CHECKPOINT POETRY
ROSSELLA OR
 


Rossella Or, attrice e poetessa, è stata protagonista dell’avanguardia teatrale romana degli anni ’70. Ha lavorato con Memè Perlini, Simone Carella, Giuliano Vasilicò, Giorgio Barberi Corsetti, Leo De Berardinis, Mario Prosperi, ottenendo un immediato e notevole successo, e ha successivamente iniziato una serie di lavori in proprio di rara intensità (con recupero della parola) di cui ha curato, anche, testo e regia. Di lei ha scritto qualche anno fa il critico teatrale Nico Garrone: “Rossella, se venisse a patti con il galateo della rappresentazione, sarebbe una straordinaria Figliastra, o la delirante Contessa dei Giganti della Montagna. Ma ieri sera ci ha fatto pensare, o sognare, a qualcosa di più: ad un immaginario incontro nell’aldilà tra i fantasmi di Eleonora Duse e di Antonin Artaud.”

La poesia di Rossella Or (che è sempre stata avulsa dalla letteratura come istituzione, ma legatissima, in una lunga frequentazione, alla parola scritta), si nutre dello studio attento e puntiglioso delle avanguardie teatrali e letterarie, della pratica ossessiva del gesto rigoroso e portato all’estremo (completamente calato, e possiamo dire, riversato e riconvertito nella parola), cui è collegato il sentimento straordinariamente vivo dell’esistenzialità, dell’assurdo, dell’ossimoro del vivere, dell’ambiguità felice della vita.     

Una poesia che attua un procedere antimelodico e antinarrativo, fatto di immagini spezzate; una cascata di immagini che si accostano, a volte, agli stilemi della musica contemporanea. La parola scritta, per Rossella, è diventata una seconda felicissima identità.  (Carlo Bordini)

 

 

***

 

 

Notturno

 

Passare addio

aspettare nel verbo

essere, addio, vedere

delle farfalle comunque

Quelle strane anatre nello stagno

così verde, letteralmente e

assurdamente interne alla superficie

piatta, ferma nello stagno così verde,

letteralmente ricoperta dalle foglie,

da determinarne una superficie

così verde, confusa

 

 

 

Senza

 

Senza farsi, senza

indiscutibile scrostata voce

che indifferenza, legava la materia

sfuggiva il suo scorso piano dietro

ai verbi, vetri di comunicazioni

lasciate andare, e d’ore

nulle gremiva le nostre sale, aule

vuote, campi vuoti, barche,

palloni a riva.

 

 

*

 

Come

nella posizione in finita di un pallone nell’

acqua, verde acqua di plastica,

come una retina sottopelle, nel campo del prato,

piscina

 

 

 

Maria

 

Come in guerra, treno

sempre Maria dopo la morte,

protagonisti reali di una perdita

non era nulla, abbiamo solo giocato

non c’era altro tempo

una terribile voglia di giocare,

spezzare tutti gli incantesimi.

Ma mentre ogni tanto,

quel tanto d’idiota s’intrometteva

tra noi, non eravamo noi

era la lingua.

Urbana,

nel movimento dei corpi

la città comunque occidentale semina,

mentre s’avverte lo spostamento

d’aria, determinato solo

dall’avvicinarsi di un altro.

L’altro mondo va ascoltato

con una vera passione,

esiste.

Come il cerchio,

è una figura che sfugge di continuo

al suo limite.

Del verbo essere

tipo aspettare la vita

come al solito, sempre, mentre

sola dall’altro lato guardandola,

tenta di suggerire il passo seguente,

nel luogo del problema, sognavo.

Comunque rincorsa in tempo

dalla tua voce,

solitudine dell’universo dire

giusto domata dal vuoto

 

 

 

La sua bellezza come una spazzatura bianca

 

La sua bellezza,

come una spazzatura bianca

ieri levava un’ombra al  vento,

parodia nulla, nel silenzio nulla

amore, pena infinita da strada

e le cose lasciano un sapore continuo

che scorre dalla testa ai piedi,

color acqua lontana, cosa

brucia, senza rincorrersi un’idea

di giorno in giorno tra loro,

che senza potere si disperde

per funivie di inverni colorati al buio,

come brillano le dita sui fogli,

di quelle rivoluzioni con la testa

nella testa della luna, e si poteva

ridecidere, l’inizio della mia volta

di quella unità, dove per caso divenni loro

come pregata da loro, scherzavo.

Ora giocano senza occhi, e le mani

a riva, cercano di distrarre un senso

ora plurime, un senso diventato ormai fantasma.

Diventai, così nel coro completamente

trasparente, e sorda alla cantilena di voci

orecchie ferme solo alla facciata

del palazzo, vetri sporchi nel povero

sole, e povere foglie nella stanza povera.

 

 

 

A Sylvia (aprile)

 

Echi privati leggeri

di un piano d’aprile, la mia posa

leggibile da passanti estranei

un tono suicida, mentre il fiume scorreva

lungo il muro di un manifesto

strappato, forse di una star del porno.

O nella piazza,

per prendere un the ancora

in quel bar dei miei primissimi quaderni,

per sentirsi forse soffocare

quella mattina che si congelava nel bar,

come vendicativa ananas, sui prezzi alla

cassa, per un nome che non c’era, nella sua piazza

quella piazza di poco distante

alla casa, non in casa

e attraversata da un raduno cattolico.

Uscita dal bus 60, altro

autobus molto tempo dopo l’una

di notte, dopo un cinema “ciao ragazzi”

Ma sveglia nella sua macchina

sveglia dalle sue parole, dalle sue

congetture, tanta lettura del suo distacco

dal romanzo del suo contesto, e il mio contatto

per un’altra possibilità di nuove foto

motivi nuovi, a dei desideri spenti in una sala

sola, quella passeggiata, avvenimento leggero, sveglia

nell’eco dell’ultimo recital, come un campo, un piano

da sollevare nel palco, nel tentativo solo d’illuminazione

Sola col rischio, o progetto di sparizione

di quella stanza, ma sveglia sugli atti puri di Sylvia

dei suoi piccoli gridi, davanti quei piccoli vasi di fiori.

 

Prologo di vetro al concerto, preambolo

un cappotto nero, un fiore, un passo più veloce

privato certo, ma anche pubblico pubblica mormorazione

all’infinito dell’amoroso pianeta dell’erba

di grazia tagliente, o al peccato di un istante

che non si può più recuperare

in quell’istante.

Eventuale groviglio nell’universo,

la mia coscenza di un mondo degli altri

che amavo, avevo amato nell’universo la mia vita

globale.

 

Da quel muro strappato, davanti

a quell’abito funebre, povera pubblicità

del povero latte versato, o puro grafema

per un posto uguale, per una posizione uguale di partenza

e nell’etichetta di matite temperate per telefono

o al nome buio, per la buca delle lettere.

Dei colpi di forbice verso lo specchio d’ingrandimento

verso lo specchio d’ingrandimento al rallentatore,

come ciocche di cotone, sul bombardamento al senso

ma nel senso di un tempo immaginario.

O per l’immaginario pavimento

dipinto, meraviglia e panico di quel pennello

per un occhio vegetale, come nella sproporzione di un deserto

E nella risonanza tesa, femminea, augurabile,

ma che sosta solo nell’emisfero dell’atemporale

voce eterica che non restaura, mantiene in vita

Femminilità, è possibile che in questo caso

la questione era letta solo dalle posizioni dei

tergicristalli, certo.




Rossella Or


*

 

Bisognava circondare il mondo, prima che scoppi

Apparve nel morire del giorno

 

 

 

E apparve nel morire del giorno

 

E apparve nel morire del giorno

prese possesso del suo labirinto,

posando intorno intervalli di residenza

facendo periodo, la grazia che s’intrometteva

nel lutto, la sera non tanto da dimenticare

delle parole tra i due oceani.

E apparve nel morire del giorno

girando, e diceva hanno perso i sogni di nylon

fumando, mentre fuori la luce variava

con i suoni dei giochi da cortile, mentre

dalle veneziane, s’era posata dono nel silenzio

la sua figura stanca ormai, contro la volta del cielo

E ogni superficie, al limite del pensiero

facendo col tempo un peso, che non si poteva

più sgomberare solo con le mani, per quel giorno

E nel girarsi, la sua figura appena

ancora ritagliata nel buio, forse avrebbe potuto opporsi

ma riscivolava sempre verso lo stesso opposto,

che distillava lo stesso scorrere. L’aria

che lacerava, lo stesso velo di sé.

 

 

 

Elefante marino

 

Diapason dell’idiota,

o forma dei timpani nuovi

la mia vista al largo

dietro la scia,

Dietro le scie, disegnate in cielo,

delle scie lasciate dalle rotte

nella zona muta del ricordo,

fissa in un’acustica mondiale

solo il respiro.

Lo sguardo di una pietra inondata

da sempre, da secoli il mare

che pietrifica, e forma dal vivo

sul morente elefante marino,

che rivoltato, ancora ascolta

un passo femmina improvviso

Sull’urlo muto, morto

Nell’ora media, voltava il tempo rappreso

di un raggio solare, la saliva

che degli altri assaliva la mente,

che degli altri allarmante

e assaliva il pensiero.

 

 

 

Papaveri

 

Insanguinata dai papaveri

costante come un disagio,

la città finta, moveva

solo l’ombra

nell’ambra, e il nulla

dava una parvenza al reale.

Solo la luce guardava il reale,

e una cieca guardata

solo dal nulla.

 

 

*

 

E

delle forme

viventi, delle forme

vuote, delle forme aperte

delle forme morte

 

nel mondo, come per tutte le bocche vuote.

 

 

 

Un resto di sete

 

Di un passo passivo

in libertà scucita sui limiti

e in quel contorno di lacrime che

la stordiva per lo sgretolarsi delle

montagne di fronte un altro compenso

Un resto di sete, questo

sentiero non porta da nessuna parte,

ma da dove vieni

da est, come il mattino,

povera anima non è padrona dei suoi

pensieri, ed è costretta a stare attenta

alle immagini, che solo i resti

del suo cervello formano in essa,

in essa alla fine del gioco

con la sua bambola

per dei lapsus, quel dio remoto dei pericoli

nelle scapole della scrittura,

che sgrida nel viso terso della scrittura

nel nudo solo delle mani

Dal controllato, al lato contro

ho tutto il mio tronco dolente

dal grave al torrido,

alla totalità di un destino contrario

dicevano nel panico di una verità che si allontana,

un bel pallone freddo,

a proposito dei loro permessi, delle loro

intermittenze, o nella mediazione

della coscenza che si oppone al fato,

alla fatalità di un destino contrario alla

rotta del fuoco,

da quando s’è intromessa la falce di luna

bendata dal cielo, ha seppellito senza esitare

un altro ieri.

L’ha seppellito,

nei crampi del pensiero,

o nell’enigma di carne che si consuma

dietro vetri invernali,

come solo una costola violata femminile

che vendicava una parola.

Da quando la ragazza appena annegata

ha cercato ancora per un po’

di dare forma con le labbra ad una parola,

da quando guarda l’acqua del lago laggiù

come scorre un cerchio,

da quando si sfogliava nelle onde sul mondo,

in quei pochi attimi di dio.

 

 

 

Contorni

 

Variazioni nel sistema vascolare

insidia da distrarre, il cerchio

dei fatti non restituisce alla parola,

e pudico qualsiasi sillabato

per oggi incognita, variazioni

mentali che avevamo amato, amammo

nella perdita un assurdo presente,

circondava più vivi e soli, ha rincorso

per portare nel silenzio vero,

la guerra apparsa possibile, verità

confusione che in velo lacerano

una destituzione, isola sillaba.

Sangue in corsa nel riposo,

sogno atterrito, giorno verbale

vero sogno spento, inferno lecito.

Poetica, come femminile si spande

e cela, come l’acqua trasparente delle masse

come incolore, un Enea pilota che cede

incantevole, il tempo per spiegare

sul precedente, linea di demarcazione.

Voce, che sospende sul rumore

una verità, canestro riempie il via di seguito

più fedele, e pur sapendo immobile.

Definizione dello stato di

meraviglia, notte dimenticata come brandello di

sogno, qualcosa scivolato nell’angolo.

Spolvera la timidezza umana

del quotidiano ripetuto tra le dita,

esempio d’altro canto, e muta

si domanda quale indicazione voleva.

Allora nel suo lutto, o spento

raccogliere, entrare silenzioso apparire

dichiarato mente, circondava giovane

nel rischio, la luce miracolo

del resto la realtà filtra sulle

variazioni, cieco paese nel labirinto

intonazioni comode che aggiustano i limiti.

Questi limiti della memoria, campo

colmo, si sussegue una fuga di spiegazioni.

 

 

 

 

 




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