CHECKPOINT POETRY
SERGIO D’AMARO
 


CRONACHE DELL’ITALIA CHE NON MUORE

 

I.

Dentro questo massimo incalzare

di speranze e di paure nate

sotto un cielo screziato di zagare

 

il tuo mistero, Italia, forsennate

colombe annunciano tra i soliti venti

la spuma del Tirreno, le toscane parate

 

di colori spalmati sugli eventi

e sulle sparse pietà residue.

Nell’ovatta deiettiva del tempo

 

si sfioccano le agende ambigue

di Piovene, quegli aspri anni Cinquanta

che misero in fuga l’infanzia mia continua

 

tra il mare e i laghi, alla paranza

del vecchissimo nonno con la pipa

le mani asciutte al sole di levante.

 

Italia, allora solo quasi sorta

tra gomme americane e le lambrette

più intima più schietta più sentita

 

non eri che ruscello e pia pineta

e fischio di merlo tra le canne

cacciatore di piste senza meta.

 

Ti vestivi di feste contadine

intrecciavi amen alle balere

e con Pavese giocavi alle silvane

 

mitologie dei paesi e dei quartieri

i lampioni in piazza e le morose

i piovosi autunni e le guantiere

 

offerte dalle zie come le rose

i confetti il rosolio la fisarmonica

le polke le mazurche e le rosse

 

tovaglie a quadroni. Italia semplice

giovane e viva attraverso Pasolini

riscoprivi le ceneri di Gramsci

 

riaprivi gli orizzonti vespertini

chiusi dal nero fumo delle bombe

svelavi il seme antico del dominio.

 

Cantava Firenze nell’Arno e Roma

scorreva nel Tevere di alghe molli

e sinuoso vibrava agli ampi ponti

 

pizzicando chitarre ai colli d’oro

fino al Pincio boscoso e al Celio

il ponentino accarezzava le cupole

 

e le piazze, si perdeva nelle celie

barocche dei palazzi, alle finestre

popolari, alle osterie domenicali.

 

L’Italia risorta celebrava i suoi estri

i suoi aromi di Caffè Greco e Aragno

i teatri borghesi e le modeste

 

cucine, “Sogno”, il primo bagno

le conserve di salsa, il matterello

la luce ancora a vite e allo sparagno.

 

 

II.

Ora non siamo più alla speranza

e nel mistero del tempo che ci tocca

di nuovo è gonfia la vela alla paranza

 

solchiamo offesi e attoniti la rotta

in piena passione e dolci risse

alla linea d’ombra che anche Fofi

 

segue dopo che ai Sessanta non s’arrese.

Questo elettronico presente

annulla attese ed esperienze

 

occhieggia lucido dalla parete

dove sono i miei libri di sempre

il Curtius il Macchia il Mario Praz

 

il faro di Virginia il suo Sussex

l'Omero di Auerbach i viaggiatori

le nostalgie romantiche Milosz.

 

Anche oggi le nuvole hanno le ali

e oggi pure cerchiamo le parvenze

di una qualche lingua dell’altr’ieri.

 

Italia bella, più schietta più vera

risorta pari da una popolare

democrazia occidentale.

 

Amorosa Italia, oggi sei pura

come le dolci frittelle di mia nonna

hai le spalle nel verde pullover

 

degli studenti anni Settanta:

nulla è cambiato dai tempi di Piovene

dall’età novella degli amori pronti?

 

 

III.

Oh sì, Italia, certo sei cambiata

non sei più la vergine giovenca

che trovò Enea al suo fuggir da Troia!

 

Sei mobile testarda partigiana

“indignata” ti dicono, impegnata

ad empir celle galeotte di strana

 

gente, di carattere mezzana.

E tutto può la pìetas le lacrimae

rerùm, la polvere e l’altare

 

il perdono dell’attico ed il crimine

il demolir lo Stato e la spocchia

di rifare alla testa la sua scrina.

 

 

IV.

In queste cielo del Novantatré

screziato di zagare e d’influssi

un posto c'è per la dialettica del tre

 

l’opposto il negativo il non tutto

l’irrazionale correre dell’uomo

a nascondersi nella buca dello struzzo.

 

 

V.

L’Italia del Sessanta, ricordi?

Io giocavo ai trenini e alle corde

tese per un salto e alle vigne andavo

 

a cogliere i primi chicchi d’uva asprigna.

Gli operai sudavano alle bocce

bevevano birra Peroni alla bottiglia.

 

Coppi moriva ma ormai c’era Nencini

gridavamo al bar i nostri applausi.

Fellini rubava la vita coi suoi intrecci

 

e dolce la chiamava ma era erosa

da nuove malattie esistenziali

che l’Italia facevano più chiusa.

 

C’era già il presagio di fatali

cadute nelle offerte del benessere

nei vani possessi materiali.

 

Milano ospitava Rocco e il suo malessere

il rock il Pirelli e anche Torino

diventava città meridionale.

 

 

VI.

Oh Italia, com’era profonda

la tua anima più semplice

i tuoi istinti di donna proletaria.

 

Avevi un mare antico di alici

azzurre e di tonni lottatori

barche impeciate e reti complici

 

che tornavano all’alba nei porti

tra le voci grosse degli uomini

cosparsi di essenze salse e di sudore.

 

Rompevano la sera i fuochi nei camini

e il cuore si saziava di canti

e di storie librate al sole saraceno.

 

Eri schietta, Italia, così vibrante

di colori riaccesi nella luce

delle piccole lanterne parlanti.

 

Dal vaso muto sulla tovaglia lisa

uscivano i fiori secchi del mercato

i muri erano coperti dalla muffa

 

stavano appesi i quadri di zio Aldo

il rosario e una vecchia stampa

di Treviso. Nella cucina al caldo

 

preparavano i taralli di Sant’Anna

cantavano le prime note di Modugno

infornavano con la lingua su “volare”.

 

 

VII.

Ai vent’anni il miracolo si spense

alla banca di Milano e a Valle Giulia.

Cominciarono le lotte e le esperienze

 

d’una tragica sequenza di paure.

Gramsci era perduto e morto Pasolini

più non s’andava al cinema ed al club

 

sbocciavano gli amori e le pistole

poco prima del Settantasette.

Gli inverni erano lunghe parole

 

strette nell’eskimo e nelle sciarpe

all’incontro dei compagni per le vie

nei bar della piazza principale.

 

Come fu inutile la sociologia

ed ogni ideologia sommersa

nella neve dell’Italia pia!

 

 

VIII.

Anch’io me ne partii per il Nord

in cerca del posto tanto amato.

Eppure erano gli anni miei migliori

 

con molto Leopardi ed Ungaretti

Thomas S. Eliot e l’Emily di Amherst

Un po’ di Moravia ed Elio Vittorini

 

le città della Ginzburg e di Bassani.

Fuori del Sud mi sentii più Sud

e con Franco diedi una tesi

 

sul Cristo si è fermato a Eboli di Levi.

Non potemmo più scordare i nostri archetipi

gli orologi rotti, la distanza dei tempi.

 

 

IX.

Care Franco, il futuro ha un cuore

antico, impastato al dolce miele

dei croccanti nei tiretti di Matera.

 

Ora che il giallo denso delle ginestre

si attacca maturo alle rocce

della piccola contrada di Marchese

 

ora che l’estate si fa lenta al poggio

e riarde le sterpaglie di Lantauro

sicuro è il mio animo dall’odio

 

e febbre salutare il suo contrario.

Oggi vi amo, anni faticosi

degni di pietà e di veli mortuari.

 

Lungo le marine dei miei occhi

vedo le superbe vele di Ulisse

e le genti che salutano benevole

 

alla nuova terra che risorge.

Oggi vi amo, anni crudelissimi

che venite da una storia senza mete

 

e sparite nel cosmo di galassie.

Siete come questo cielo triste

venato di candide ovatte

 

e di lame penetranti di rosso

sorriso tra i monti lontani.

...

 

 

X.

A Firenze, a quest’ora, gli Uffizi

immortali odorano di zagare

e dei pennelli che hanno unto i suoi supplizi.

 

Non più morte ma suono di fanfare

non più fuoco ma acqua di fontana

che rimedio sia per la barbarie.

 

Zefiro torna e il bel tempo rimena

dorme il giglio fermo sullo stelo

denso il muro degli anni sotto i ponti.

 

Libertà va cercando ch’è si cara

all’uomo nato a non vivere da bruto

ma per cercar della vita l’erba rara.

 

Leonardo e Michelangelo, tornate!

Quant’è bella giovinezza che si fugge

e quant’è eterna la gaiezza

 

dei popoli a cui l’orgoglio rugge

si fa durevole certezza

che il vizio non offende e non aduggia.

 

 

(giugno 1993)

 

 

 

 

da Succo d’arancia (2010) *

 

OLTRE OGNI SENSO DELLA SERA

 

Nell’armonia vibrante delle tastiere di V.R.,

cerco un senso anch’io all’intero mio passato.

Ma questa luce finta della sera

mentre le macchine passano veloci

e la strada ritorna deserta per un attimo

impone ancora l’attesa

– e chiama l’io ch’eri tu poco prima

che afferrassi il senso d’altri giorni,

poco prima che altra pioggia lavasse

le orme impresse sulla solita polvere.

Che senso ha il giro di questo mio sole

che senso ha, mentre mi spalmo dell’onda vorace

dell’oceano, mi proietto nell’allucinata

uscita dal mio stesso me

e sono un dio inghiottito

nel centro di questa Verde Musa.

Così m’inluio nello stupore più alto della melodia

attendo il culmine degli ultimi brividi in salita.

Laggiù la terra e gli uomini

sembrano visti dalla giostra

un odore meccanico ferreo

che taglia la faccia

un volo intuito di aironi

che s’alzano come giovani aerei

alati tricolori di spume

fino alla coscienza svaporata

alle svanite verità

ai perduti trionfi

alle trombe ora silenziose

ai sopiti residui sensi.

Pace non m’addolora

guerra non m’importa

ormai la sera mi chiude tutti gli occhi

m’arresta nel sonno il battente cuore.

 

 

(7 dicembre 2004)

 

* Succo d’arancia raccoglie testi inediti e dispersi.

 

 

 

** Sergio D’Amaro insegna nei licei e collabora a varie riviste e al quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ha scritto saggi storico-letterari, libri di poesia, inchieste e racconti ispirati ai “vinti” del Sud. È autore, con Gigliola De Donato, della biografia di Carlo Levi Un torinese del Sud (Baldini Castoldi Dalai 20052). Tra i suoi titoli: Il ponte di Heidelberg (1990), Beatles (2004), Terra dei passati destini (2005), Fotografie e altre istantanee (2008), 20th Century Vox (2009), Romanzo meridionale (2010). È promotore e corresponsabile di due centri studio sulla storia e la letteratura delle migrazioni, per i quali dirige la rivista “Frontiere”. La sua produzione poetica, compresa in diverse antologie e in alcune storie letterarie, è stata analizzata da Michele Dell’Aquila, Raffaele Nigro, Plinio Perilli, Rodolfo Di Biasio, Cosma Siani, Maurizio Cucchi, Salvatore Ritrovato, Ettore Catalano, Daniele M. Pegorari.

 

 

 

 




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