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di Massimiliano Borelli
Giorgio Manganelli era uso
mentire, scrivendo, operando con ogni risorsa disponibile della frode e
dell’inganno verbali; la sua letteratura infatti si imponeva, manifestamente,
come menzogna: questo il suo “stemma”, tracciato al momento dell’esordio, a
metà degli anni Sessanta, rimasto immutato lungo tutta la sterminata bibliografia
dell’autore milanese, esposto ancora da ognuna delle numerose uscite postume,
che dal 1990 in poi, in questi quattro lustri che ci separano dalla sua morte,
riattivano di volta in volta la “funzione-Manganelli”, declinata nelle
molteplici varianti della scrittura. Abbiamo infatti ereditato interi faldoni che
riempivano cassetti e scaffali, composti poi in romanzi (La palude definitiva, Il
presepio), racconti (come quelli riuniti ne La notte), scritti odeporici (Esperimento
con l’India, L’isola pianeta),
biografie (la Vita di Samuel Johnson),
corsivi (Mammifero italiano), testi
critici (come quelli contenuti ne Il
rumore sottile della prosa), epistolari (con Luciano Anceschi: il
recentissimo I borborigmi di un’anima,
o con i familiari: Circolazione a più
cuori), poesie. Insomma, un’intera carriera letteraria era ancora di là da
apparire, come fosse stata “dissimulata”, al momento della scomparsa del “Manga”.
(E, al pari, la sua ricezione critica è aumentata esponenzialmente nell’età
postuma, culminando, per ora, nel recente “Cantiere Manganelli 2”, organizzato
a Roma lo scorso maggio, dove tra l’altro hanno trovato sede le cento tavole di
Paolo della Bella ispirate alle “centurie”).
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Paolo della Bella, tavola ispirata alle centurie, "Cantiere Manganelli 2" - Casa delle Letterature di Roma, 2010
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Principiando la sua attività in
anni di sperimentalismo, Manganelli ha trovato il proprio elemento nel lavoro
del e sul linguaggio, condensando nella formula suddetta tutta una poetica
dell’artificio, dell’elaborazione retorica, della maniera stilistica. Del
Gruppo 63, il cui solco ha percorso in tutta la sua estensione, ha
rappresentato la faccia più radicale nella direzione dello “specifico
letterario” e dell’autonomia dell’elaborazione linguistica, secondo una
posizione teorico-critica che non contempla confessate contiguità con
ideologie, significati, moralità varie. Eppure, dietro questa maschera di fool impenitente, sfuggente a ogni
“appello” e istanza civili e sociali, stava un estremo costruttore di panorami
inediti, nei quali andavano depositandosi configurazioni della Realtà (così
aborrita, nelle “chiare” lettere – si fa per dire, vista la predilezione per
l’“oscurità”: e si veda la polemica con Primo Levi – delle dichiarazioni di
poetica) tra le più disforiche e inquiete della nostra letteratura, proprio
perché affidate alle molteplici variazioni di un enigma, di un muffo orizzonte
di oggetti e di luoghi, di un immaginario ruinoso e sfuggente.
L’opera manganelliana si compone
e ci appare come una iterata discesa agli inferi, lungo la quale l’autore non
manca di contribuire a ridisegnare i confini e gli statuti della narrazione:
fra trattato e racconto. L’obiettivo polemico comune a ogni suo testo è infatti
il “romanzo”, genere degenerato, per lui, dalla ricchezza inventiva delle
retoriche artificiali alle plaghe illuminate e affollate dei “messaggi”, delle
“opinioni”, delle realistiche rappresentazioni. Il moto perpetuo della sua scrittura
è invece alimentato dall’energia depistante dell’“errore” (del verbo che
sbaglia e devia, cioè), del “refuso” ingravidante, dell’inconsulta inserzione
di ingredienti spuri, antieconomici, non necessari allo sviluppo lineare e
verisimile del raccontare. Gli è che il “racconto”, piuttosto, incarna l’ideale
della parola letteraria, per Manganelli, con le sue facoltà di porsi di
traverso, di fuggire oltre gli argini, di debordare nel senso ambiguo, di
accogliere le minuzie e i trucioli di una totalità irrappresentabile sub specie di mondo coerente,
plausibile, frequentabile. Pure laddove pare finalmente fare i conti col suo
“nemico”, nei “romanzi fiume” di Centuria,
Manganelli inceppa i meccanismi, e trasforma le sue trame in camere
iperbariche, inabitabili e carambolanti in una combinatoria irrigidita di
schegge allegoriche.
Dall’inaugurale Hilarotragoedia in poi, dunque,
Manganelli non ha fatto che aprire botole “ulteriori” conducenti in un
sottosuolo brulicante e mefitico, praticando sempre una scrittura altamente
lavorata in grado di «fondare l’astratto sul mostruoso» (come scrisse a
proposito di Beckett, ma di certo pensando anche a se stesso): ovvero di
progettare universi linguistici che, nella loro enigmatica apparizione, fossero
piagati da ambientazioni cimmerie e da corrugamenti della parola. Che siano “rumori o voci” ad assillare il viandante
con il loro brusio incerto, oppure le macerie incandescenti raccolte
direttamente “dall’inferno” o ancora
la decomposta deformità di una “palude
definitiva” a impaniare la voce che parla e che si inoltra in questi alieni
ecosistemi, o infine che sia l’apocalisse innescata tra i figuranti sbalzati
nel “presepio” a straniare l’ambiente
domestico in rebus dove si espone la faccia cariata e carente dell’esistente,
in ogni caso la scrittura di Manganelli opera in vista di una
(auto)interrogazione ininterrotta e sempre rilanciata del senso. Qui nasce la
coazione a ipotizzare, ad avvolgere il discorso in “iperipotesi” sempre messe in crisi per far posto a soluzioni
concorrenti, a dirottamenti verso pieghe inagevoli e angoli polverosi. Il testo
sollecita pertanto l’interpretazione, dislocando le proprie disiecta membra in stazioni percorse
della lettura; e il testo oggettivizza il proprio linguaggio, mettendo in risonanza
la propria compagine retorica con i diorami ctonii messi in piedi, al pari
delle frastagliate cicatrici dei paesaggi degli estremi “settentrioni” visitati e descritti in reportages (quelli dell’Isola
pianeta) algidi e trasalenti, orizzonti concreti e fantastici sibilanti di
gas emergenti da fori superficiali, o al modo dei palinsesti della fatiscenza
indiana, raccolti nell’“esperimento”
orientalista.
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Paolo della Bella, tavola ispirata alle centurie, "Ora il signore non più giovane, che è vissuto molti anni in quella casa, che ha attraversato innumere volte quella stanza, ha scoperto che in quell'angolo non c'è un vuoto, ma un'assenza. Sa anche di averla percorsa numerose volte, e di essere egli stesso implicato, non sa come, in quell'assenza. [ooo] L'assenza è talmente importante, che potrebbe rinunciare a tutto ciò che rende la sua vita tollerabile - sebbene tollerabile non sia - pur di non assentarsi dall'assenza." (Giorgio Manganelli, Centuria)
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Il momento della scrittura è
sempre un momento di scontro, di frizione con la lingua e con l’immaginario, ed
è il luogo dove la parola comune sprofonda e acquista la poliedricità del
polisenso. Sì che la pagina lievita, e si avvita, e sdrucciola, e anamorfizza a
ogni pie’ sospinto, secondo periferiche prospettive che sconquassano linearità
e referenzialità, portando alla ribalta, in un teatro della crudeltà
espressiva, quanto vi è di clandestino, di non autorizzato dalla “cultura”. Su
questo proscenio vediamo muoversi una delle creature più vivaci dell’opera del
Nostro: il suo Pinocchio. Doppio notturno del fratello collodiano, il burattino
manganelliano aggruma, a mo’ di campione illustrativo, tutto il campionario di
qualità care al suo autore: metamorfismo, discontinuità, disubbidienza,
inefficienza, capricciosità, amoralismo, lubricità, e, infine, un’inestinguibile
fascino per la menzogna. Ci penserà Manganelli, poi, a incrinare il lieto e
giusto fine, così inadeguato a concludere un’avventura plurale e rocambolesca, cocciutamente
delinquente come quella del burattino; all’uopo basterà dirigere lo sguardo
verso quel ciocco di legno che permane, nella sua disarticolata evidenza, a
tentare la raggiunta stabilità comportamentale e inficiare, con la sua materia
estranea, la credibilità del “bravo bambino” di carne.
Ma il “libro parallelo” funziona benissimo anche come saggio teorico, nel
modo di costellare la riscrittura di appunti critici, in uno zibaldone sul
racconto che si inscrive dentro una delle narrazioni archetipiche della nostra
tradizione, al tempo stesso rovesciandone significati e perlustrandone le
faglie, i crepacci di senso rimasti non sondati. Vi si dispiega, dunque,
paradigmaticamente (rendendo esplicito ciò che in altre opere è pur sempre
immagazzinato e attivo sottotraccia), il cosmo poetico di Manganelli: quella
dedizione (alimentata dal nume di Jung) all’incubo, all’inferno, all’angoscia,
alla malattia epidemica, al volto notturno delle cose che gli veniva
dall’ascolto della nevrosi, dalla signoria di un’“esistenza mancata”, da un
manieristico irrigidimento dell’autenticità esistenziale. Tutto, per
Manganelli, come per il signore che compare nella centuria Ottantaquattro,
diviene allegoria: un’allegoria aperta, mutante sotto gli occhi del lettore,
che si appiglia a ogni forame del racconto per ampliare i propri echi. Così i
significanti ricevono una consistenza semantica inedita, sia che vengano
declinati in un “avernese” furibondo, che mescida la lingua in un assetto
innaturale, sublime e sozzo allo stesso tempo (come nella “levitazione
discenditiva” hilarotragica), sia che vengano rifratti in spire sintattiche
circoscriventi uno spazio immaginativo complesso e ambiguo.
È così che dietro il profilo
pingue e occhialuto del professore di anglistica (presto dimissionario, per
volgere tutte le cure al lavoro letterario, in senso ampio: non solo da scrittore,
ma, e con piglio inconfondibile e penetrante anche da critico, e poi da traduttore
– di Poe, anzitutto – e da corsivista) era dissimulato un frequentatore di
cloache, uno scopritore, o ri-scopritore, di luoghi della tradizione, un
rabdomante di scarti culturali, amante dell’infinita labirinticità dei
dizionari come della macchinosa espansione delle enciclopedie e del potenziale
espressivo delle grammatiche. Sempre utilizzando la lingua in quanto
contenitore anonimo ed elastico di “parole morte”, di “larve” da riattivare
nella loro fantasmatica profondità, in vista della composizione di “worst sellers”, volumi antagonisti al
consumo immediato e indirizzati a “lettori inesistenti”: di là da venire,
utopicamente ipotizzati oltre lo stato attuale delle cose.
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Paolo della Bella, tavola ispirata alle centurie, "Con un lieve disagio pensa alla donna con cui ha una relazione più o meno clandestina; è L'Allegoria dell'Umiltà o dell'Umiliazione? Ripensa ad altre donne depositate nella memoria di un passato senza gioia, [ooo] Scuote il capo, da tempo ha perso ogni stima di sé; sospetta di essere l'Allegoria dell'Incapacità di capire le Allegorie." (Giorgio Manganelli, Centuria)
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Il “MANGAGNIFICO”, come lo chiamò
l’amico-maestro-compagno di strada Luciano Anceschi (come si legge nel
carteggio pubblicato da poco dalla figlia Lietta, I borborigmi di un’anima), si è dunque dislocato nel suo linguaggio
e nei suoi alter ego, alcuni dei quali intervistati in dialoghi a distanza,
“impossibili”. In uno di questi, Nostradamus addita le “rovine”, la “catastrofe
totale” nella cui facies il profeta
osserva e riconosce il corso della Storia. Come l’antico profeta, anche
Manganelli si è «occupato di macerie nella loro forma più pura, ancora
disabitate, puri progetti di sventure o di orrore, stesi sulla pianura immobile
dell’infinito domani». In questo sguardo sbarrato, in questa concentrazione
focalizzata sulle zone del decadere sta il senso storicamente fondato
dell’opera manganelliana, la sua attualità ideologica, che risuona malgrado
l’intenzione radicalmente annichilente dell’autore (che in questo slittamento
di effetti finisce per ritrovarsi nella medesima condizione del protagonista di
quel racconto de La notte, intitolato
Pseudonimia², il quale vedendosi tra
le mani un volume che riporta il suo nome, ammette come «niente mi era più
estraneo di quel libro che, il bastardo, si insinuava nella mia vita»).
I sensi sbucano da ogni lato, nel
fiume narrativo di Manganelli, e come nella musica – campo molto frequentato dal
Nostro, esempio massimo di una ambiguità assoluta dell’espressione – «anche il
silenzio è parola»: in ogni anfratto testuale vi è depositata una araldica costruzione
semantica, una larvale presenza convulsamente “ascetica e puttana”, come la letteratura.
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