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di Mario Lunetta
Ignazio Delogu
ci ha lasciato lo scorso 27 luglio. È stato molte cose Ignazio, diciamo pure un
sistema articolato e insieme stretto in una ferrea coerenza: poeta in lingua
sarda e italiana (A boghe sola; Specchio vegetale; Bestiario urbano; Oscura
notizia), narratore di vividi racconti in cui spesso si afferma un pastiche
labirintico di lingua nazionale, di catalano e di sardo (Tre racconti post-gotici), romanziere. Appunto in un romanzo come Arde il mare (l’unico stricto sensu da lui pubblicato) opera –
per dirla col suo amato Borges – una sorta di sottile ficcion di spostamento dentro il cànone del thriller, nei confronti
del quale il narratore mostra una libertà random al limite della noncuranza. A
un giallista “di razza” sta a cuore soprattutto il meccanismo, quindi l’esatta
lubrificazione delle sue componenti, in cui nessun elemento può, alla fine,
risultare inspiegato. A un autore che si trovi a “usare” lo schema del thriller
come pretesto a moduli aperti, sta a cuore piuttosto il protagonismo della lingua, il suo senso non utilitario,
insomma il suo mistero altro. È appunto
questo che càpita in un romanzo come Arde
il mare, nel quale certi momenti e certi dettagli possono anche restare
sospesi e privi di immediata decifrazione, vere res nullius espulse dal giro di una roulette cieca, e in cui invece
importano altri più enigmatici dati, in un gioco che reclama una percezione più
duttile da parte del lettore. Quali sono questi dati nel libro di Delogu? A me
pare che quelli fondamentali, che agiscono insieme come ossatura e come polpa
poetica della narrazione, siano almeno tre: la densità della scrittura,
l’attenzione fortemente adesiva al paesaggio, il disegno dei personaggi.
L’effetto suspense risulta allora, in
questa strategia differita e obliqua, decisamente secondario: e certo,
complicano in positivo le cose – con cruciale mossa di straniamento – gli
inserimenti nella fabula in terza
persona di brani di diario della protagonista, la bella, vibrante ragazza che
lungo tutto il romanzo è qualificata soltanto come la
Signorina (solo di passata chiamata all’inizio Emily, figlia della Signora sua madre – con una sorta di ironico richiamo del narratore
alle reticenze ambigue stile Henry James).
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Ignazio Delogu (1928-2011)
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Con un libro
come Parallelo Sud. Patagonia tragica,
Terra del Fuoco e altri orizzonti (ellis edizioni) il periscopio di Delogu
si sposta su una realtà remota (anche se per certi versi somigliante) da quella
sarda: uno sguardo acceso e profondo su un universo incredibilmente complesso,
su un’antropologia e una storia troppe volte cinicamente lateralizzate o
osservate soltanto con affascinata disattenzione. Ciò che sorprende in questa
vivida narrazione meticcia che agisce al pari di un patchwork composto di una
quantità di elementi eterocliti che vanno a sintesi per sciogliersi di nuovo e
di nuovo tornare a sintesi, e via e via, in una catena fortemente
interrogativa, è, in primis, il
sottotitolo “romanzo”; perché l’asse sotterranea del libro è un’asse anche teorica: dalla deriva saggistica a
ciò che l’autore chiama cuento rezagado al
“romanzo critico”. Assegnare la propria opera così perdutamente “impura” a un
genere come il romanzo, che dell’“impurità”
intercodice è la massima espressione, è tuttavia, a ben vedere, una mossa – più
che esplicativa – vòlta a confondere le tracce per aprirsi un sentiero nella
selva degli eventi, delle memorie e delle ipotesi: e lo si capisce da subito,
considerando l’esergo tolto da Lessico
famigliare di Natalia Ginzburg (“Benché tratto dalla realtà, penso che si
debba leggerlo come fosse un romanzo: e cioè senza chiedergli nulla di più, né
di meno, di quello che un romanzo può dare”: dove resta insoluta la domanda di
quello che, appunto, un romanzo può dare,
e che può essere moltissimo o terribilmente poco).
Per alcuni anni,
dice Ignazio, egli s’è aggirato in quella parte di mondo che Pablo Neruda ha
denominato largo petalo. In seguito,
trascorsa un’altra serie di anni, di cenere e di polvere, Delogu ha sentito
irrefrenabilmente la necessità di testimoniare quei suoi transiti lontani forse
anche per delocalizzare il proprio cuore e la propria intelligenza. Così, il
suo libro plurale, aperto a una serie vasta di venti e di passioni, si
(in)conclude con una pagina memorabile: “Morto Salvador Allende, el Chicho. Morto Pablo Neruda, Paolo. Assassinato a bastonate il suo
amico-segretario, Homero Arce. Trafitto al cuore dalla baionetta assassina di
un golpista Victor Jara, l’autore di Venceremos
e di Te recuerdo Amanda. E tanti altri nelle
carceri, nei lager delle isole o precipitati nel Pacifico dagli aerei della Gloriosa Fuerza Aerea o massacrati sulle
navi della Invicta Armada. Se la
patria è la terra dove sono sepolti i
nostri morti, anche il Cile è la mia patria. Cesare Pavese ha lasciato
scritto ne Il mestiere di vivere: Io
credo che sia molta umiltà essere scrittore. Lo credo anch’io. Per questo sentivo
l’obbligo di raccontarla, quella Terra. Anche per un dovere di verità. Per
impedire una volta di più che la realtà
sia quella che appare, non quella che è”.
Il saggista, il traduttore,
l’inviato speciale, l’interprete internazionale. E ancora, né secondariamente,
il docente di letteratura spagnola e catalana. A Pablo Neruda Delogu ha
dedicato due libri e, in collaborazione con Veronica Torres, un bel catalogo
per una mostra itinerante (Viaggio nella
Tunica Verde, Neruda in Italia 1949-1999). Lascia una gran quantità di
inediti di vario genere (poesie, racconti, un romanzo che considerava
imprescindibile da tutta la sua vicenda umana, intellettuale, politica; infine
un foltissimo, purtroppo incompiuto brogliaccio di ricordi, incontri, polemiche,
conversazioni che io stesso lo pungolavo insistentemente a scrivere perché, gli
dicevo, “tu Ignazio, hai conosciuto tutti, e sei obbligato a lasciarne
testimonianza”, e lui mi rassicurava ogni volta. Sicuramente, una miniera
preziosa di situazioni entusiasmanti o amare, di episodi che possono anche
smentire tante verità ufficiali, di battute, di infinite pillole
d’intelligenza… Davvero un uomo plurale, il mio amico Ignazio Delogu col quale
avevo fraternizzato da subito, fin dai tardi Sessanta, con un’accensione
intensa nel ’73, appena dopo il golpe di Pinochet, quando insieme ci
impegnammo, anche tramite l’Associazione Italia-Cile, a sostenere in diversi
modi poeti e scrittori esuli (Ariel Dorfman, Hernan Castellano Giron del quale
tradussi qualche tempo dopo un libro di poesia, El automovil celestial, e molti altri).
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Da sinistra: Mario Lunetta, Ignazio Delogu, Louis Aragon e Luigi Fontanella
(Certaldo, luglio 1981)
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La sua amicizia
con Rafael Alberti è “storica” e quasi ancestrale. E fu appunto Ignazio a
introdurmi nella frequentazione del grande poeta di Sobre los angeles durante la sua lunga permanenza romana, quando
abitava con Maria Teresa Leon nella stupenda casa di via Garibaldi, ai piedi
del Gianicolo. Anche la letteratura, anche la poesia sono nutrite di storia:
questa ha sempre saputo e creduto Ignazio. Ma la sua scrittura, anche se distillata
da sofisticati filtri intellettuali di varia e ardua provenienza, ha un
deposito orale, che certo veniva da molto lontano, dalle storie, dalle
cantafavole, dai miti della sua Sardegna catalana mescolati nel fiato caldo di
molte civiltà (Spagna, Francia e Latinoamerica soprattutto) dall’immaginazione
odierna di un uomo che aveva fatto una gran copia di esperienze avendo
attraversato paesi e popoli, culture e lingue con disinvoltura, consapevolezza
e magnifica capacità di integrazione. Del resto, non ha scritto Tristan Tzara
che “Il pensiero nasce in bocca”? Bene: la bocca e la testa di Ignazio
funzionavano alla stessa velocità; ed è questa consonanza vivacemente sintonica
ad aver fatto di lui, oltre al resto, il più straordinario affabulatore che
abbia mai conosciuto. Un affabulatore che mescidava serenamente, col gusto di
un bambino giocherellone e un po’ canaille,
tutte le lingue i dialetti i gerghi che si portava dentro. Dio, le nostre
interminabili telefonate degli ultimi anni, quando – vivendo a seicento chilometri
di distanza – vederci era diventato raro. Lui, Ignazio, le gremiva di memorie,
aneddoti, estri improvvisi che mettevano in gioco di colpo un’infinità di
personaggi famosi, di amici comuni, magari di straordinari Signor Nessuno. Tu eri
lì, ascoltavi, intervenivi, assentivi, interrompevi, ti facevi con lui le più
pazze risate su questa o quella battuta o quella scurrilità in algherese
stretto o in romanesco tosto, e Ignazio non smetteva di allungare la sua
tiepida o irosa sciarpa di parole, di tessere i suoi sontuosi arazzi
multiverbali, di annodare – da nomade di tanti mondi che ne aveva viste troppe
– i suoi tappeti di finissima seta, non di rado tinti di sangue.
Nell’affabulare infinito di Ignazio si incrociavano i linguaggi e si
alternavano i livelli dal plebeo al sofisticato, dall’arcaico tribale al
cosmopolita più eccentrico: e ciò che non smetteva di stupire anche chi per
tanti decenni gli è stato amico, era la naturalezza di questo gioco
affascinante che sembrava non essere sostenuto da alcuna strategia, ma solo dal
respiro ritmico della musica delle parole. Proprio come nei suoi racconti
depositati sulla pagina, come – che so – Ceralacca,
o L’ospite di Varsavia – in cui senza
nessuno stridore il grande enchanteur reimpasta
con stravaganza magistrale le sue innumerevoli tranches di vissuto e di immaginato con certe acide creme che
dall’amato Rabelais delle Parole Gelate sembrano fare cenni d’intesa a questo o
quello dei suoi amici latino-americani, da “Gabo” García Marquez a “Julito”
Cortazar: e – come in quei racconti – il dettato si fa corpo granulare che può
anche aggrumarsi in morbidezze di sapore ghiottissimo e di sfrenata sensualità.
Ora che Ignazio
se n’è andato, mi pare improbabile poter ancora usare quell’arcaico strumento
di comunicazione che è il telefono per conversazioni così lunghe, serie,
goliardiche, calde come un abbraccio. Ma una cosa è certa: continuerà a
risuonarmi dentro la sua voce poetica e politica che, anche divagando,
continuava a interrogare le cose, il mondo, le parole, la vita.
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