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di
Fabio Mercanti
È curioso vedere una
simpatica bimba di tre anni con in mano uno smartphone. Molto interessante è osservare
come confronta le sue esperienze di vita, conoscenza e apprendimento con una
realtà digitale che lei si trova a gestire in prima persona. Al di là delle
telefonate finte a imitare i più grandi (cosa che sempre i più piccoli hanno
fatto), la bimba guarda delle foto e riconosce persone a lei più o meno
familiari. Ma c’è di più: quando la si lascia “sfogliare” quelle foto su uno
schermo touchscreen lo fa imitando il gesto di chi la guida in quella scoperta,
ma ci mette tutta la sua forza e con una pressione dall’avambraccio all’indice
preme fortemente lungo tutta la base dello schermo, nonostante la si inviti
dolcemente ad ammorbidire la manina. Lei sposta
quei pixel proprio come ha già fatto più volte con un album di foto o come
qualsiasi altri cosa fisica che
doveva essere spostata per lasciare spazio a un’altra.
Prima si nasce e solo
dopo si diventa (tecnologicamente) digitali.
Fin da piccoli i sensi
sono molto importanti per la nostra crescita, il nostro sviluppo e per la
conoscenza della realtà circostante e degli altri. Questa condizione – sia
degli animali che dell’uomo seppur in modo più complesso – è il punto di
partenza dell’ultimo libro di Claudio Risé, psicoterapeuta e docente[i],
dal titolo Guarda, Tocca, Vivi [ii].
Ma anche il suo punto di arrivo poiché proprio con la ri-scoperta consapevole
di questa sua condizione, secondo Risé, l’uomo potrebbe vivere più felicemente
a contatto con la realtà materiale, in un’epoca dove tutto sembra volgere verso
il virtuale.
L’autore tratta molto
ampiamente il tema passando attraverso la letteratura, la filosofia, il cinema
e poi la neurologia, l’anatomia, pratiche terapeutiche che hanno alla base
l’uso dei sensi (ascolto di musica, lavori manuali …), sempre facendo
riferimenti alla nostra società reticolare della comunicazione, ai suoi
prodotti più o meno culturali e a quelle forme identitarie collettive e
individuali come le cybersette, gli emo, gli hikikomori. Il tutto cercando di
far comprendere quanto fenomeni apparentemente distanti e scollegati tra loro
siano in realtà frutto di diverse società che si confrontano con un mondo in
corsa e senza troppo scavare dentro ogni fenomeno, visto anche il prodotto
editoriale accessibile. Non a caso, la copertina è tutt’altro che sobria con gli
imperativi del titolo su sfondo bianco a occupare quasi tutto lo spazio e
scritti in tre caratteri diversi e con altrettanti diversi sfondi e sui quali
si posano farfalle, girasoli e palloni colorati. Ciò a richiamare la
particolare attenzione del testo all’infanzia e all’adolescenza, età della
scoperta, della crescita e della formazione di un individuo che si confronta
con il mondo e con l’altro attraverso i sensi e che modella l’identità di
quello che altrimenti sarebbe solo un corpo vuoto.
Il volume inizia con
l’analisi di uno dei sogni più diffusi tra l’uomo di oggi «quello di trovarsi
in cammino con altre persone e accorgersi improvvisamente che non hanno un vero
volto: il loro viso è coperto da pelle non definita, in cui a malapena si
distinguono le fessure degli occhi e del naso»[iii].
Concetto chiave è la «spersonalizzazione» di un individuo che non è ben
definito, di una persona che non si è formata perché i suoi sensi, i suoi
strumenti di contatto con il mondo, non sono ben sviluppati. E la società di
oggi porta a nuovi tipi di nevrosi, diverse dalle identità duplici o molteplici
che avevano caratterizzato l’uomo dell’800 e del ’900 (Dott. Jekyll e Mr. Hyde, Uno nessuno e centomila …), infatti «le
caratteristiche della società postmoderna quali l’indebolimento del corpo e dei
sensi, la crescente dipendenza dagli altri e dai modelli collettivi, lo
sbiadimento della maggior parte delle esperienze sensoriali a favore del
guardare immagini, informazioni e proposte preconfezionate, l’allontanamento
dal corpo delle esperienze ritenute significative tendono ad accentuare i
processi di omologazione e indebolimento della personalità, mentre il senso di
sé è il più personale di tutti, quello su cui si fonda l’irripetibilità e la
diversità di ogni individuo».[iv]
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Seeper, Senza titolo, 2011
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Le «proposte
preconfezionate» riguardano tutto ciò che concerne il gusto, quindi anche il
cibo – con i fast-food e il cibo industriale che omologano i gusti – e la
stessa attività di fare la spesa, attività sempre meno fisica e tattile (quando
avviene on-line) con ogni cibo sempre più lontano, “nascosto”, per così dire,
dietro la pellicola di plastica, le varie scatole e confezioni. Proposte di
questo tipo possono anche essere prodotti culturali (televisivi, festival …) e
di viaggio, non solo in riferimento ai villaggi vacanze – a loro modo dei
non-luoghi immersi in luoghi e realtà diversissimi – ma anche il diffuso
desiderio di immergersi nella natura, che se veicolato da immagini e campagne
pubblicitarie falsificatrici, è solo la vendita turistica modaiola dello
sguardo sulla natura («con travestimenti elitari» dice Risé) invece che
dell’esperienza di questa, che tra l’altro è sempre più assente anche tra chi
cresce in realtà rurali.
Mentre gli altri sensi
si indeboliscono, la vista è quello che viene più utilizzato, anche se ciò non
significa che sia quello più razionalmente acuto. Ci arrivano infatti più
informazioni e immagini di quante se ne possano comprendere e far proprie con
il risultato che il “navigante” (maggiormente, ma anche chi sta davanti alla
tv) va in continua ricerca di immagini che lo coinvolgano emotivamente sempre
di più (anche di situazioni che se vissute realmente provocherebbero disgusto e
quindi allontanamento). Le nostre esperienze sono per lo più visuali e passano
attraverso strumenti tecnici, dalla tv al Pc e altri schermi. Mediazioni che
possono nascondere inganni o, quantomeno, dietro alla facilitazione
dell’ubiquità (videoconferenza) o del far arrivare se stessi e le proprie
immagini ovunque e in un istante (video chat, ….), c’è pur sempre un’esperienza
relazionale e conoscitiva limitata. « [il tatto] è il senso in grado di
compensare l’astrattezza e l’intellettualismo della vista nella sua relazione
con la realtà e la materia. […] siamo passati da una civiltà tattile, dove il rapporto
diretto con il mondo e i suoi elementi era ancora decisivo, a una civiltà
visiva, nella quale il mondo e anche gli altri non sono più (almeno in gran
parte) sperimentati direttamente, ma visti in modo mediato attraverso schermi
sui quali compaiono e si mostrano».[v]
In un’epoca di increduli san Tommaso si finisce in realtà per credere a tutto
senza avere un riscontro effettivo: per crederci basta cliccarci (e viceversa),
presupposto esistenziale dell’economia digitale.
«Il connettersi non può
sostituirsi al sentire».
L’attività neuronale
umana da sessant’anni a questa parte è stata oggetto di studio non solo di
medici ma anche di esperti della comunicazione e dell’ingegneria dando vita a
un’ampia attività di ricerca che si chiama cibernetica. Oltre all’intento di
creare macchine che si autogovernino, all’interno di questi studi e non solo,
più volte si è notato come la stessa struttura reticolare del web e il modello
di comunicazione sociale nato con internet siano simili alle strutture di
comunicazione tra le parti di un organismo vivente. Questione fondamentale è
che queste strutture artificiali sono comunemente usate per connettere esseri
umani che per entrare in relazione tra loro ricorrono, appunto, a strumenti
tecnologici.
Nonostante i processi
sensoriali vengano spesso descritti come se fossero qualcosa di meccanico («i
processi che intervengono nell’udito sono di tipo meccanico, idraulico ed
elettrochimico»), il libro di Risè non vuole dimostrare come studiando l’uomo
si possano creare macchine a lui sempre più simili e congeniali che gli rendano
la vita migliore, ma piuttosto invitare il lettore alla riscoperta del valore
dei sensi e della conoscenza e del gusto legati a questo tipo di esperienze
tipicamente umane, sottolineando quindi quella distanza tra il processo
conoscitivo umano e quello umanoide o meccanico, perché «nella realtà noi
continuiamo a essere immersi nella materia, e l’allontanarci dai sensi che più
direttamente e profondamente la conoscono non fa altro che renderci la vita più
difficile e meno piacevole».[vi]
Insomma, il relazionarsi troppo precocemente a forme di assenza fisica può
portare a disagi sia nella formazione del senso di sé che nelle opportunità
relazionali dato che «il bambino è tutto un esteso organo di senso, e ciò che
egli percepisce nei primi anni di età ha un riflesso modulante e formativo sul
suo corpo e sul suo cervello»[vii].
Il problema infatti si
pone quando questi incontri non sono diretti ma mediati, come avviene nel web e
nei social network dove ci sono immagini di una persona umana, qualcosa di
piatto senza sensi, cuore, sangue, odore e calore, ma solo dei pixel e delle
espressioni (a volte quasi delle “impostazioni”) che dovranno trovare il
consenso di chi poi ci conoscerà attraverso quelle e attraverso quelle ci
riempirà di significati. In questi tipi di incontro mediati, non si attivano i
neuroni specchio che invece operano «quando guardiamo, o partecipiamo
attraverso altri sensi ed emozioni, a gesti, intenzioni e sentimenti
dell’altro»[viii].
Queste cellule celebrali servono anche a sviluppare empatia «cioè la capacità
di sentire ciò che l’altro prova, si appresta a fare o vorrebbe fare», ma «[…]
essi sono una condizione affinché la relazione si sviluppi, non una premessa di
un rapporto positivo»[ix]
per quanto costituiscano la premessa per la simpatia e l’antipatia, ulteriori
movimenti verso l’altro essere umano che includono la curiosità e l’interesse
per l’altro, l’affermazione del senso di sé, dei propri gusti, bisogni e
interessi.
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Bill Viola, The Messenger, video, 1996
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Le cose cambiano quando
l’altro viene riempito di significato o perché si pone come contenitore vuoto o
perché c’è un sottosviluppo del senso dell’altro. E a questo punto Risé non può
fare a meno di rimandare ad Avatar
(2009) di James Cameron, pellicola epocale non solo per le qualità formali e
per i vari temi di continua attualità che vengono affrontati, ma perché arriva
in un’epoca in cui, dai videogiochi a internet, vengono messi in scena numerosi
avatar di noi stessi che si trovano ad affrontare diverse e particolari
situazioni. Nel film è fondante la ricerca di empatia, nel particolare del
protagonista Jake, invalido ex marine, che “entra” nel corpo di un indigeno
Na’vi, la popolazione primitiva e “naturalmente” iperconnessa che abita sul
pianeta Pandora. «Questo bisogno [di empatia]» dice Risè «diventa
particolarmente forte quando, come accade oggi, il corpo viene svuotato dei
suoi specifici contenuti emotivi e sensoriali e i sensi vengono piegati a
provare solo le residue sensazioni collettivamente proposte e approvate, di
solito funzionali allo stile di vita tecnoscientifico. L’individuo, non più
alimentato dalle percezioni e dalle emozioni fornite dai sensi, prova allora
una situazione di vuoto e di solitudine e desidera essere “riempito”».[x]
Come avviene spesso nella fantascienza per parlare del presente si va verso il
futuro e qui siamo nel 2154. Quando Neytiri, vera abitante di Pandora, dice
all’avatar di Jake «Io ti vedo» vuol dire che finalmente lei lo sente
intimamente ed è in sintonia con lui. Ciò è però possibile solo dopo un
complicato processo di crescita, interazione, comprensione e azione all’interno
della comunità Na’vi, e vuol dire che quello non è più un involucro nel quale è
entrato un uomo. E conseguenza di questo “vedersi” può anche essere l’amore.
Viviamo sempre di più
in rete e sempre di più ci confrontiamo con gli altri attraverso strumenti
tecnologici che hanno il compito di avvicinare l’altro. Finiamo quasi per
esistere più nella rete che nella realtà, tanto che non è insolito incontrare
persone che parlano di persona dei loro rapporti su Facebook piuttosto che
usare il social network per parlare della loro vita quotidiana reale. E sempre
di più ci relazioniamo all’altro come profilo, come bacheca, come post, come
immagine e non come corpo. Incontriamo persone che non vediamo da tanto tempo e
con le quali abbiamo mantenuto solamente contatti virtuali e subito dopo un
timido abbraccio ci invitano a metterci in posa per la foto.
Come detto, un libro
accessibile, non un saggio, ma più che altro un invito ragionato e rivolto ai
lettori, che però offre molti spunti di riflessione anche a chi non si occupa
di psichiatria, neurologia o educazione, ma, perché no, di letteratura. Quali
scelte deve fare un autore che vuole narrare questa umanità? E, ancora una
volta, se vale la struttura tradizionale del romanzo e di quali strumenti deve
munirsi. Quali sono i personaggi di questa società che si va formando? Una
bacheca o i tanti avatar che si possono riempire, possono costituire un
protagonista? O le storie di individui senza volto sono solo roba da romanzi
cyberpunk?
[i] Ha insegnato
polemologia al corso di laurea in Scienze Diplomatiche della Facoltà di Scienze
Politiche dell'Università di Trieste, Sociologia della
comunicazione e dei processi culturali e di comunicazione al corso di laurea in
Scienze della comunicazione alla Facoltà di Scienze dell’Università dell’Insurbia
e docente di Psicologia dell’Educazione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia
dell'Università di Milano.
[ii] Claudio Risé, Guarda, Tocca, Vivi, Milano, Sperling
& Kupfer, 2011, pp. 224, € 16,50.
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