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di
Ciro Vitiello
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L’ultimo testo poetico di Nadia Cavalera – intellettuale che ogni volta si
spinge nell’incaglio della ricerca per contraddire il grande marasma dell’esistente
– è, già nel titolo (Spoesie), di
forte impatto ideologico, di tenore provocatorio, di spirito urticante. Se
connotare tende massimamente a creare l’inesistente (che è l’aspetto del non
ancora visto), secondo il disegno di filosofi e di linguisti, allora necessita
partire da qui, dal dire le strane sensazioni provocate e il loro influsso per
tutta la estensione della scrittura. Certo, nel nostro lessico esistono lemmi come
“spoetare” e “spoetizzare”: l’uno significando: 1) privare qualcuno della fama
di poeta, 2) comporre versi con molta faciloneria; l’altro: 1) far dileguare il
clima illusorio che avvolge qualcosa, 2) disgustare. Tuttavia il prefisso “s”
ha una più larga gamma di valori, negativi, privativi, peggiorativi, intensivi
(con una ricchezza di sfumature create dalla sensibilità linguistica dello
scrittore ecc. ).
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Per rappresentare il suo mondo poetico in una risoluzione eversiva rispetto al
panorama asfittico di questo momento storico, Nadia Cavalera si conia il
neologismo “spoesie”, a mo’ di denuncia e di sferzante accusa e sarcastica
derisione, perché il suo spirito possa illuminare lo scabro della società e
incentivare il balbettio prenatale nella formula dell’assurdo e del paranoico
(una rivolta contro un sistema che il poeta per deficienza di mezzi non può
disintegrare). Sembra che il lemma “spoesie” abbia a connotare una facoltà
della poesia espoliata dai toni sublimi ed aulici e attinga dalla storia
elementi che elevati a sensi creano una nuova strategia d’urto contro la
banalità culturale e l’inganno politico di un Potere che autoreferenzialmente
manipola e deforma; ma, per fortuna, contro un tale tipo di Potere la coscienza
del poeta – con la sua immane irrisione – si oppone e resiste. Al lirico si
privilegia, così, il prosaico, il ritmo dissacratorio della realtà, della
società, dell’economia, come prova di un dato oggettivo reale che inquina e
dissesta il poco che ancora tiene connessa la collettività.
La Cavalera ha
piena consapevolezza di questa degenerazione di corso, fatto destino, onde con
acume si protende fino alle estreme conseguenze dei valori e delle conduzioni
di un’economia friabile per gestione di
un governo malevolo (in quanto univoco e falsamente liberale). La natura
teorica del suo esercizio poetico è chiaramente espressa in una sorta di auto
da fè, che trovasi a p. 20: “Per essere poeta non basta infilare / paillettes
parole versi lustrini rime brillantine / Ci vuole il macero dentro dello
spiazzamento / l’affondo chiaro lento nell’emozione / la tempest’indigesta
dell’intorno irreale / il rovello pensiero pestello di volerlo mutare”. La condivisione,
tra io e mondo, ma soprattutto tra io e noi, è il fondamento dell’essere,
privilegio di poter guardare al futuro, per passare dalla “personale unica
croce” alla delizia collettiva, trasvolando dal crollo dell’economia alla
risoluzione dell’uomo sociale.
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Il “macero dentro dello spiazzamento” è investito da frammenti della realtà che
mette in moto la scrittura in una produzione aliena e paralitica, fino alla
balbuzie più sfrenata, a dimostrazione che in una società malata la democrazia
è sempre più fragile a causa di un “premier senza pregi”, che è impegnato
esclusivamente a conseguire leggi “ad personam solam”. Sul ritmo di una
automatica cantilena la parola da sola non è capace di formare la
rappresentazione: “Linguami la lengua longa la milonga di fu lulù il tu
ch’arrota la glossa fringuello con mossa
la fossa porta già aperta possa d’un
expertise tris nel mio iò-iò”, ma deve avvalersi della ragione che sa
decodificare gli inganni celati dietro la realtà apparente e toccare la
prepotenza dell’altrui volontà, del premier, che “spinge a varare leggi
vergognose / a sé solo vantaggiose / s’appropria dei servizi pubblici e
radiotelevisivi / per i suoi incentivi recidivi / schiaccia il paese nella
discesa dei salari / nei condoni che nutrono / l’evasione fiscale l’abuso
edilizio”.
Il
grido di avversione si tramuta in monito che investe perfino la massima carica
dello Stato, che “non può ridurre di soli ottocento euro / una spesa di
duecentoquaranta milioni di soldoni /…/ Perché mille persone di personale?”. Il
poeta – in ogni atto, in ogni progetto, in ogni risoluzione – vede incardinato
il principio morale di “egalité” in sintonia con il comune sentire a parametro di un comune
soffrire e gioire.
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Da siffatta tematica sono escluse, chiaramente, emozioni e impressioni, a
vantaggio, secondo uno spirito laico, di una scrittura “fredda” e asseverativa:
scrittura che appare come una tessitura di svariati modelli cognitivi e spia di
sfiducia alla deriva dilagante. Poiché la possibilità di riscatto è irrealizzabile,
alla Cavalera non resta – allora – che
affidarsi all’ipotesi desiderativa, convinta che ciò sia l’unico modo per dare
dignità all’uomo, a quest’essere opaco e avvilito e svuotato: “Brucerei e
smantellerei io la mia casa / mattone dopo mattone sin nelle fondamenta(…) / E
sradicherei strade e ponti della mia città / che casserei anche dal ricordo /
riducendomi lontan’esule in un’umile stanza / se solo potessi ridare l’uomo a
se stesso /…/ se solo potessi vederlo cadere e rialzarsi da solo / saperlo
sicuro nella vita / anche dopo la mia dipartita”. In questa speranza proiettata
sul futuro è da cogliere il desiderio di uscire dal fallo, dalla crisi, della
marcescenza di questa età. E pertanto, dalla rabbia – tramite invettive e
violente deformazioni linguistiche – si approda alla catarsi apocalittica; e
nel superamento dei mostri arroganti (politici, economici, sociali) s’avanza il
rinnovamento della civiltà, quale riconversione dei valori dell’esistenza e
della storia.
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