LETTURE
SARA DAVIDOVICS
      

Corrente

 

Zona Editrice, Arezzo, 2006, pp. 66, € 10.00

 

D’acque

 

Ed. Fondazione Cassa di risparmio di Modena,

a cura di N. Balestrini e E. Mazzoli;

Premio Antonio Delfini, Modena, 2007

 

    

      


 

di Domenico Donatone

 

 

Il corpo: emblema della poetica post-distruzione

 

 

La poesia di Sara Davidovics, poetessa romana (classe 1981), è una poesia che mostra subito uno stile inconfondibile, e lo è già, se si legge attentamente quello che hanno scritto Mastropasqua[1] e Scaramuccia[2] a commento della sua opera poetica e videopoetica. Una poesia che sin dai primi versi fa intuire che ci si trova di fronte ad una sostanza poetica nuova, pluriverbale e grafica; dove grafico sta per disegno che la poesia assume sulla pagina attraverso una dislocazione precisa dei versi, secondo una logica quasi inafferrabile, sfuggente e impercettibile. Di fatto, se a lungo letta e studiata, di questa logica poetica impercettibile e sfuggente (sarà vero) ed è vero il contrario. Ogni elemento verbale è al suo posto ed ogni dislocazione sintattica risponde ad un disegno preciso dei tempi che apre ad una visione generazionale dell’arte della parola. Eppure la cifra poetica di base della poesia della Davidovics è in qualche modo, sia pur molto diversa dalla linea proposta da Anna Laura Longo (Plasma, 2004 e Nuove rapide scosse retiniche, 2009), annoverabile a quel genere poetico definito lirico-oggettuale. Quello lirico-oggettuale è un genere, arricchito di uno stile in costante movimento lessicale e verbale, di forte aggettivazione e di continui stacchi tra episodi, diciamo pure così, nei quali un ragionamento esistenziale è avvalorato da referenti materici, di marca decisamente espressionista, in cui si rintraccia una particolare versificazione che investe la sfera oggettuale-materica: una sfera di preciso riferimento ad elementi fisici, chimici e naturali. Sara Davidovics è giovanissima e piena d’iniziative poetico-artistiche, molto devota ad una forma d’arte ormai sempre più evidente nel panorama contemporaneo delle espressioni visive come la video-poesia, in cui si annulla il testo a favore dell’immagine, che lo riproduce attraverso il flusso scenico e attraverso un corpus actor o corpora verbum costituito dal poeta stesso, il quale recita quello che scrive ma è ciò che lo circonda, la scena paesaggistica o artificiale, a volte psichedelica, a dare sostanza vera ai suoi versi. A prescindere da quelle che sono le personali sperimentazioni e le ricerche video poetiche, unite a performance teatrali, tra le quali si ricorda l’ensemble Duale della poetessa con Lorenzo Durante, è sul fronte della poesia che la Davidovics dà vita ad uno scenario poetico, - perché di scenario si tratta, di una precisa ed esatta visione dell’oggi e del contemporaneo così come ci viene incontro, - tale da influenzare vicine e attigue prospettive poetiche del millennio da poco iniziato. Un genere di poesia in cui il soggetto, inteso come attore-poeta, recita una parte in cui la scansione verbo-sintattica e lirico-semantica avviene attraverso una continua edificazione di una materia poetica di riferimento che pone le sue basi specifiche nel concetto di “corpo”. “Corpo” inteso come forma ben determinata a cui il poeta dà un particolare significato e valore, che può essere sia di natura umana, quindi corpo inteso proprio come corpo umano, o più genericamente, anche se la scomposizione lirica-oggettuale è assolutamente investita da una pratica scrittoria ben precisa, è di natura materica e prettamente fisica. Un corpo dei corpi è quello che si delinea. Qualcosa in cui confluisce, partendo da una base materica, un nuovo e originale processo di assimilazione psico-cognitivo del corpo umano come tramite di nuove esperienze di commistione oggettuale e liriche. Un percorso poetico, quello avviato dalla Davidovics, che è di pseudomorfosi (in opere che portano il titolo di Corrente  e D’acque). Il presupposto che spinge ad annoverare la poesia della Davidovics a questo genere lirico-oggettuale, fatto di un canto della materia intesa come corpo, come referente unico del reale più immediato che è appunto costituito da cose, da oggetti, da enti materici, fisici e anatomici, è quello secondo cui morto Dio, ovvero eliminato il trascendente, nella logica nietzschiana, eliminato il mistero, l’inafferrabile o anche l’effimero, al di là di una nozione specifica di religione, l’unico vero Dio che rimane accanto all’uomo è il Dio che è dentro il suo corpo, non come presenza o essenza dell’Essere, bensì come struttura materica dell’Essere stesso: un Dio che è fatto solo di materia, di carne e sangue, e non di spirito. Un ribaltamento fenomenologico assoluto che i poeti come la Davidovics hanno assunto come metro essenziale per scandire il passo di una fede assolutamente materialistica. Sara Davidovics fa leva sul corpo. Il corpo è la sua poesia. Il corpo è lo spazio reale dentro cui scavare, dentro cui trovare nuove verità trascendenti. Ci troviamo di fronte ad una mistica oggettuale, qualcosa che ha la forma di una religione laica molto più forte di una religione ecumenica e spirituale. In questo senso la poetessa stabilisce che dentro ognuno di noi c’è un dio diverso, perché ognuno dei soggetti agenti è dotato di un corpo diverso. Dentro quel corpo differente c’è un dio differente. L’assunzione, però, ad una religiosità oggettuale sta nel concetto stesso di corpo che, benché differisca nei suoi segni e particolari, non differisce nei suoi componenti, nei suoi elementi strategici di azione e di sentimento. Per cui Sara Davidovics canta una diversità all’interno di un concetto ben preciso che è quello del particolare universale: una dimensione pragmatica-filosofica, materica-allusiva della sua poesia che s’inserisce nel vivo delle logiche contemporanee. Una poesia che s’intromette con spiccata forza verbale e cognitiva dentro il panorama della realtà del millennio coniato sotto il segno della distruzione delle Torri Gemelle a New York. Può sembrare strano a chiunque, come ad Ottonieri, a Scaramuccia e Mastropasqua, che pure hanno delineato un quadro semantico di riferimento della poesia di Sara Davidovics con molta efficacia, che il senso di quello che in poesia in questi anni stiamo leggendo sia vincolato ad una logica di post-distruzione; e sembra assurdo che nei poeti d’oggi, molto più vicini al sottoscritto che a questi critici, alcuni docenti universitari, sia lontana una visione del genere. Viceversa, pur non sapendo quanto distante sia questa loro visione A.D. (ante destruction) dalla verità, in questo procedimento epistemologico, credo altrettanto valida la posizione di chi avverte, nell’affanno continuo di delineare una valenza semantica quasi inafferrabile in molti poeti contemporanei, tra cui anche la Davidovics, – e per accorgersene basta leggere quello che Tommaso Ottonieri scrive in prefazione al testo «Corrente» della nostra poetessa, riferendosi a concetti del tipo “spazio aperto dallo sformarsi di così aspra, e istallativa, descrittura”, oppure a un “manifestarsi ecografico”, senza che ci sia un puro riferimento ad una verità storica così recente da non potersi non vedere – una distanza abissale, diventata squisitamente generazionale, da una posizione di veduta che è legata molto semplicemente ad un dislocamento sistematico delle forme senza astrusi impianti cognitivi di retroscena. La questione per me è molto più semplice di quanto non appaia, e lo affermo con un linguaggio critico che non può diventare più complicato della poesia che andiamo a leggere, altrimenti si fa un gioco che non serve a nessuno. I poeti, come Sara Davidovics, sono coloro che, a mio avviso, di più hanno assimilato la lezione della distruzione dell’11 settembre, il senso della caduta che perdura, muovendo all’interno della loro economia verbale una costante psammografia, ovvero uno studio attento delle sabbie, della terra e dei suoi elementi biologici, che qui diventa corpografia (il corpo come unico dio esistente!), quindi uno studio attento del e dentro il corpo. Ed è solo ed esclusivamente del corpo, come materia razionale ed emotiva, che la Davidovics fa del suo sistema poetico un sistema verbo-grafico. Nella sua pagina compare una scomposizione che è composizione post-distruzione, un qualcosa che dopo la deflagrazione, dopo l’esplosione e il collassamento delle strutture portanti la società capitalistica, globalizzata e massmediatica, si è così ridisegnato sulla pagina, ovvero in pezzi brevi di sintassi e di lessico, in cui un solo verbo o una sola parola guidano il lettore all’interno di questa geografia del sentimento-corpo che rappresenta il nuovo assetto del mondo nel suo senso e significato, forse, più stabile. Per cui bene l’elencazione che fa Ottonieri della materia che la Davidovics annovera nella sua poesia (metallo, cristallo, lama, plastica, ecc;) e gli aspetti materiografici della stessa (cavità, rotondità, piattezza, ecc;), ma non vorrei che così facendo si andasse verso una pletora critica senza la cognizione di una causa minima scatenante il tutto. Causa storica più che estetica o profetica. Faccio leva su questo perché mi fido della mia vicinanza generazionale che, in questo caso, nel caso della Davidovics, è intra-generazionale, è appartenenza alla stessa generazione. E la generazione di oggi non può non sentire un vuoto abissale che in qualche modo si riempie di materia, di oggetti-funzione, di cose che predispongono alla nascita di una nuova azione. Oggetti ed elementi del corpo, come bene li mette in scena la Davidovics nella sua integerrima affermazione di una corrente – dove “corrente” è anche il titolo omonimo della sua prima raccolta di poesia pubblicata per i tipi Zona editore, nel 2006 –, che stanno ad indicare l’ormai naturale flusso energetico degli stessi in un meccanismo che è, però, di totale scomposizione. Il tratto poetico più significativo della Davidovics sta in questa sua costante asserzione, in questa sua costante testimonianza, per mezzo di enunciati brevi, del mutamento della materia corporale in materia simil-corporale, del tutto alogica e analogica, intessuta di elementi ad essa estranei (come cateteri, tovaglie e sacchi di plastica) ai quali il corpo non si dissimula ma totalmente si assimila daccapo per riconciliarsi al nuovo percorso della storia dell’uomo. Vediamo così ergersi una vera e propria logica post-distruzione, un qualcosa di profondamente oggettivo, che non cede spazio più a nessuna forma di sentimento del cuore a cui eravamo abituati e da cui in parte ancora dipendiamo. Un taglio netto, preciso, esatto e quasi geometrico è quello che la poetessa mette in atto nella sua raccolta dal titolo «Corrente», in cui si deduce che il flusso continuo della materia intrinseca al corpo umano stabilisce quelle che sono le logiche del vivere dentro i meandri della caduta delle nazioni e del loro potere politico: «interferenza è un tracciato della pancia»; «l’acquedotto è la materia senza laccio»; «il sostegno è una banda al neon»; «il riposo è un moto rotolato»; «l’umore è un peso statico»; «la vagina è incavata sul bordo d’alluminio»; «la parete è un fossile slacciato»; «il centro è solo più abituale del lato»; «la femmina è un serbatoio senza interruttore». Sono tutti esempi di questa logica che indica un vivere non più in ipotesi ma in certezza, ovvero con la sicurezza di un movimento mentale e fisico che conduce ad un continuo arrovellamento, ad un continuo flusso di energia che va costantemente intercettato. Sara Davidovics ha la capacità di saper fare della poesia una materia in qualche modo diversa dalla poesia stessa, in un circuito di logica che si dissocia profondamente dal tema scontato della poesia come mera traccia del sentimento – e la cosa è del tutto evidente oltre che apodittica e pleonastica. Qui la poesia diventa un modo di rappresentazione altro, da cui il segnale poetico che emerge è tutto di un linguaggio che veicola una concreta allusione al vissuto attualmente in atto; concetto, questo, che arricchisce l’esistenza di un suo aspetto tangibile e concreto da intendersi come misura di un “universale particolare”. C’è, nei versi di «Corrente» un vero e proprio racconto del corpo in quanto protagonista della realtà. Si assiste ad un crescendo della materia-corpo attraverso una logica emotiva e razionale di cui si possono ben vedere i segnali. Il libro, infatti, è diviso in sottosezioni di questo non improbabile racconto: sottosezioni che portano il titolo di In circolo; Tracciare; Getto; Divisibile 1. Tutti dei capisaldi del racconto che alludono costantemente al senso di una distruzione materica-emotiva e, potremmo dire, fanno vedere quello che di questa nuova postura del corpo non abbiamo ancora colto con viva coscienza.

 

sotto le unghie

 

qualcosa di slacciato;

 

le piccole uova sono troppo numerose;

 

utero di resina         (la femmina è il serbatoio senza interruttore)

 

se resta tesa                                           tra i polsi

 

la corda                    respinge il setaccio

 

più sotto

 

il laccio,                                                      la bolla d’aria

 

 

*

 

il condotto per respirare l’utero                        cartografando

 

 

                                                 (il centro è solo più abituale del lato)

 

in contro piano                                                 tutto è geometrico

 

                                      tutto, staccato

 

*

 

Si evince da questi versi una logica fortemente materica, della materia, del corpo, dislocata in uno spazio temporale che inserisce l’uomo in un ordito perfettamente geometrico. È come se la poetessa desiderasse ormai definitivamente indicare dei nuovi parametri di ragionamento che non hanno più nulla a che vedere con quelli del passato. E cosa significa questo se non una straordinaria accelerazione delle dinamiche stesse del mondo? La poesia diventa lo strumento (impensabile?) su sui far innestare, forse anche in maniera criptica, il senso di una dipartita che per ora sempre di più si espande nell’etere come un codice morse che solo quelli che conoscono quel preciso linguaggio sanno captare e capire. La Davidovics è una di questi. Sa leggere i segnali del moderno, del contemporaneo, sa leggere tra le righe della storia e intenderla non più come spazio che banalmente tende ad allargare il concetto e la prospettiva della novità, del nuovo, di un futuro che sarà nostro avvenire come il passato, ma solo più comodo. Il futuro che vede la Davidovics non è un futuro che si vede in poltrona da casa, ma è un futuro che sconvolge il corpo, che si vive in strada; è un futuro che è già presente e che va a minare la coscienza corporale, organica dell’individuo; è un futuro che ci penetra e ci devasta.

 

Il materasso ingoia                                nella sua placenta;

 

                                                 scoria di grasso

 

trapunta                                                nella piega dell’inguine,

 

              endoscopia della cannula

                                                 per un intestino senza colite.

 

L’orlo disfatto                                       tutto intorno al polso

 

*

 

Seguendo questa logica si può considerare naturale un passaggio che ha portato, certamente non per questo merito, bensì per meriti decisamente poetici, metrico-sintattici e lessicali, la poetessa a vincere il Premio Delfini (IV edizione, Modena, 2007). Perché dico questo? Perché se è vero che c’è stata una poesia come fine del mondo, ed era espressamente quella di Antonio Delfini, c’è oggi una poesia che vede quella fine del mondo. Una poesia che ha vissuto il senso primo della catastrofe dell’11 settembre come perno o, forse, premio, secondo la logica di Karlheinz Stockahusen, per non aver realizzato più opere d’arte degne di questo nome. Un premio punitivo, perché fu Stockahusen che disse – suscitando scandalo e indignazione – che l’attentato del World Trade Center poteva essere considerato a tutti gli effetti un’opera d’arte. Se quell’attentato, al di là delle ragioni politiche ed economiche, al di là delle rivendicazioni o di un mitridatismo, è l’immagine assunta come proseguo di una realtà impensabile, perché quelle scene in qualche modo andavano oltre una realtà pensabile, quindi hanno sfondato gli schermi e sono andate oltre una logica di riferimento, è altrettanto vero che quelle stesse sono diventate una manna per narratori e poeti che hanno sentito il richiamo a qualcosa che non poteva rimanere lì senza che qualcuno lo assumesse a codice denotativo di un sistema contemporaneo. La logica della caduta e della distruzione. Così il corpo, che per primo ha patito quella tragedia, il corpo di un cittadino americano e del mondo che è comunque estraneo dai sistemi del potere, adesso viene riassunto dalla Davidovics per incominciare a determinare una piena assunzione della storia come parabola del decesso e della frantumazione, del dislocamento, della dissociazione. Il corpo: emblema della poetica post-distruzione! Nell’ultima raccolta poetica dal titolo «D’acque», vincitrice del Premio Delfini, (edizione della Cassa di risparmio di Modena in un numero limitato di copie), il procedimento di pseudomorfosi adottato dalla poetessa continua ad infittirsi e ad innescare un vero e proprio meccanismo di sistema di versificazione che non è più sperimentale, bensì naturale proseguo della storia umana fatta di scomposizione e di smembramento. Il suono – come scrive la Davidovics – è qualcosa di rotto[3]. Attraverso le illustrazioni grafiche di Pietro Ruffo, che ha arricchito la raccolta di disegni, si evince che la storia attuale è storia archeologica, che deriva espressamente da una diretta riesumazione di qualcosa che non c’è più ma che continua a vivere come sottomultiplo di una richiesta di sopravvivenza. È la logica dei fossili e dei ruderi: gridare la sopravvivenza, far sapere che ancora si esiste. Questo meccanismo illustrativo protozoico e archeologico delle poesie della Davidovics indica chiaramente nella nozione di “acqua” il possibile, anzi, unico elemento da cui ripartire per garantire la vita. Basta aprire il libro, sfogliare le pagine e la verità salta agli occhi. Si delinea una nuova anatomia del corpo e una nuova geografia della natura («non v’è causa per i liquidi»; «la consumazione è più lenta nel fango», «la stenditura dei mestrui», «la bocca è una ferita»;): se è vero che il mondo sta cambiando lo scopriamo attraverso la poesia lirico-oggettuale e plurisemica di poetesse come Sara Davidovics, Anna Laura Longo, Laura Pugno e pochi altri. Il senso genitivo, di appartenenza, che la poetessa ha voluto dare a questa sua seconda raccolta, D’acque, diventa espressione concreta di una eterogenesi del corpo, di cui la materia fisica è più di sé stessa, è materia in progress, in senso sia evolutivo che de-evolutivo.

 

 

la bocca è una ferita                           scavata nella parete

 

 

 

            il rumore resta sotto                un groviglio di materia

 

 

                                                                                  di colla

 

 

 

 

 

la carne si solleva                               dal lavatoio

ghiandolare

 

 

 

piega piatta, sul fondo:

 

*

 

 

cava dalle unghie un rivolo giallo                              graffiato

                                   palato scarnificato a placche rosa

 

 

 

la fenditura

 

            più larga dei grani                                           è senza crescita

 

                                                           la perforazione della cintola:

 

 

            tenuta in basso                                    dagli aghi

 

                                               vagina di cartilagine

 

                                   foro della nervatura,

 

 

 

 

                                                           la stenditura dei mestrui:[i]

 

*



[1] Vedi Aldo Mastropasqua, “D/ittico” di Sara Davidovics, un testo in bilico tra voce e immagine.
(su Avanguardia, n. 38, 2008).       

[2] Vedi Federico Scaramuccia, TRANSILE (su Le Reti di Dedalus [Poetiche], 2007)

 

[3] D’acque, di S. Davidovics, p. 31, ed. Fondazione Cassa di risparmio di Modena, a cura di N. Balestrini e E. Mazzoli; Premio Antonio Delfini, Modena, 2007.

 



[i] Tutte le poesie sono tratte direttamente dalle seguenti opere: «Corrente» (ed. Zona, 2006); «D’acque» (ed. Fondazione Cassa di risparmio di Modena, a cura di N. Balestrini e E. Mazzoli; Premio Antonio Delfini, Modena, 2007.




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