile è volgare, ed anche il
bene
del mondo, no, non ci appartiene.
Prendi in custodia i vermi, invece,
che già ti sbirciano, o quanto
diviene
nel corso dei secoli».
Ma la bambina: «Zitta, il
corpo puzza!».
*
L’estasi
L’amore rattrappito in un
mucchietto
di ossa, uno straccetto mal piegato
sopra il letto: la signora
desidera qualcosa?
Io non ho mai detto che scrivo per
cambiare il mondo
ma per piangere nel fondo
di questa miseria me lo permetterete
brutti figli di puttana?
Nel TUZ TUZ
della disco
apparsa è la madonna
su una colata di ghisa.
Un uccellino mi ha detto:
non ridere, stronzetto,
sei strafatto.
È l’amore rattrappito in un
mucchietto
di ossa, uno straccetto mal piegato
sopra il letto: la signora
desidera qualcosa?
*
Nel letto la visione di una cosa,
la rosa spelacchiata del giubbetto
di lei che ancora dorme oppure è morta…
Non andartene dai, proprio sul bello
della serata.
La
carcassa dell’auto ribaltata
sarà rimossa dal personale addetto
alla perizia…
«Te lo dicevo io che ti
dimenticavi
pure questa volta le chiavi, che
suonavi ancora presto, ed è domenica
e lo sai che tuo padre si
arrabbia…».
Ma quello che aspettavi e
non ritorna
alla porta è una divisa in penombra
e dietro c’è quest’alba orrenda,
sporca,
senza alcun pudore, da obitorio e
claxon.
E il nostro amore che non è
più
lo stesso amore di un tempo, è
qualcosa di diverso,
perché sei andato via proprio sul
bello
della serata?
*
«È così che… che non lo so come si dice
però ti ho preso un
fiore, ecco, prendilo…».
«Lo perderò dentro
l’inferno della sala…».
«Ma almeno provaci un
momento, a trattenerlo…».
«Guarda qui che luce gialla che c’è
sopra l’insegna
che ci piove sopra tutta questa
pioggia
che viene giù dalla grondaia rotta
dei palazzi.
Guarda le rondini,
schiacciate pure loro
da questo cielo così inutile e
italiano
che non sovrasta proprio niente, è
sovrastato
come un coperchio rialzato dalla
schiuma
dell’acqua sporca, che ribolle e preme.
Questo è l’amore ai tempi della
techno,
se non ci credi…
vabe’ lo stesso
tanto qui la luce è muro vuoto, è
nudo
parcheggio, sotto casa, che
impedisce».
*
E sventolasti un biglietto
di non so che andata
contro di lei che rimaneva viva.
Poi certo, pure noi nella deriva
cadremo, questa gloria impasticcata
è solo una questione di ore.
Ma adesso tu sorridi come
allora
quando in due sul motorino la strada
era uno straccio indecifrabile e la
vita
era bellissima: la bara
le ripercorre lenta e trionfale
come in una visione allucinata.
*
La condanna
Amico mio la primavera tutto
cambia
radici sensi sradica deriva
la riva la trovammo rosicchiata
i nomi dei fiori perduti appena.
Non lo aprirò quel libro di botanica,
la vita è irrimediabile, del resto…
Così a Nicola lo metteranno dentro.
Spaccio di eroina, tentata strage.
Lui dice due anni al fresco cosa vuoi
che siano
non è che ci sia granché da fare in città…
Leggerò dei libri, mi porterai
qualcosa?
Certo, ora però l’importante è che…
(Piange la madre sotto le lenzuola,
prega il rosario, anche se non
crede.)
Mi ricordo di un racconto
che scrivesti
(o forse un sogno) di te bambino
che ridevi in cima a un albero…
dovresti leggerlo, come per dire
signor giudice a parte i fatti c’è
dell’altro
lo capisce che c’è dell’altro nella
vita di un uomo?
«Non preoccuparti, starò
bene. Grazie».
Un giorno al fiume mi
dicesti sono povero
perché ho tutto mal trattato
e forse l’unico peccato è proprio
questo
sciupare doni, le occasioni…
(certo,
anch’io… in
altro modo…).
Amico mio la primavera tutto cambia
radici sensi sradica rovina
la riva la trovammo rosicchiata
e i nomi dei fiori…
Non siamo mica nati per
questo centro
di feste universitarie ed empori…
Tornare nei boschi neppure ci serve,
il silenzio è altrettanto volgare.
Le icone del niente sopra gli scooter
se ne vanno invece verso il mare
dove ridere sfacciatamente sarà
il loro modo di sentirsi gente.
Poi lo saranno sempre, e senza grida
sfacciati padroni di immobili ed
aziende
o di famiglie corrose dall’invidia…
Torti nell’utile, come una garanzia
di riuscita, nell’indecente calcolo
della nostra ferita.
*
Tu, quando avrai corroso
ulteriormente
la resistenza dell’umano, preparati
ad uscire:
il vero mondo è lì, lì fuori.
Sopra i piloni di cemento
le scritte di un tempo
sono tutte andate via col sole.
Resta la macchia di quando cascando
pensasti: uccidetemi, al punto che
sono
non sono più utile a nessuno.
L’inopportuno così tenero e sgradito
tuo modo di parlare,
chissà perché è rimasto quell’alone
proprio lì, dove tu eri.
«Non sai niente? Siediti,
devo parlarti…».
In questa conca orribile di
muri
solo le ombre rimangono violente
sugli stabilimenti e le ringhiere
o come epitaffi alla memoria le
panchine
riportano in vita un vociare di morto
che si raggruma…
E nel parco la giostra divelta adesso
è un fosso dove prima invece un perno…
Tutto è negato a chi si
muove
innamorato delle cose: non pretendere
bisogna, dimenticare in fretta…
guardarsi dalla fede, imparare
a far di conto…
*
«Noi siamo noi per loro
che sono così tanti
e tutti così loro…».
Come una mosca sulla carta
che l’appiccica
canticchia Augusto incrostato al
bancone:
«condanna
è questo stare
al margine, è il lager
della vita, che nessuna rivoluzione…».
«La vita inutile, inutile
la vita che trascorre inutilmente
e starcelo a dire a cosa serve? A
dire: prima o poi…
Ma tanto prima o poi
niente».
Solo una grande esplosione
(per dirla
alla Pasolini) salverà questa
nazione,
o un’invasione di gentaglia, o una carestia…
Ma non lo so, ma che ne so io…
Fefo dice che bisogna essere estremamente
sinceri
cioè ridere commuoversi gridare
antisociali e belli parlare
a voce alta, parlare sempre…
*
Lampi
Se pure ti avessi incontrata, vita
sarei rimasto immobile, incapace
a piangere come di fronte a un morto.
Sotto un fiotto di luce se ne stava
col suo camice bianco di angelo
o di dottoressa.
Balliamo dai ’sta sera
sono allegro come un bambino, ehi
mi riconosci?
Noi tutti sui divani a far l’amore
con noi stessi, a premere le mani
sui sessi solitari…
Salutiamoci così, senza lacrime né baci.
Basti una stretta di mano a dirsi addio,
una pacca sulle spalle, da padre antico...
*
Con ali di cemento armato tornerà
il domani a coglierci, di nuovo
impreparati a una seconda vita…
*
Non rispose.
Morimmo sotto braccio, in overdose
nel gabinetto di una discoteca marina.
I nostri corpi tra due fuochi, fuori
la tragedia mattutina, sopra di noi
il bianco neon della cabina...
Così ci salutammo, nello specchio
per ridere di noi nella rovina
come pazzi abbarbicati al secchio
dell’immondizia.
(Il cliente selezionato non è al momento…).
Si parlerà domani di eroina
o di problematiche legate al vuoto
del mondo giovanile.
Eppure muto riuscii a prenderti, selvaggia
maestà delle Puglie: ti chiamo
selvaggia maestà de li mari: li scogli
o l’oblio, il creato e nisciuna: che ridere
amore mio che ridere l’infinito che
si scaglia
oltre il parcheggio abusivo…
***
da La rimozione (Sigismundus, 2011)
VIOLA
I. Gli orfani
Occorre ritrovarsi. Su questo
bagnasciuga
reticolato. Dentro queste macchie
di acquerelli e pixel. Nel cielo
sfibrato. Occorre comunque ritrovarsi.
L’immagine è sfocata. Un’ombra
accartocciata ai piedi del mare.
(Non lo so neanch’io, no: non lo
so...).
Sulla battigia desolata
gli uomini in fuga cercano un rifugio
e i deboli un lungo sonno.
Così come orfani del mondo
incatenati nella febbre a vita
del giorno: è così, sì, va bene...
Ma sebbene le tubature siano molte
e la sorgente unica
l’origine, Giulia, è
dentro l’assedio.
II.
San Lorenzo
Versate il piombo della sera
nella sera di piombo, alzate
questa tumefatta scena.
Montate le strade, i palazzi di
cartone
nella sera di piombo sparate
i vostri cannoni a salve.
III.
Visione
Così c’è qualche cosa che tradisce.
Se tornano è nell’ombra, destinati al
silenzio.
Un oltretomba di saluti e sputi
dove le crepe nere spaccano le mura.
Se scappa non ritorna eppure
muta
lo stesso, come un lago di cenere
in cui sprofonda le mani
con sete di rugiada.
Porterai con te queste
giornate di novembre?
Non c’è nessuna strada.
*
(Dentro il paesaggio antico quale
squarcio,
quale verde-viola scomposizione?
Sfibra scucito il telo.
Decomponi il cielo.
Nel velo digitale
individua l’errore.
Afferra il lembo opaco.
Scorteccia la
visione.).
IV. Preghiera
Scorteccio il cielo alla
ricerca di un’origine.
La stella è bianca. Blu
cobalto rovinato.
Sia lode al padre e al figlio
che tornano al cantiere.
Notte di tram e nebbia.
Pietà di me signore.
Di fronte a questa storia
anche il sole si incrina.
Gli avanzi della luce.
Madonna di lamiera.
Le stelle della sera.
Nebbia di punti viola.
Foresta bianca e nera.
Batteri di
memoria.
V. Rappresentazione
Partiamo,
come un livello di separazione
da infrangere.
*
In ogni cavo la sostanza mancante
in forma di lacrima chiamare.
Questo sembiante accarezzare.
“Chiedo asilo? Decoro?”.
Poeta, cosa voglio ignoro.
Il quadro degli orizzonti è pieno.
L’ambiente ridicolo. Il possibile designato
vuoto. Ho sognato
una casa che non c’era e una sorella
nell’origine. Ma pure tu baciare
vuoi nel modo in cui morire
non sia più l’arido male. Ma l’altro
non esiste.
E per sognare servono i soldi.
*
Ho imparato l’allegria dei sampietrini bagnati,
la via di casa quando piove e tardi
la ragazza pallida che ti offre la mano.
“Spariranno?”. Non so, tutto è svanito,
e assieme al tutto anch’io che cerco
ristoro in una canzonetta sbandata.
Vorrei in fiamme vedere
le vetrine dei call center,
le agenzie interinali,
e con pietà francescana aggiungere
al fuoco nuovo fuoco.
Ma tutto quanto ricadrà su noi
che sete avremmo avuto
di sole e di fontana.
*
E San Lorenzo appare
nella sua scomposizione
di sabbia bagnata.
Avremmo detto: certo, avanziamo,
così come per fare un movimento qualsiasi.
La rappresentazione è salvaguardata.
Io voglio il meglio.
Se fuoco non arde. E fontana
ricorda. Verde. Blu.
Volevo il meglio
da questa generazione sballata
di pasticche e psicofarmaci.
Così certo, potremmo facilmente
bruciare
il vecchio mondo rappresentato,
ma un enorme deserto illuminato a nuovo
non era certo il fine di questa guerriglia!
(La schermata del cielo
gelidamente oggettivo).
*
E quella notte apparvero infuocate croci.
Un cimitero di bottiglie incomprensibile ai più.
Paesaggio verde e nero
di infrarossi e fanale.
In fila pisciavamo contro il mare.
“Starò con i miei amici
fino alla fine del mondo.”.
* Davide Nota,
nato a Cassano d’Adda (MI) il 21 novembre del 1981. Laureato
nel 2007 in Lettere Moderne presso l’Università di Perugia, con una tesi sulla
“Nuova poesia italiana”.
Residente ad Ascoli Piceno. Domiciliato dal 2008 a Roma. Fondatore
nel 2005 e redattore del Foglio quadrimestrale di poesia e realtà “La Gru” (www.lagru.org). Ideatore nel 2009 del movimento “Calpestare l’oblio”. Ha scritto e
pubblicato sulle principali riviste di letteratura e poesia contemporanea (tra
le tante: “Atelier”, “Nuovi Argomenti”, “Lo Specchio della Stampa”, “Carmilla”, “Chorus”, “Ut”,
“Nazione indiana”, “Il foglio clandestino” etc.).
Ha pubblicato tre libri di poesia: Battesimo (LietoColle, 2005), con
introduzione di Gianni D’Elia; Il non
potere (Zona, 2007), con una lettera prefatoria
di Luigi-Alberto Sanchi e La rimozione (Sigismundus,
2011), con una nota introduttiva di Raimondo Iemma.