CHECKPOINT POETRY
DAVIDE NOTA
 

 

 

 

da Il non potere (Zona, 2007)

 

 

Il passaggio

 

La stanza è senza luce: fulminata

la lampadina (in questa pioggia crudele

come una mitraglia di ossessioni):

non ci fa mica ridere una donna

che si inciampa per la strada e cade…

 

È tutta andata via la gioventù

svenduta mese dopo mese per far posto

a questa produttiva lacrima.

Oh, una lampada da accendere

che illumini soltanto un poco

il ciondolo di plastica, le foto…

 

E invece tutto schiara mutazione: il sole

di nuovo alla finestra e quella voce,

implacabile, che torna.

 

Questo salire e scendere, crollare

o correre all’ombra dei grattacieli

sulla pista ciclabile (il cielo

è spaventoso qui) tu immagina

questo cadere e ridere continuamente

tra le siringhe a terra e le carcasse

dei mici che non ce l’hanno fatta:

bisognerebbe arrendersi

o andare via fuggire

ricominciare tutto altrove, dove

nessuno ti conosce, dove nessuno sa.

 

E questa sera la luna sarà

gonfia come un ovulo di sangue

(sarà la terra scossa di tremendo):

un’emergenza che giustifichi la pena,

l’urgenza di un’azione definitiva.

Ma no, ma no, c’è il sole…

un sole sopportabile e mediocre,

che mette sonnolenza, che dissuade…

 

                         *

 

«Tu cosa stai facendo della vita?».

 

«I verdi prati, i grandi orinatoi

lo schifo: ci faceva ridere ed invece…

In un cesso a sverginare adolescenze

praticando insegnamenti altrui

mi sono guadagnato questa piccola cicatrice

proprio sopra l’orecchio destro, non si vede

ma fa più male di quanto possiate…

 

Mi salvarono due poliziotti

che vagavo sanguinante per la strada,

mi offrirono un panino, una coca-cola

e la poltrona del questore dove dormire.

Al risveglio, mi ricordo, c’era l’alba

ed era enorme, sopra ogni cosa».

 

«C’era un grosso martello sotto lo specchio:

argentato, lucente, bilanciamento perfetto

per inferire un colpo preciso e netto

contro la tempia…».

 

Oh prendere la forza di non imbracciare

più l’arma del telefono sparando

messaggi così inutili di aiuto.

Ma non sarà così, sarà la storia

a divorare il bello, a vomitarlo

come una scoria oltraggiosa e impura

da ripulire con cura ai bordi del cesso…

 

                         *

 

«Il sangue rende impura, ripugnante

imbratta sangue il letto e tra le gambe

no, non sarò felice più di niente

con tutto questo sangue che mi perde…

 

Queste protuberanze orrende

dove un corpo era esile, innocente:

due bozze lo condannano all’informe

ruolo della femmina in amore».

 

Lei dice: «Guarda la mela che pende

dal ramo, immatura e adolescente:

è goffa se prepara già domani

per lei maturazione un nuovo ciclo.

Cadrà rigonfia e molle e dirà marcia

il contadino sostenendosi la pancia

con gli occhi corrugati dalla sete.

Ma l’utile è volgare, ed anche il bene

del mondo, no, non ci appartiene.

Prendi in custodia i vermi, invece,

che già ti sbirciano, o quanto diviene

nel corso dei secoli».

 

Ma la bambina: «Zitta, il corpo puzza!».

 

                                *

 

L’estasi

 

L’amore rattrappito in un mucchietto

di ossa, uno straccetto mal piegato

sopra il letto: la signora

desidera qualcosa?

Io non ho mai detto che scrivo per cambiare il mondo

ma per piangere nel fondo

di questa miseria me lo permetterete

brutti figli di puttana?

 

Nel TUZ TUZ della disco

apparsa è la madonna

su una colata di ghisa.

 

Un uccellino mi ha detto:

non ridere, stronzetto,

sei strafatto.

 

È l’amore rattrappito in un mucchietto

di ossa, uno straccetto mal piegato

sopra il letto: la signora

desidera qualcosa?

 

                         *

 

Nel letto la visione di una cosa,

la rosa spelacchiata del giubbetto

di lei che ancora dorme oppure è morta…

Non andartene dai, proprio sul bello

della serata.

 

La carcassa dell’auto ribaltata

sarà rimossa dal personale addetto

alla perizia…

 

«Te lo dicevo io che ti dimenticavi

pure questa volta le chiavi, che

suonavi ancora presto, ed è domenica

e lo sai che tuo padre si arrabbia…».

 

Ma quello che aspettavi e non ritorna

alla porta è una divisa in penombra

e dietro c’è quest’alba orrenda, sporca,

senza alcun pudore, da obitorio e claxon.

 

E il nostro amore che non è più

lo stesso amore di un tempo, è

qualcosa di diverso,

perché sei andato via proprio sul bello

della serata?

 

                         *

 

«È così che… che non lo so come si dice

però ti ho preso un fiore, ecco, prendilo…».

«Lo perderò dentro l’inferno della sala…».

«Ma almeno provaci un momento, a trattenerlo…».

 

«Guarda qui che luce gialla che c’è sopra l’insegna

che ci piove sopra tutta questa pioggia

che viene giù dalla grondaia rotta

dei palazzi.

 

Guarda le rondini, schiacciate pure loro

da questo cielo così inutile e italiano

che non sovrasta proprio niente, è sovrastato

come un coperchio rialzato dalla schiuma

dell’acqua sporca, che ribolle e preme.

 

Questo è l’amore ai tempi della techno,

se non ci credi… vabe’ lo stesso

tanto qui la luce è muro vuoto, è nudo

parcheggio, sotto casa, che impedisce».

 

                         *

 

E sventolasti un biglietto di non so che andata

contro di lei che rimaneva viva.

Poi certo, pure noi nella deriva

cadremo, questa gloria impasticcata

è solo una questione di ore.

 

Ma adesso tu sorridi come allora

quando in due sul motorino la strada

era uno straccio indecifrabile e la vita

era bellissima: la bara

le ripercorre lenta e trionfale

come in una visione allucinata.

 

                         *

 

La condanna

 

Amico mio la primavera tutto cambia

radici sensi sradica deriva

la riva la trovammo rosicchiata

i nomi dei fiori perduti appena.

Non lo aprirò quel libro di botanica,

la vita è irrimediabile, del resto…

 

Così a Nicola lo metteranno dentro.

Spaccio di eroina, tentata strage.

Lui dice due anni al fresco cosa vuoi che siano

non è che ci sia granché da fare in città…

Leggerò dei libri, mi porterai qualcosa?

Certo, ora però l’importante è che…

 

(Piange la madre sotto le lenzuola,

prega il rosario, anche se non crede.)

 

Mi ricordo di un racconto che scrivesti

(o forse un sogno) di te bambino

che ridevi in cima a un albero…

dovresti leggerlo, come per dire

signor giudice a parte i fatti c’è dell’altro

lo capisce che c’è dell’altro nella vita di un uomo?

 

«Non preoccuparti, starò bene. Grazie».

 

Un giorno al fiume mi dicesti sono povero

perché ho tutto mal trattato

e forse l’unico peccato è proprio questo

sciupare doni, le occasioni… (certo,

anch’io… in altro modo…).

Amico mio la primavera tutto cambia

radici sensi sradica rovina

la riva la trovammo rosicchiata

e i nomi dei fiori…

 

Non siamo mica nati per questo centro

di feste universitarie ed empori…

Tornare nei boschi neppure ci serve,

il silenzio è altrettanto volgare.

Le icone del niente sopra gli scooter

se ne vanno invece verso il mare

dove ridere sfacciatamente sarà

il loro modo di sentirsi gente.

Poi lo saranno sempre, e senza grida

sfacciati padroni di immobili ed aziende

o di famiglie corrose dall’invidia…

Torti nell’utile, come una garanzia

di riuscita, nell’indecente calcolo

della nostra ferita.

 

                         *

 

Tu, quando avrai corroso ulteriormente

la resistenza dell’umano, preparati ad uscire:

il vero mondo è lì, lì fuori.

 

Sopra i piloni di cemento

le scritte di un tempo

sono tutte andate via col sole.

Resta la macchia di quando cascando

pensasti: uccidetemi, al punto che sono

non sono più utile a nessuno.

L’inopportuno così tenero e sgradito

tuo modo di parlare,

chissà perché è rimasto quell’alone

proprio lì, dove tu eri.

 

«Non sai niente? Siediti, devo parlarti…».

 

In questa conca orribile di muri

solo le ombre rimangono violente

sugli stabilimenti e le ringhiere

o come epitaffi alla memoria le panchine

riportano in vita un vociare di morto

che si raggruma…

E nel parco la giostra divelta adesso

è un fosso dove prima invece un perno…

 

Tutto è negato a chi si muove

innamorato delle cose: non pretendere

bisogna, dimenticare in fretta…

guardarsi dalla fede, imparare

a far di conto…

 

                         *

 

«Noi siamo noi per loro

che sono così tanti

e tutti così loro…».

Come una mosca sulla carta che l’appiccica

canticchia Augusto incrostato al bancone:

«condanna è questo stare

al margine, è il lager

della vita, che nessuna rivoluzione…».

 

«La vita inutile, inutile

la vita che trascorre inutilmente

e starcelo a dire a cosa serve? A dire: prima o poi…

Ma tanto prima o poi niente».

 

Solo una grande esplosione (per dirla

alla Pasolini) salverà questa nazione,

o un’invasione di gentaglia, o una carestia…

Ma non lo so, ma che ne so io…

Fefo dice che bisogna essere estremamente sinceri

cioè ridere commuoversi gridare

antisociali e belli parlare

a voce alta, parlare sempre…

 

                             *

 

Lampi

Se pure ti avessi incontrata, vita
sarei rimasto immobile, incapace
a piangere come di fronte a un morto.

Sotto un fiotto di luce se ne stava
col suo camice bianco di angelo
o di dottoressa.
Balliamo dai ’sta sera
sono allegro come un bambino, ehi
mi riconosci?

Noi tutti sui divani a far l’amore
con noi stessi, a premere le mani
sui sessi solitari…

Salutiamoci così, senza lacrime né baci.
Basti una stretta di mano a dirsi addio,
una pacca sulle spalle, da padre antico...

                         *

Con ali di cemento armato tornerà
il domani a coglierci, di nuovo
impreparati a una seconda vita…

                         *

Non rispose.
Morimmo sotto braccio, in overdose
nel gabinetto di una discoteca marina.

I nostri corpi tra due fuochi, fuori
la tragedia mattutina, sopra di noi
il bianco neon della cabina...

Così ci salutammo, nello specchio
per ridere di noi nella rovina
come pazzi abbarbicati al secchio
dell’immondizia.

(Il cliente selezionato non è al momento…).

Si parlerà domani di eroina
o di problematiche legate al vuoto
del mondo giovanile.

Eppure muto riuscii a prenderti, selvaggia
maestà delle Puglie: ti chiamo
selvaggia maestà de li mari: li scogli
o l’oblio, il creato e nisciuna: che ridere

amore mio che ridere l’infinito che si scaglia
oltre il parcheggio abusivo…

 

                                  ***

 

da La rimozione (Sigismundus, 2011)

 

 

VIOLA

 

I. Gli orfani

 

Occorre ritrovarsi. Su questo bagnasciuga

reticolato. Dentro queste macchie

di acquerelli e pixel. Nel cielo

sfibrato. Occorre comunque ritrovarsi.

 

L’immagine è sfocata. Un’ombra

accartocciata ai piedi del mare.

(Non lo so neanch’io, no: non lo so...).

Sulla battigia desolata

gli uomini in fuga cercano un rifugio

e i deboli un lungo sonno.

 

Così come orfani del mondo

incatenati nella febbre a vita

del giorno: è così, sì, va bene...

Ma sebbene le tubature siano molte

e la sorgente unica

l’origine, Giulia, è dentro l’assedio.

 

II. San Lorenzo

 

Versate il piombo della sera

nella sera di piombo, alzate

questa tumefatta scena.

Montate le strade, i palazzi di cartone

nella sera di piombo sparate

i vostri cannoni a salve.

 

III. Visione

 

Così c’è qualche cosa che tradisce.

Se tornano è nell’ombra, destinati al silenzio.

Un oltretomba di saluti e sputi

dove le crepe nere spaccano le mura.

 

Se scappa non ritorna eppure muta

lo stesso, come un lago di cenere

in cui sprofonda le mani

con sete di rugiada.

 

Porterai con te queste giornate di novembre?

 

Non c’è nessuna strada.

 

                           *

 

(Dentro il paesaggio antico quale squarcio,

quale verde-viola scomposizione?

Sfibra scucito il telo.

Decomponi il cielo.

Nel velo digitale

individua l’errore.

Afferra il lembo opaco.

Scorteccia la visione.).

 

 

IV. Preghiera

 

Scorteccio il cielo alla

ricerca di un’origine.

La stella è bianca. Blu

cobalto rovinato.

 

Sia lode al padre e al figlio

che tornano al cantiere.

Notte di tram e nebbia.

Pietà di me signore.

 

Di fronte a questa storia

anche il sole si incrina.

Gli avanzi della luce.

Madonna di lamiera.

 

Le stelle della sera.

Nebbia di punti viola.

Foresta bianca e nera.

Batteri di memoria.

 

 

V. Rappresentazione

 

Partiamo,

come un livello di separazione

da infrangere.

 

                      *

 

In ogni cavo la sostanza mancante

in forma di lacrima chiamare.

Questo sembiante accarezzare.

“Chiedo asilo? Decoro?”.

Poeta, cosa voglio ignoro.

Il quadro degli orizzonti è pieno.

L’ambiente ridicolo. Il possibile designato

vuoto. Ho sognato

una casa che non c’era e una sorella

nell’origine. Ma pure tu baciare

vuoi nel modo in cui morire

non sia più l’arido male. Ma l’altro

non esiste.

E per sognare servono i soldi.

 

                       *

 

Ho imparato l’allegria dei sampietrini bagnati,

la via di casa quando piove e tardi

la ragazza pallida che ti offre la mano.

“Spariranno?”. Non so, tutto è svanito,

e assieme al tutto anch’io che cerco

ristoro in una canzonetta sbandata.

Vorrei in fiamme vedere

le vetrine dei call center,

le agenzie interinali,

e con pietà francescana aggiungere

al fuoco nuovo fuoco.

Ma tutto quanto ricadrà su noi

che sete avremmo avuto

di sole e di fontana.

 

                           *

 

E San Lorenzo appare

nella sua scomposizione

di sabbia bagnata.

Avremmo detto: certo, avanziamo,

così come per fare un movimento qualsiasi.

La rappresentazione è salvaguardata.

 

Io voglio il meglio.

Se fuoco non arde. E fontana

ricorda. Verde. Blu.

Volevo il meglio

da questa generazione sballata

di pasticche e psicofarmaci.

 

Così certo, potremmo facilmente bruciare

il vecchio mondo rappresentato,

ma un enorme deserto illuminato a nuovo

non era certo il fine di questa guerriglia!

(La schermata del cielo

gelidamente oggettivo).

 

                                *

 

E quella notte apparvero infuocate croci.

Un cimitero di bottiglie incomprensibile ai più.

Paesaggio verde e nero

di infrarossi e fanale.

In fila pisciavamo contro il mare.

“Starò con i miei amici

fino alla fine del mondo.”.

 

 

 

*  Davide Nota, nato a Cassano d’Adda (MI) il 21 novembre del 1981. Laureato nel 2007 in Lettere Moderne presso l’Università di Perugia, con una tesi sulla “Nuova poesia italiana”.

Residente ad Ascoli Piceno. Domiciliato dal 2008 a Roma. Fondatore nel 2005 e redattore del Foglio quadrimestrale di poesia e realtà “La Gru” (www.lagru.org). Ideatore nel 2009 del movimento “Calpestare l’oblio”. Ha scritto e pubblicato sulle principali riviste di letteratura e poesia contemporanea (tra le tante: “Atelier”, “Nuovi Argomenti”, “Lo Specchio della Stampa”, “Carmilla”, “Chorus”, “Ut”, “Nazione indiana”, “Il foglio clandestino” etc.).

Ha pubblicato tre libri di poesia: Battesimo (LietoColle, 2005), con introduzione di Gianni D’Elia; Il non potere (Zona, 2007), con una lettera prefatoria di Luigi-Alberto Sanchi e La rimozione (Sigismundus, 2011), con una nota introduttiva di Raimondo Iemma.

 

 




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