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di Domenico Donatone
Il corpo: emblema della poetica post-distruzione
La
poesia di Sara Davidovics, poetessa romana (classe 1981), è una poesia che mostra
subito uno stile inconfondibile, e lo è già, se si legge attentamente quello
che hanno scritto Mastropasqua e
Scaramuccia
a commento della sua opera poetica e videopoetica. Una poesia che sin dai primi
versi fa intuire che ci si trova di fronte ad una sostanza poetica nuova, pluriverbale
e grafica; dove grafico sta per disegno che la poesia assume sulla pagina
attraverso una dislocazione precisa dei versi, secondo una logica quasi
inafferrabile, sfuggente e impercettibile. Di fatto, se a lungo letta e
studiata, di questa logica poetica impercettibile e sfuggente (sarà vero) ed è
vero il contrario. Ogni elemento verbale è al suo posto ed ogni dislocazione
sintattica risponde ad un disegno preciso dei tempi che apre ad una visione generazionale
dell’arte della parola. Eppure la cifra poetica di base della poesia della
Davidovics è in qualche modo, sia pur molto diversa dalla linea proposta da Anna
Laura Longo (Plasma, 2004 e Nuove rapide scosse retiniche, 2009), annoverabile
a quel genere poetico definito lirico-oggettuale. Quello lirico-oggettuale è un
genere, arricchito di uno stile in costante movimento lessicale e verbale, di
forte aggettivazione e di continui stacchi tra episodi, diciamo pure così, nei
quali un ragionamento esistenziale è avvalorato da referenti materici, di marca
decisamente espressionista, in cui si rintraccia una particolare versificazione
che investe la sfera oggettuale-materica: una sfera di preciso riferimento ad
elementi fisici, chimici e naturali. Sara Davidovics è giovanissima e piena
d’iniziative poetico-artistiche, molto devota ad una forma d’arte ormai sempre
più evidente nel panorama contemporaneo delle espressioni visive come la
video-poesia, in cui si annulla il testo a favore dell’immagine, che lo
riproduce attraverso il flusso scenico e attraverso un corpus actor o corpora verbum
costituito dal poeta stesso, il quale recita quello che scrive ma è ciò che lo
circonda, la scena paesaggistica o artificiale, a volte psichedelica, a dare
sostanza vera ai suoi versi. A prescindere da quelle che sono le personali sperimentazioni
e le ricerche video poetiche, unite a performance teatrali, tra le quali si
ricorda l’ensemble Duale della
poetessa con Lorenzo Durante, è sul fronte della poesia che la Davidovics dà vita ad
uno scenario poetico, - perché di scenario si tratta, di una precisa ed esatta
visione dell’oggi e del contemporaneo così come ci viene incontro, - tale da
influenzare vicine e attigue prospettive poetiche del millennio da poco
iniziato. Un genere di poesia in cui il soggetto, inteso come attore-poeta,
recita una parte in cui la scansione verbo-sintattica e lirico-semantica
avviene attraverso una continua edificazione di una materia poetica di
riferimento che pone le sue basi specifiche nel concetto di “corpo”. “Corpo”
inteso come forma ben determinata a cui il poeta dà un particolare significato
e valore, che può essere sia di natura umana, quindi corpo inteso proprio come
corpo umano, o più genericamente, anche se la scomposizione lirica-oggettuale è
assolutamente investita da una pratica scrittoria ben precisa, è di natura
materica e prettamente fisica. Un corpo dei corpi è quello che si delinea.
Qualcosa in cui confluisce, partendo da una base materica, un nuovo e originale
processo di assimilazione psico-cognitivo del corpo umano come tramite di nuove
esperienze di commistione oggettuale e liriche. Un percorso poetico, quello
avviato dalla Davidovics, che è di pseudomorfosi (in opere che portano il
titolo di Corrente e D’acque).
Il presupposto che spinge ad annoverare la poesia della Davidovics a questo
genere lirico-oggettuale, fatto di un canto della materia intesa come corpo,
come referente unico del reale più immediato che è appunto costituito da cose,
da oggetti, da enti materici, fisici e anatomici, è quello secondo cui morto
Dio, ovvero eliminato il trascendente, nella logica nietzschiana, eliminato il
mistero, l’inafferrabile o anche l’effimero, al di là di una nozione specifica
di religione, l’unico vero Dio che rimane accanto all’uomo è il Dio che è
dentro il suo corpo, non come presenza o essenza dell’Essere, bensì come
struttura materica dell’Essere stesso: un Dio che è fatto solo di materia, di
carne e sangue, e non di spirito. Un ribaltamento fenomenologico assoluto che i
poeti come la Davidovics
hanno assunto come metro essenziale per scandire il passo di una fede assolutamente
materialistica. Sara Davidovics fa leva sul corpo. Il corpo è la sua poesia. Il
corpo è lo spazio reale dentro cui scavare, dentro cui trovare nuove verità
trascendenti. Ci troviamo di fronte ad una mistica oggettuale, qualcosa che ha
la forma di una religione laica molto più forte di una religione ecumenica e
spirituale. In questo senso la poetessa stabilisce che dentro ognuno di noi c’è
un dio diverso, perché ognuno dei soggetti agenti è dotato di un corpo diverso.
Dentro quel corpo differente c’è un dio differente. L’assunzione, però, ad una
religiosità oggettuale sta nel concetto stesso di corpo che, benché differisca
nei suoi segni e particolari, non differisce nei suoi componenti, nei suoi
elementi strategici di azione e di sentimento. Per cui Sara Davidovics canta
una diversità all’interno di un concetto ben preciso che è quello del
particolare universale: una dimensione pragmatica-filosofica, materica-allusiva
della sua poesia che s’inserisce nel vivo delle logiche contemporanee. Una
poesia che s’intromette con spiccata forza verbale e cognitiva dentro il
panorama della realtà del millennio coniato sotto il segno della distruzione
delle Torri Gemelle a New York. Può sembrare strano a chiunque, come ad Ottonieri,
a Scaramuccia e Mastropasqua, che pure hanno delineato un quadro semantico di
riferimento della poesia di Sara Davidovics con molta efficacia, che il senso
di quello che in poesia in questi anni stiamo leggendo sia vincolato ad una logica
di post-distruzione; e sembra assurdo che nei poeti d’oggi, molto più vicini al
sottoscritto che a questi critici, alcuni docenti universitari, sia lontana una
visione del genere. Viceversa, pur non sapendo quanto distante sia questa loro visione
A.D. (ante destruction) dalla verità, in questo procedimento epistemologico,
credo altrettanto valida la posizione di chi avverte, nell’affanno continuo di delineare
una valenza semantica quasi inafferrabile in molti poeti contemporanei, tra cui
anche la Davidovics,
– e per accorgersene basta leggere quello che Tommaso Ottonieri scrive in
prefazione al testo «Corrente» della nostra poetessa, riferendosi a concetti del
tipo “spazio aperto dallo sformarsi di così aspra, e istallativa, descrittura”,
oppure a un “manifestarsi ecografico”, senza che ci sia un puro riferimento ad
una verità storica così recente da non potersi non vedere – una distanza
abissale, diventata squisitamente generazionale, da una posizione di veduta che
è legata molto semplicemente ad un dislocamento sistematico delle forme senza
astrusi impianti cognitivi di retroscena. La questione per me è molto più
semplice di quanto non appaia, e lo affermo con un linguaggio critico che non
può diventare più complicato della poesia che andiamo a leggere, altrimenti si
fa un gioco che non serve a nessuno. I poeti, come Sara Davidovics, sono coloro
che, a mio avviso, di più hanno assimilato la lezione della distruzione dell’11
settembre, il senso della caduta che perdura, muovendo all’interno della loro
economia verbale una costante psammografia, ovvero uno studio attento delle
sabbie, della terra e dei suoi elementi biologici, che qui diventa corpografia (il
corpo come unico dio esistente!), quindi uno studio attento del e dentro il corpo. Ed è solo ed esclusivamente del corpo, come
materia razionale ed emotiva, che la Davidovics fa del suo sistema poetico un sistema
verbo-grafico. Nella sua pagina compare una scomposizione che è composizione
post-distruzione, un qualcosa che dopo la deflagrazione, dopo l’esplosione e il
collassamento delle strutture portanti la società capitalistica, globalizzata e
massmediatica, si è così ridisegnato sulla pagina, ovvero in pezzi brevi di
sintassi e di lessico, in cui un solo verbo o una sola parola guidano il
lettore all’interno di questa geografia del sentimento-corpo che rappresenta il
nuovo assetto del mondo nel suo senso e significato, forse, più stabile. Per
cui bene l’elencazione che fa Ottonieri della materia che la Davidovics annovera
nella sua poesia (metallo, cristallo, lama, plastica, ecc;) e gli aspetti
materiografici della stessa (cavità, rotondità, piattezza, ecc;), ma non vorrei
che così facendo si andasse verso una pletora critica senza la cognizione di
una causa minima scatenante il tutto. Causa storica più che estetica o
profetica. Faccio leva su questo perché mi fido della mia vicinanza
generazionale che, in questo caso, nel caso della Davidovics, è
intra-generazionale, è appartenenza alla stessa generazione. E la generazione
di oggi non può non sentire un vuoto abissale che in qualche modo si riempie di
materia, di oggetti-funzione, di cose che predispongono alla nascita di una nuova
azione. Oggetti ed elementi del corpo, come bene li mette in scena la Davidovics nella sua
integerrima affermazione di una corrente – dove “corrente” è anche il titolo
omonimo della sua prima raccolta di poesia pubblicata per i tipi Zona editore,
nel 2006 –, che stanno ad indicare l’ormai naturale flusso energetico degli
stessi in un meccanismo che è, però, di totale scomposizione. Il tratto poetico
più significativo della Davidovics sta in questa sua costante asserzione, in
questa sua costante testimonianza, per mezzo di enunciati brevi, del mutamento
della materia corporale in materia simil-corporale, del tutto alogica e
analogica, intessuta di elementi ad essa estranei (come cateteri, tovaglie e
sacchi di plastica) ai quali il corpo non si dissimula ma totalmente si assimila
daccapo per riconciliarsi al nuovo percorso della storia dell’uomo. Vediamo
così ergersi una vera e propria logica post-distruzione, un qualcosa di
profondamente oggettivo, che non cede spazio più a nessuna forma di sentimento
del cuore a cui eravamo abituati e da cui in parte ancora dipendiamo. Un taglio
netto, preciso, esatto e quasi geometrico è quello che la poetessa mette in
atto nella sua raccolta dal titolo «Corrente», in cui si deduce che il flusso
continuo della materia intrinseca al corpo umano stabilisce quelle che sono le
logiche del vivere dentro i meandri della caduta delle nazioni e del loro
potere politico: «interferenza è un tracciato della pancia»; «l’acquedotto è la
materia senza laccio»; «il sostegno è una banda al neon»; «il riposo è un moto
rotolato»; «l’umore è un peso statico»; «la vagina è incavata sul bordo
d’alluminio»; «la parete è un fossile slacciato»; «il centro è solo più
abituale del lato»; «la femmina è un serbatoio senza interruttore». Sono tutti
esempi di questa logica che indica un vivere non più in ipotesi ma in certezza,
ovvero con la sicurezza di un movimento mentale e fisico che conduce ad un
continuo arrovellamento, ad un continuo flusso di energia che va costantemente
intercettato. Sara Davidovics ha la capacità di saper fare della poesia una
materia in qualche modo diversa dalla poesia stessa, in un circuito di logica
che si dissocia profondamente dal tema scontato della poesia come mera traccia
del sentimento – e la cosa è del tutto evidente oltre che apodittica e
pleonastica. Qui la poesia diventa un modo di rappresentazione altro, da cui il
segnale poetico che emerge è tutto di un linguaggio che veicola una concreta
allusione al vissuto attualmente in atto; concetto, questo, che arricchisce l’esistenza
di un suo aspetto tangibile e concreto da intendersi come misura di un “universale
particolare”. C’è, nei versi di «Corrente» un vero e proprio racconto del corpo
in quanto protagonista della realtà. Si assiste ad un crescendo della
materia-corpo attraverso una logica emotiva e razionale di cui si possono ben
vedere i segnali. Il libro, infatti, è diviso in sottosezioni di questo non
improbabile racconto: sottosezioni che portano il titolo di In circolo; Tracciare; Getto; Divisibile 1. Tutti dei capisaldi del
racconto che alludono costantemente al senso di una distruzione
materica-emotiva e, potremmo dire, fanno vedere quello che di questa nuova
postura del corpo non abbiamo ancora colto con viva coscienza.
sotto
le unghie
qualcosa
di slacciato;
le
piccole uova sono troppo numerose;
utero
di resina (la femmina è il serbatoio senza
interruttore)
se
resta tesa tra
i polsi
la
corda respinge il
setaccio
più
sotto
il
laccio, la bolla d’aria
*
il
condotto per respirare l’utero cartografando
(il centro è solo più abituale del lato)
in
contro piano tutto
è geometrico
tutto,
staccato
*
Si
evince da questi versi una logica fortemente materica, della materia, del
corpo, dislocata in uno spazio temporale che inserisce l’uomo in un ordito
perfettamente geometrico. È come se la poetessa desiderasse ormai
definitivamente indicare dei nuovi parametri di ragionamento che non hanno più
nulla a che vedere con quelli del passato. E cosa significa questo se non una
straordinaria accelerazione delle dinamiche stesse del mondo? La poesia diventa
lo strumento (impensabile?) su sui far innestare, forse anche in maniera
criptica, il senso di una dipartita che per ora sempre di più si espande
nell’etere come un codice morse che solo quelli che conoscono quel preciso
linguaggio sanno captare e capire. La Davidovics è una di questi. Sa leggere i segnali
del moderno, del contemporaneo, sa leggere tra le righe della storia e
intenderla non più come spazio che banalmente tende ad allargare il concetto e
la prospettiva della novità, del nuovo, di un futuro che sarà nostro avvenire come
il passato, ma solo più comodo. Il futuro che vede la Davidovics non è un
futuro che si vede in poltrona da casa, ma è un futuro che sconvolge il corpo,
che si vive in strada; è un futuro che è già presente e che va a minare la
coscienza corporale, organica dell’individuo; è un futuro che ci penetra e ci
devasta.
Il
materasso ingoia nella
sua placenta;
scoria
di grasso
trapunta nella
piega dell’inguine,
endoscopia della cannula
per
un intestino senza colite.
L’orlo
disfatto tutto
intorno al polso
*
Seguendo
questa logica si può considerare naturale un passaggio che ha portato,
certamente non per questo merito, bensì per meriti decisamente poetici, metrico-sintattici
e lessicali, la poetessa a vincere il Premio Delfini (IV edizione, Modena,
2007). Perché dico questo? Perché se è vero che c’è stata una poesia come fine
del mondo, ed era espressamente quella di Antonio Delfini, c’è oggi una poesia
che vede quella fine del mondo. Una poesia che ha vissuto il senso primo della
catastrofe dell’11 settembre come perno o, forse, premio, secondo la logica di
Karlheinz Stockahusen, per non aver realizzato più opere d’arte degne di questo
nome. Un premio punitivo, perché fu Stockahusen che disse – suscitando scandalo
e indignazione – che l’attentato del World Trade Center poteva essere
considerato a tutti gli effetti un’opera d’arte. Se quell’attentato, al di là
delle ragioni politiche ed economiche, al di là delle rivendicazioni o di un
mitridatismo, è l’immagine assunta come proseguo di una realtà impensabile,
perché quelle scene in qualche modo andavano oltre una realtà pensabile, quindi
hanno sfondato gli schermi e sono andate oltre una logica di riferimento, è
altrettanto vero che quelle stesse sono diventate una manna per narratori e
poeti che hanno sentito il richiamo a qualcosa che non poteva rimanere lì senza
che qualcuno lo assumesse a codice denotativo di un sistema contemporaneo. La
logica della caduta e della distruzione. Così il corpo, che per primo ha patito
quella tragedia, il corpo di un cittadino americano e del mondo che è comunque
estraneo dai sistemi del potere, adesso viene riassunto dalla Davidovics per
incominciare a determinare una piena assunzione della storia come parabola del
decesso e della frantumazione, del dislocamento, della dissociazione. Il corpo:
emblema della poetica post-distruzione! Nell’ultima raccolta poetica dal titolo
«D’acque», vincitrice del Premio Delfini, (edizione della Cassa di risparmio di
Modena in un numero limitato di copie), il procedimento di pseudomorfosi
adottato dalla poetessa continua ad infittirsi e ad innescare un vero e proprio
meccanismo di sistema di versificazione che non è più sperimentale, bensì
naturale proseguo della storia umana fatta di scomposizione e di smembramento. Il
suono – come scrive la
Davidovics – è qualcosa di rotto.
Attraverso le illustrazioni grafiche di Pietro Ruffo, che ha arricchito la
raccolta di disegni, si evince che la storia attuale è storia archeologica, che
deriva espressamente da una diretta riesumazione di qualcosa che non c’è più ma
che continua a vivere come sottomultiplo di una richiesta di sopravvivenza. È
la logica dei fossili e dei ruderi: gridare la sopravvivenza, far sapere che
ancora si esiste. Questo meccanismo illustrativo protozoico e archeologico delle
poesie della Davidovics indica chiaramente nella nozione di “acqua” il
possibile, anzi, unico elemento da cui ripartire per garantire la vita. Basta
aprire il libro, sfogliare le pagine e la verità salta agli occhi. Si delinea
una nuova anatomia del corpo e una nuova geografia della natura («non v’è causa
per i liquidi»; «la consumazione è più lenta nel fango», «la stenditura dei
mestrui», «la bocca è una ferita»;): se è vero che il mondo sta cambiando lo
scopriamo attraverso la poesia lirico-oggettuale e plurisemica di poetesse come
Sara Davidovics, Anna Laura Longo, Laura Pugno e pochi altri. Il senso genitivo,
di appartenenza, che la poetessa ha voluto dare a questa sua seconda raccolta, D’acque, diventa espressione concreta di
una eterogenesi del corpo, di cui la materia fisica è più di sé stessa, è
materia in progress, in senso sia evolutivo che de-evolutivo.
la
bocca è una ferita scavata
nella parete
il rumore resta sotto un groviglio di materia
di
colla
la carne si solleva dal lavatoio
ghiandolare
piega
piatta, sul fondo:
*
cava
dalle unghie un rivolo giallo graffiato
palato
scarnificato a placche rosa
la
fenditura
più larga dei grani è
senza crescita
la
perforazione della cintola:
tenuta in basso dagli aghi
vagina
di cartilagine
foro della
nervatura,
la
stenditura dei mestrui:[i]
*
Vedi Aldo Mastropasqua,
“D/ittico” di Sara Davidovics, un testo in bilico tra voce e immagine.
(su Avanguardia, n. 38, 2008).
Vedi Federico
Scaramuccia, TRANSILE (su Le Reti di Dedalus [Poetiche], 2007)
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