CUECA GRANDE
(Terremoto in Chile, 27 febbraio,
2010)
Tutta me stessa nella
fiamma gialla
che ti strangola – ay sí –
che ti travolge,
tutta me stessa, tutta la
mia anima
nel Bio-Bio lacrimoso,
nei furenti
campi di Talca
inginocchiata
sulle sue proprie schegge
color luna.
Sulle sue schegge – ay sí – color di luna
sul raccolto dei morti,
fra le dune
ove vibra lo stelo di
Atacama.
Hermano
del clavel, negra
morena,
danzami al tempo di una cueca chora,
danzami al tempo – sí – perché la sera
addormenti le torri di
Santiago,
sbriciolate vertigini nel
suolo
della palta, del cobre, del copihue:
llora-compadre-me
una cueca chora
llora-comadre-me
una cueca triste.
Magallenes, Ictinos, Providencia,
Frutillar luminosa, Puerto Varas,
San Antonio, Chillán,
Santo Domingo,
Prividencia, Coquimbo, La Serena,
Lo Barnechea, Las Condes, Santiguinos
e voi tutti dispersi non
dispersi
de
Antofagasta a la Tierra
del Fuego,
da
Los Vilos e Iquique a Patagonia,
floreros
y pescadores, organilleros,
panaderos,
chinitas, payadores,
ascoltate: oggi invito il
Cile intero
a ballare una cueca fra le onde
e il pianto, e il pisco e il sangue e il vino nero.
Perché il pane del Cile,
perché il pane
il pane – ay sí – ha sobbalzato all’alba
di un mattino d’autunno non-maturo,
ha sussultato – sí – come un infante
nella cesta ancor
tiepida. E già il mondo
ne avvertiva le grida. Calce.
Calce.
Lobito del clavel, lobo marino,
la tua lucida fronte ha sussultato
di scoglio in scoglio, di
carena in prora,
lobito del clavel, lobo de prora.
Pichidangui piangeva, e
il mare, e i passi
di Francesca piangevano,
e i cavalli
sorpresi in viaggio per
Quilimarí
sulla spiaggia deserta, fra
le impronte
dei gabbiani e dei cani e
degli aironi,
e i pellicani avevano
sepolto
nel gozzo d’oro un obolo
d’addio.
E i pellicani, ay si, compadre mío,
trascinavano l’obolo sul
mare.
Mira, huachito, mírame la tierra
come sbalza i sepolcri di
Isla Negra,
e l’alto tumulo di
Montegrande,
óyeme, huacho come scorre il sangue
nella pelle, nel ferro,
nelle unghie,
negli artigli d’acciaio, nella
pietra.
Il morto si sotterra ma
chi vive
si dissotterra da
profonda branda
di calcina e di polvere.
La terra
è un gran puma ferito
sulle zampe.
Al
muerto se le entierra mas el vivo
se
desentierra de profundo catre...
Cántese
Usted un cueca, cante saltando pa’ lao’
Mi
Los Dominicos rico, mi artesanito callao’.
Guarda la lunga lacrima
che dal Mapocho al Bío-Bío
scorre sul fianco degli
indios,
guarda sul Cerro del
Plomo
come il fanciullo si
desta:
l’occhio di lapislazzuli
simile a specchio di
donna
luccica dentro la borsa
del contrafforte ferito,
del contrafforte, ay compadre,
del contrafforte
squassato
dove soltanto le salme
hanno il capo incoronato.
Mis arrieros
de los Andes, mis mancos trabajadores,
guardate il Cile che
piange, guardate los Farellones
simili a un cuore che
batte, simili a un cuore che pare
balzare dentro una blusa dai
sanguinosi bottoni.
Dentro una blusa – ay sí – dentro una blusa,
oggi la terra è una
fanciulla immensa
il cui seno si spezza per
amore,
tutta la terra è una
fanciulla immensa.
Maipu, Pomaire, Cartagena, Talca,
Concepción desolata, La Herradura,
Valparaíso dei miei
sogni, Viña,
da nord a sud da sud a
nord e tu, lunga
insonnolita panamericana,
strada di pecore e di
condor, oggi
corri più rapida del fango,
spezzi
il respiro dei cactus,
delle chiese,
dei pasteleros candidi che quasi
come uomini vuoti, fitti
al suolo,
tendono al vento maniche
di neve
nel viavai trepido delle
corriere.
Puro
Chile,
tu
cielo quebrado
está quebrado, ay si, mi Chile lindo,
la Cordillera uccide, la doncella
che danza rosea ai piedi
del tramonto
oggi uccide i cavalli, e
i sassi e l’oro,
stritola il rame,
sgretola le guance,
la Cordillera affila le
sue zampe
sulla testa dei morti,
lancia al suolo
un charango fiorito nel veleno.
Ay, charanguito, ay mi cantito choro,
salta
pa’ lao’ que tus cuerdas negras
son
cuchillos que matan – ay sí – qué pena.
Oggi il Cile ha la forma
di una salma
impastata di tenebra. La
testa
è il grande vuoto di
Atacama
dove il fiore si stacca
dalle rocce
essiccate e purissime. Le
braccia
divaricate lungo Juan
Fernández,
le gambe sono i ponti di
Valdivia,
il cuore è Concepción, comadre amarga,
i piedi, grandine di
Punta Arenas.
Mi Chilecito, mi Chilito lindo,
mira
la iglesia que
que
se desploma,
el
campanario derrumbado llora
Nuestra
Señora de la Providencia.
Santa Inés, colle ritto
sopra il mare,
verde colonna che si
specchia ancora
nelle ceneri sparse sulle
rocce.
Il piure è gonfio delle tue radici,
l’eucaliptus flagella le
zanzare
e si leva al di sopra dei
tuoi solchi.
Cuéntame Pichidangui, la chiquilla,
Cántame
el nudo de los pescadores,
el
erizo, el carbón, la sopaipilla,
cántame
el muzgo y las embarcaciones.
Oggi il sud è un gran
bosco di coltelli,
l’araucaria si piega su
se stessa
come un gigante che,
colpito al cuore,
s’addormenta nel letto
della furia.
Della furia, ay compadre, della furia,
l’araucaria araucana
immacolata.
Ogni sasso è una culla
sradicata,
ogni sasso è un bambino
senza testa,
dáte
una vuelta, si, dáte una vuelta,
ogni sasso è una culla
sradicata.
Oggi voglio cantare il
mio dolore
come cetra di muschio e
di azucena.
Chi ha sterrato i gerani
e i cani neri
dalle lamiere di
Valparaiso?
Pablo, Armando, Gonzalo
dove siete? Lucilita,
Teresa della Croce
Maria Luisa, fragile abejita,
don Vicente, felice
antipoeta,
Jorge, Enrique, Manuel, Miguel Arteche
Nicanor, e voialtri,
Enrique Lihn
y Pancho Véjar, mio
sopravvissuto
amici vivi, morti, voci,
suoni,
El Niño non è nulla nelle mani
del ciclope che striscia
nella terra
come talpa gigante e
silenziosa.
El Niño con la pioggia
nelle mani
e la raffica lieve sulla
schiena
rimpicciolisce
nell’enorme tana
del ciclope di sangue e
di granito.
Vaparaíso – ay sí – Valparaíso,
girotondo di spigoli
d’ardesia,
la cipolla svanisce nelle
crepe
dei tuoi rossi sepolcri,
negli azzurri
tetti verdi arancioni
gialli, chiusi
sulle vetrine degli almaceneros.
Valparaíso, sí, mi compañero.
Mis arrieros
de los Andes, mis mancos trabajadores,
guardate il Cile che
piange, guardate los Farellones
simili a un cuore che
batte, simili a un cuore che pare
balzare dentro una blusa
di sanguinoso cotone.
Il Maule è stato colpito
come una giovane lepre
mentre correva a interrarsi
in una tana di corpi,
correva, il Maule,
correva
e nessuno lo avvertiva
che il bracconiere del
fango
dietro il sangue lo
attendeva.
Échale no más, compadre,
il Maule è estratto dal
suolo
come un diamante opaco.
Il Maule è un braccio staccato.
Concepción come lanciata
su polveroso cuscino
di carne viva e di mosche
attendeva il suo destino.
E Chillán si disfaceva
dietro una cenere nera,
Chillán del grande Poeta,
nel gran risucchio
strideva.
Concepcioncita, l’anima
si spicca
dai coltelli di rame e
dalle teste.
Lebu, fragile spiaggia,
devastata
da vecchiezza di facce,
da gabbiani
impigliati alla lacrima
dei morti,
vola, Lebu serena, vola
vola
oltre l’arida costa
dilaniata,
vola al nido di terra che
nel cielo
sprofondando ti aspetta. Vola.
Vola.
Dichado bella, Francisco
ti ha smarrito verso sera
mentre coglieva uno stelo
de manzanilla
carnosa.
Da Tongoi a La Serena la Herradura
vibra sotto lo zoccolo,
dispera
come un bimbo commosso,
gli occhi sono
stropicciati nel fondo
della terra
come in un gigantesco
fazzoletto
inzuppato di tenebre.
Lo strapiombo e Tongoi
seguono piano
il viavai degli
scheletri. Nel porto
un pellicano esplode
sulla squama
di un gran pesce
turchino. Più in là – dice il maestro –
si trovarono i corpi di
due amanti
attaccati alla sbarra
della lunga
folgore buia della riva.
Forse
morti di nuovo, ora, per
sempre,
sotto il cupo rondò di La Herradura:
lei si divincola sul
sasso, geme
sulla bocca di lui, cerca
d’alzarsi
ma la terra la tiene, la
divora.
(Lucila piange sotto
Montegrande.)
Tómese un piure, casera, tómese un piure,
e in un sol tratto
inghiotti tutto il mare.
Ecco il porto selvaggio
di Los Vilos
svolazzare sul vino e sui
graticci
annebbiati di lacrime.
Una bimba
si accovaccia per terra,
tende il braccio
verso il muso di un cane
senza fiato
che si sdraia nell’acqua,
che si muove
come fosse impiccato a un
galleggiante.
La bambina che all’ombra
alle zampe
si genuflette lentamente,
grande
piccola azzurra rossa
tenue-
mente azzurrognola, verde
turchina,
– dále de espuelas si dále de
espuelas –
la bambina cilena – ay si huachito –
la bambina cilena,
la bambina.
Vámonos
a Puerto Montt, compadre mío,
a guardare le barche
trascinate
dall’inquieta risacca, ad
osservare
come sfila nel gelo la
vigogna.
Ay, Frutillar, necropoli felice
di normanni e di spettri,
ay salmoncito
che pescò la Francesca. Ay, barca chiara
dove venne il delfino a
disturbare
il suo sonno di vento.
Era mattino
ma sul mare scendeva
un’insidiosa
piccola sera color grotta,
dura
come un pugno sferrato in
uno specchio.
En un
espejo, en un espejo negro.
Quando sua madre le
sistemò il cappuccio
sui capelli bagnati era
ancor presto
per la terra confitta
dentro il mare.
E il pane e il burro e
l’acqua, e il vino e il cloro
e le cozze giallognole e
il tepore
del curanto sureño, dei fogones
(échale
ya, mi caserita rica)
luccicavano al centro del
colera.
Piango il trauco chilote, uomo mostruoso
che da grandine in bosco
s’inabissa
nei tessuti vermigli
delle donne,
piango il viso, la
chioma, il dorso, piango,
della fresca pincoya trascinata
dal suo nudo di porpora
sul ciglio
di nervosa bufera.
Piango l’isola e il mare,
la palafitta e
l’araucaria immensa,
come coltelli ritti nella
pietra,
giganteschi e immortali,
ora divelti
da tremenda tenaglia di
penombra.
Dále
no ma’, compadre,
échese
un trago rico
de
cerveza morenita, échese una copita
de
Clos de Pirque helao’,
cómase la casuelita
che Santiago sta sorgendo
da luminosa rovina.
Me
fui a una fuente de soda
en el
barrio de Recoleta
pa’
comerme un ave palta
y pa’
tomarme un trago,
y de
repente la mesa
se dió
una vuelta en el piso
pasé
gran susto, mi socio,
llovian
pétalos de creda.
Enrique Volpe, calice di
vino
smisurato ed infranto,
coppa immensa
di sepolcri e di spari. Cavaliere
di cortecce telluriche, uomo
grande
ritagliato nel calibro,
nell’humus:
afírmese
las espuelas
déle
no más, que de golpe
llega
volando el norteño
llega
volando el gigante
che tra i sassi di Atacama
trascorse come un
brigante.
Come un brigante – ay sí –
come un brigante.
Fosco animale da preda,
i tuoi passi nella notte
furono palle di buio
furono globi di morte.
Sul lago di Villarica,
sulle sponde del Llanquihue
un uomo vestito di sbalzi
venne a distendersi muto
nel grembo delle sirene,
venne a dormire sul
ciglio
di una radice affilata,
era l’ora della once
e già il sole si
abbassava
su una chitarra calcarea
su una chitarra scuoiata.
Pucha,
que el sueno se calla,
el
sueno está calladito.
La chitarra non suonava,
e l’uomo rimpicciolito
sgranava dentro la terra
una collana di lava.
E c’era una gran folla di
caseras,
donne che appiccicavano
le mani
sulle perle di fiume di
un rosario.
Le mani simili a uncini
laceravano i messali,
si congiungevano mute
come pagine leccate.
E c’era un uomo di legno,
un bambino impellicciato
nel suo vestito chilote
che faticava su un palo
fitto nel centro dell’erba,
fitto nel verde del
prato.
Del prato verde – ay sí – niño chilote
grandi mani di mugnaio
piccole mani d’acciaio
che fanno andare la ruota
nel vento di Puerto
Varas,
di Puerto Varas – sí – niño Felipe:
il tuo padre
artesanito
riposa sotto un copihue.
Che dice la sirena della
chiesa
inondata dal mare, che
racconta
la sirena cresciuta fra
le alghe
di Pichidangui la smarrita.
Cosa
narra ai bambini dalle
rocce grandi
impennacchiata nel suo scialle
verde,
dove batte il suo sangue,
la sua coda?
come un cupo prodigio tra
le onde,
come una salma, come una
bandiera
galleggiante sui flutti,
come un grande
oboe di iodio inciso nel salnitro.
Ah, i poeti l’ascoltano,
i poeti
con le mani di cenere, i
poeti
e i fanciulli
l’ascoltano, la scorgono
luccicare nel nulla: loro
– l’oro –
i bendati da Dio, i non
mai cresciuti,
caprifoglio del cielo e
della terra.
Arriba,
arriba, compadre,
arriba
mi porteñita,
Valaparaíso
suave,
mi
bella Valparaíso
se
derrumbó una mañana
con
sus muertos y sus pescadas:
el
mar grueso retumbaba
la
mar azul la abrazaba,
pero
ella ya resurgía
desde
el pique de los cerros
y
quieta se deslizaba
hacia
el sepulcro del cielo...
Arriba,
arriba, compadres,
porteños
de mi consuelo.
Cile spezzato, Cile
stritolato
Cile frustato sul cuore,
dolce Cile addormentato
sulle più aguzze croci
sgorgate al sole
dell’alba
dal sasso cordillerano,
Cile che piangi che gemi
come un cane abbandonato.
Chi ti ha posato la testa
su un gran cuscino di
grida,
chi ti ha composto nel
vuoto
chi ti ha spezzato la
vita?
Il condor aveva ali
di grattacieli e di peluquerías,
aveva grandi ali di
catrame,
ali di raffiche, di
sabbia grigia
e di terra dei morti. Il
condor nero
incollato a uno zero di
cemento
galleggiava sul prisma
della luna,
trasvolava il pacifico,
il Mapocho,
il Biógrafo, il Lancelot,
il Tavelli,
annebbiava la Ahumada, l’Alameda,
allacciava Santiago al
fiore scuro
della vertigine e del
balzo, ai muri
della Moneda grigia, crivellata.
Il condor aveva un piede
in Recoleta
e l’altro ai margini di
Quilicura,
aveva il becco chino su
Las Condes,
e la zampa sinistra su La Reina.
Come un buio pennino di
lamiera,
trascriveva nel cielo e
fra le nubi
una frase sfinita, una
preghiera,
balbettata sui massi una
feroce
litania d’invettive tramortite.
Il condor che ruotava sul
colera
sulla-lebbra-sul tifo,
che sembrava
un dottore tremendo, un
ciarlatano,
un mago immenso, un
guaritore, un frate,
un chirurgo dei poveri,
un barbiere,
il condor che lanciava le
sue ali
come tiepide frecce di
necrosi,
sradicava le mummie,
lacerava
le iscrizioni di pietra,
e giù, fra i laghi
l’iceberg che punge
l’occhio degli scafi,
smisurato fanciullo
bianco sale.
(Quiero
cantarte – sí – como se muere
desde
la Costanera
a Tobalaba,
en la Quinta Normal, en Alameda
en Macul,
en Alcántara, en Lo Prado,
quiero
cantarte – ay sí – como en la noche
sueño
contigo, mi Santiago vieja,
sueño
siempre contigo, mi Santiago).
Un huaso enorme cavalcò nel buio,
un huasito di tenebra e di sassi
strisciò sotto la polvere
vibrando
– huacho-huachito-ay sí – caracollando
tra i guanacos e le alpacas, un huaso grande
come l’estremità
cordillerana
che si bagna nel mare e
nelle stelle,
che si tuffa nel vuoto
delle palme,
delle palme – manquito – delle palme.
E il gran condor lo vide,
il condor-condor
del grido quechua, dei conquistatori
degli schiavi dei negri
dei mapuche
dei vivi e i morti, degli adelantados,
dei fucilati – sí – dei misioneros
delle madri araucane dei
pastori
dei mineros degli indios
degli arrieros
dei peluqueros, degli affossatori,
il gran condor lo
vide-vide-vide-
vide prima il cavallo,
poi la espuela
(lo sperone d’azoto e di
metano)
poi i calzoni di sangue,
poi la mano
impigliata alle redini,
poi il viso
ritagliato nel fango e
nella lava,
vide il vulcano, vide il
passo cupo
– vió los lagos cumbreños,
dále amigo –
che falciava le sponde del Llanquihue,
vide la notte del Santa
Lucia
la selva opaca, la
fosforescenza
l’acquasantiera, il Cerro
San Cristóbal
la madonna del buio,
lunga, gialla
fra i semafori e il rombo
dei motori.
E il corpo intero vide, e
il gran jinete
sbriciolarsi nel palmo
della mano
di un gran dio di
vertigini e di sete.
Vide il cielo brumoso di
Santiago
oscillare terribile, e le
chiese
dondolare implacabili,
altalene
allacciate a una fune di
radici.
Si te va’ pa’ Macul, mi curantera,
coge
en tu delantal la luna-luna
la luna-luna-ay sí – luna-lunera
coge
en tu delantal toda Santiago
y la
tierra de Chile, la gaviota
larga
como una cuerda funeraria
mas
que se quebra – sí – mas que se quebra
que
se quebra – ay mi negra-negra-negra –
que
se quebranta al pies de la araucaria.
Marzo 2010
* Cristina Sparagana è nata a Roma, il 1 novembre 1957.
Laureata in lettere moderne all’Università di Losanna, è stata traduttrice di
testi teatrali per la
Radio Svizzera Italiana e di romanzi per l’Editore Rizzoli.
Nel 1990 si è trasferita in Cile dove ha lavorato come
funzionaria presso l’Istituto Italiano di Cultura di Santiago, e docente di
letteratura italiana all’Università Cattolica di Valparaiso. In questo periodo
ha fondato e diretto la rivista “Appunti Italo-cileni”e ha pubblicato il saggio
“Tre poeti italiani: Bertolucci, Gatto, Penna”, (Istituto Italiano di Cultura).
Tornata a Roma nel 2000, ha
vinto il Premio Montale Inediti nel 2001, cui ha fatto seguito il Premio George
Byron nel 2003, e ha cominciato a collaborare con la rivista “Poesia” di Nicola
Crocetti per la quale ha realizzato traduzioni di numerosi poeti cileni e
latinoamericani, fra cui Gonzalo Rojas, Armando Uribe, Oscar Hahn, e Vicente
Garcia Huidobro. Nella primavera del 2006 è uscito presso le Edizioni del
Giano, il suo libro di versi Il demone
gentile, con prefazione di Plinio Perilli. Sue poesie e traduzioni sono
state incluse nelle riviste cilene “Pluma y Pincel” e “Caballo de fuego” e
nelle italiane “Polimnia” di Dante Maffia, “La Mosca di Milano” di Gabriela Fantato, “Poesia” di
Nicola Crocetti, “Poeti e Poesia” di Elio Pecora, “Testo a fronte”di Franco
Buffoni. È uscito da poco un suo saggio con traduzioni su Gabriela Mistral nel
volume Con la tua voce, edito da “La
vita felice”.