CRONACHE
DELL’ITALIA CHE NON MUORE
I.
Dentro questo
massimo incalzare
di speranze e di paure nate
sotto un cielo screziato di zagare
il tuo mistero, Italia, forsennate
colombe annunciano tra i soliti
venti
la spuma del Tirreno, le toscane
parate
di colori spalmati sugli eventi
e sulle sparse pietà residue.
Nell’ovatta deiettiva del tempo
si sfioccano le agende ambigue
di Piovene, quegli aspri anni
Cinquanta
che misero in fuga l’infanzia mia
continua
tra il mare e i laghi, alla paranza
del vecchissimo nonno con la pipa
le mani asciutte al sole di
levante.
Italia, allora
solo quasi sorta
tra gomme americane e le lambrette
più intima più schietta più sentita
non eri che ruscello e pia pineta
e fischio di merlo tra le canne
cacciatore di piste senza meta.
Ti vestivi di
feste contadine
intrecciavi amen alle balere
e con Pavese giocavi alle silvane
mitologie dei paesi e dei quartieri
i lampioni in piazza e le morose
i piovosi autunni e le guantiere
offerte dalle zie come le rose
i confetti il rosolio la
fisarmonica
le polke le mazurche e le rosse
tovaglie a quadroni. Italia
semplice
giovane e viva attraverso Pasolini
riscoprivi le ceneri di Gramsci
riaprivi gli orizzonti vespertini
chiusi dal nero fumo delle bombe
svelavi il seme antico del dominio.
Cantava Firenze
nell’Arno e Roma
scorreva nel Tevere di alghe molli
e sinuoso vibrava agli ampi ponti
pizzicando chitarre ai colli d’oro
fino al Pincio boscoso e al Celio
il ponentino accarezzava le cupole
e le piazze, si perdeva nelle celie
barocche dei palazzi, alle finestre
popolari, alle osterie domenicali.
L’Italia
risorta celebrava i suoi estri
i suoi aromi di Caffè Greco e
Aragno
i teatri borghesi e le modeste
cucine, “Sogno”, il primo bagno
le conserve di salsa, il matterello
la luce ancora a vite e allo
sparagno.
II.
Ora non siamo
più alla speranza
e nel mistero del tempo che ci
tocca
di nuovo è gonfia la vela alla
paranza
solchiamo offesi e attoniti la
rotta
in piena passione e dolci risse
alla linea d’ombra che anche Fofi
segue dopo che ai Sessanta non
s’arrese.
Questo elettronico presente
annulla attese ed esperienze
occhieggia lucido dalla parete
dove sono i miei libri di sempre
il Curtius il Macchia il Mario Praz
il faro di Virginia il suo Sussex
l'Omero di Auerbach i viaggiatori
le nostalgie romantiche Milosz.
Anche oggi le
nuvole hanno le ali
e oggi pure cerchiamo le parvenze
di una qualche lingua
dell’altr’ieri.
Italia bella,
più schietta più vera
risorta pari da una popolare
democrazia occidentale.
Amorosa Italia,
oggi sei pura
come le dolci frittelle di mia
nonna
hai le spalle nel verde pullover
degli studenti anni Settanta:
nulla è cambiato dai tempi di
Piovene
dall’età novella degli amori
pronti?
III.
Oh sì, Italia, certo
sei cambiata
non sei più la vergine giovenca
che trovò Enea al suo fuggir da
Troia!
Sei mobile
testarda partigiana
“indignata” ti dicono, impegnata
ad empir celle galeotte di strana
gente, di carattere mezzana.
E tutto può la pìetas le lacrimae
rerùm, la polvere e l’altare
il perdono dell’attico ed il
crimine
il demolir lo Stato e la spocchia
di rifare alla testa la sua scrina.
IV.
In queste cielo
del Novantatré
screziato di zagare e d’influssi
un posto c'è per la dialettica del
tre
l’opposto il negativo il non tutto
l’irrazionale correre dell’uomo
a nascondersi nella buca dello
struzzo.
V.
L’Italia del
Sessanta, ricordi?
Io giocavo ai trenini e alle corde
tese per un salto e alle vigne
andavo
a cogliere i primi chicchi d’uva
asprigna.
Gli operai sudavano alle bocce
bevevano birra Peroni alla
bottiglia.
Coppi moriva ma
ormai c’era Nencini
gridavamo al bar i nostri applausi.
Fellini rubava la vita coi suoi
intrecci
e dolce la chiamava ma era erosa
da nuove malattie esistenziali
che l’Italia facevano più chiusa.
C’era già il
presagio di fatali
cadute nelle offerte del benessere
nei vani possessi materiali.
Milano ospitava
Rocco e il suo malessere
il rock il Pirelli e anche Torino
diventava città meridionale.
VI.
Oh Italia,
com’era profonda
la tua anima più semplice
i tuoi istinti di donna proletaria.
Avevi un mare
antico di alici
azzurre e di tonni lottatori
barche impeciate e reti complici
che tornavano all’alba nei porti
tra le voci grosse degli uomini
cosparsi di essenze salse e di
sudore.
Rompevano la
sera i fuochi nei camini
e il cuore si saziava di canti
e di storie librate al sole
saraceno.
Eri schietta,
Italia, così vibrante
di colori riaccesi nella luce
delle piccole lanterne parlanti.
Dal vaso muto
sulla tovaglia lisa
uscivano i fiori secchi del mercato
i muri erano coperti dalla muffa
stavano appesi i quadri di zio Aldo
il rosario e una vecchia stampa
di Treviso. Nella cucina al caldo
preparavano i taralli di Sant’Anna
cantavano le prime note di Modugno
infornavano con la lingua su
“volare”.
VII.
Ai vent’anni il
miracolo si spense
alla banca di Milano e a Valle
Giulia.
Cominciarono le lotte e le
esperienze
d’una tragica sequenza di paure.
Gramsci era perduto e morto
Pasolini
più non s’andava al cinema ed al
club
sbocciavano gli amori e le pistole
poco prima del Settantasette.
Gli inverni erano lunghe parole
strette nell’eskimo e nelle sciarpe
all’incontro dei compagni per le
vie
nei bar della piazza principale.
Come fu inutile
la sociologia
ed ogni ideologia sommersa
nella neve dell’Italia pia!
VIII.
Anch’io me ne
partii per il Nord
in cerca del posto tanto amato.
Eppure erano gli anni miei migliori
con molto Leopardi ed Ungaretti
Thomas S. Eliot e l’Emily di
Amherst
Un po’ di Moravia ed Elio Vittorini
le città della Ginzburg e di
Bassani.
Fuori del Sud mi sentii più Sud
e con Franco diedi una tesi
sul Cristo si è fermato a Eboli di Levi.
Non potemmo più scordare i nostri
archetipi
gli orologi rotti, la distanza dei
tempi.
IX.
Care Franco, il
futuro ha un cuore
antico, impastato al dolce miele
dei croccanti nei tiretti di
Matera.
Ora che il
giallo denso delle ginestre
si attacca maturo alle rocce
della piccola contrada di Marchese
ora che l’estate si fa lenta al
poggio
e riarde le sterpaglie di Lantauro
sicuro è il mio animo dall’odio
e febbre salutare il suo contrario.
Oggi vi amo, anni faticosi
degni di pietà e di veli mortuari.
Lungo le marine
dei miei occhi
vedo le superbe vele di Ulisse
e le genti che salutano benevole
alla nuova terra che risorge.
Oggi vi amo, anni crudelissimi
che venite da una storia senza mete
e sparite nel cosmo di galassie.
Siete come questo cielo triste
venato di candide ovatte
e di lame penetranti di rosso
sorriso tra i monti lontani.
...
X.
A Firenze, a
quest’ora, gli Uffizi
immortali odorano di zagare
e dei pennelli che hanno unto i
suoi supplizi.
Non più morte
ma suono di fanfare
non più fuoco ma acqua di fontana
che rimedio sia per la barbarie.
Zefiro torna e
il bel tempo rimena
dorme il giglio fermo sullo stelo
denso il muro degli anni sotto i
ponti.
Libertà va
cercando ch’è si cara
all’uomo nato a non vivere da bruto
ma per cercar della vita l’erba
rara.
Leonardo e
Michelangelo, tornate!
Quant’è bella giovinezza che si
fugge
e quant’è eterna la gaiezza
dei popoli a cui l’orgoglio rugge
si fa durevole certezza
che il vizio non offende e non
aduggia.
(giugno 1993)
da Succo d’arancia (2010) *
OLTRE OGNI
SENSO DELLA SERA
Nell’armonia vibrante delle
tastiere di V.R.,
cerco un senso anch’io all’intero
mio passato.
Ma questa luce finta della sera
mentre le macchine passano veloci
e la strada ritorna deserta per un
attimo
impone ancora l’attesa
– e chiama l’io ch’eri tu poco
prima
che afferrassi il senso d’altri
giorni,
poco prima che altra pioggia
lavasse
le orme impresse sulla solita
polvere.
Che senso ha il giro di questo mio
sole
che senso ha, mentre mi spalmo
dell’onda vorace
dell’oceano, mi proietto
nell’allucinata
uscita dal mio stesso me
e sono un dio inghiottito
nel centro di questa Verde Musa.
Così m’inluio nello stupore più
alto della melodia
attendo il culmine degli ultimi
brividi in salita.
Laggiù la terra e gli uomini
sembrano visti dalla giostra
un odore meccanico ferreo
che taglia la faccia
un volo intuito di aironi
che s’alzano come giovani aerei
alati tricolori di spume
fino alla coscienza svaporata
alle svanite verità
ai perduti trionfi
alle trombe ora silenziose
ai sopiti residui sensi.
Pace non m’addolora
guerra non m’importa
ormai la sera mi chiude tutti gli
occhi
m’arresta nel sonno il battente
cuore.
(7 dicembre 2004)
* Succo d’arancia raccoglie testi inediti e dispersi.
**
Sergio D’Amaro insegna nei licei e
collabora a varie riviste e al quotidiano “La Gazzetta del
Mezzogiorno”. Ha scritto saggi storico-letterari, libri di poesia, inchieste e
racconti ispirati ai “vinti” del Sud. È autore, con Gigliola De Donato, della
biografia di Carlo Levi Un torinese del
Sud (Baldini Castoldi Dalai 20052). Tra i suoi titoli: Il
ponte di Heidelberg (1990), Beatles (2004),
Terra dei passati destini (2005), Fotografie e altre istantanee (2008), 20th Century Vox (2009), Romanzo meridionale (2010). È promotore
e corresponsabile di due centri studio sulla storia e la letteratura delle
migrazioni, per i quali dirige la rivista “Frontiere”. La sua produzione
poetica, compresa in diverse antologie e in alcune storie letterarie, è stata
analizzata da Michele Dell’Aquila, Raffaele Nigro, Plinio Perilli, Rodolfo Di
Biasio, Cosma Siani, Maurizio Cucchi, Salvatore Ritrovato, Ettore Catalano,
Daniele M. Pegorari.