di Mario Lunetta
Fino agli anni Ottanta, quello
che potremmo chiamare il “mistero Benjamin”, o meglio il nodo di elementi
irrisolti legati alla scomparsa del filosofo (suicidio o morte naturale), è
rimasto avvolto in un alone di reticenze, menzogne, imprecisioni, depistaggi. A
Marsiglia, nell’agosto del 1940, Walter Benjamin aveva ottenuto grazie a Max
Horkheimer il visto d’urgenza per gli Stati Uniti. Gli furono rilasciati i
visti di transito per Spagna e Portogallo, ma non quello di uscita dalla
Francia; egli tentò tuttavia di raggiungere con un gruppo di esuli in fuga la
frontiera iberica. Prima dell’occupazione tedesca di Parigi aveva affidato un
buon numero di scritti a Georges Bataille, che li nascose alla Bibliothèque
Nationale. Dopo aver consegnato una valigia di manoscritti a Hannah Arendt e
Heinrich Blucher, e avere offerto a Arthur Koestler, anche lui fuggiasco, una
dose dello stupefacente che portava con sé (forse dell’Eukodal), “nel caso in
cui…”, il 25 settembre raggiunse in treno Port-Vendres, località prossima al
confine con la Spagna. Con
l’aiuto di Lisa Fittko, un’amica che aveva stretti rapporti col maquis, dopo aver percorso insieme ad
altri fuggiaschi un sentiero di
montagna, raggiunse Port-Bou, in territorio iberico. Sotto sorveglianza delle
guardie di frontiera spagnole, che avrebbero dovuto rimettere i fuggitivi nelle
mani della Gestapo, Benjamin trascorse la notte nella stanza n. 4 al secondo
piano della pensione Fonda Francia. La traversata pirenaica aveva spossato il
filosofo, affetto da una grave ipertrofia cardiaca. Prostrato dalla fatica e in
preda all’angoscia, scrisse un breve messaggio per Adorno, quasi un estremo
conato di speranza senza speranza. Si sente ormai in trappola. Durante la notte
assume un’overdose del narcotico che portava con sé. Secondo il referto medico,
che parla di emorragia cerebrale, dopo essere entrato in coma, muore alle 22.
Nella cronologia che conclude il
bellissimo Fine Terra. Benjamin a Portbou,
(Ombre Corte, Verona 2010, pp. 170, € 16,00) curato con competenza e attenzione
da Carlo Saletti, quasi a confermare la maligna persecuzione di un gioco degli
equivoci che defrauda il pensatore financo del suo vero nome, si legge: “Sotto
il nome di Benjamin Walter, viene sepolto con rito cattolico nella parte
consacrata del cimitero del paese. La bara viene sistemata in un loculo (n.
536) del colombario, concesso per cinque anni. Le spese di locazione sono
detratte dai soldi che vengono ritrovati tra i suoi effetti personali, così
come i costi relativi al soggiorno nell’albergo, agli onorari del medico, del
prete e del falegname, che ha provveduto alla bara”. I suoi resti verranno
tumulati nel 1945 nell’ossario comune.
Come in un bluff al poker,
Benjamin si è lasciato ingannare dalla sua disperazione. Il gruppo dei
fuggitivi che era con lui riprende il viaggio verso Lisbona, mettendosi in
salvo. In lui, del resto, come in quel Proust che – primo tra i tedeschi – egli
aveva tradotto, covava un’invincibile idiosincrasia per tutto ciò che nella
vita fosse il quotidiano, l’utile, il pratico. E non aveva detto il suo
Baudelaire che “Etre un homme utile m’a paru
toujours quelque chose de bien hideux”?
Se è lecito fermarsi un istante
al tragico puzzle delle
corrispondenze, è da ricordare ciò che dell’incapacità esistenziale di Proust egli
aveva scritto in un grande saggio (Cfr. Per
un ritratto di Proust, in Avanguardia
e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, trad. it. di Anna Marietti,
Einaudi, Torino 1973): “L’eccitante inquietudine dell’uomo colpisce anche il
lettore delle opere. Basta pensare alla sterminata serie dei ‘soit que’ che con
una deprimente minuzia mostrano un’azione alla luce degli innumerevoli motivi
che possono averla provocata. Eppure in questa disposizione paratattica viene
alla luce ciò in cui la debolezza e il genio di Proust non sono più che una
cosa sola: la rinuncia intellettuale, l’incrollabile scetticismo che egli
opponeva alle cose”. Insomma, il fare pratico
come sperpero del vero fare, quello
dell’immaginazione e della memoria presentificante, strenuamente impegnato nel
coprire di ridicolo i rituali delle classi privilegiate attraverso la paludosa
fiumana della chiacchiera che con terribile comicità inonda la Recherche. “Con una precisione che ricorda quella
di un sonnambulo, osserva Hannah Arendt in una splendida memoria (Walter Benjamin. 1892-1940, in it. presso SE, 2004, a c. di Federico
Ferrari, trad. it. di Mariza De Franceschi), la sua mancanza di destrezza lo
conduceva inevitabilmente incontro alla malasorte, o dovunque qualcosa di
analogo potesse essere in agguato”.
Il 21 ottobre del 1940, dalla
Francia meridionale, la Arendt
comunica con una lettera la morte del filosofo a Gershom Scholem, illustre
studioso del pensiero ebraico e fraterno amico di Benjamin. Anche lei, nel
gennaio dell’anno dopo, si trova a passare da Portbou, ma invano cercherà nel
cimitero la sepoltura dell’amico. Questa la sua testimonianza: “Non era
possibile trovarla. In nessun posto c’era scritto il suo nome”. Nel 1979 la
municipalità di Portbou appone una lapide in ricordo di Benjamin sul muro di
cinta del camposanto, con la semplice dicitura in catalano: “A Walter Benjamin
/ filosofo tedesco / Berlino 1892 Portbou 1940”. Il 15 maggio 1994 viene inaugurato a
Portbou il suggestivo memoriale con vista sul mare dedicato dallo scultore
israeliano Dani Karavan a Walter Benjamin e agli esiliati dal 1933 al 1945.
Ormai la figura del filosofo berlinese è acquisita dal mondo come una di quelle
fondamentali nel pensiero del XX secolo, eppure, almeno in una zona, persiste
quello che all’inizio ho chiamato il “mistero Benjamin”.
C’è una borsa che assume contorni
da tesoro di una caccia intellettuale che rischia di mutarsi in ossessione
mistica, una sorta di Santo Graal laico che custodisce un manoscritto,
“assoluto” come il sangue di Cristo nella leggendaria coppa. “Il racconto di
una misteriosa borsa di pelle nera che Benjamin avrebbe avuto con sé in quelle
ore, e del manoscritto in essa contenuto, riaccese l’interesse attorno alla
vicenda”, osserva in proposito Saletti. Siamo agli inizi degli anni Ottanta del
secolo scorso. Secondo alcune testimonianze puntualmente riportate in Fine Terra la presunta sparizione della
borsa e del manoscritto sembrerebbe possibile. In un libro di memorie di Lisa
Fittko tuttora inedito in Italia (Mein
Weg uber die Pirenaen, 1985), è ricostruito con lucida partecipazione anche
l’attraversamento delle montagne che ridusse ai minimi termini un cardiopatico
grave come l’apolide autore del Dramma
barocco tedesco: “Notai che Benjamin aveva con sé una cartella (…) sembrava
pesante, perciò gli chiesi se potevo aiutarlo. ‘Contiene il mio ultimo
manoscritto’, mi spiegò. ‘Ma perché ha voluto portarselo dietro? Stiamo facendo
solo un giro di ricognizione’. ‘Vede, per me questa cartella è la cosa più
importante’ disse. ‘Non posso perderla. Il manoscritto deve salvarsi. E’ più importante della mia stessa persona’”.
Il manoscritto e la borsa che lo
conteneva non sono mai stati ritrovati. Gli studiosi di Benjamin concordano nel
ritenere che il manoscritto potesse essere una copia delle sue Tesi sul
concetto di storia, ipotesi che ribadirebbe una delle centralità del
pensiero del grande berlinese il quale, non da storico ma da lettore “a
contrappelo” della dialettica storica, e lontanissimo da qualsiasi metànoia
salvifica, insiste sulla possibilità di “organizzare il pessimismo” in una fase
“infernale” della modernità. In Parigi
capitale del XIX secolo. “I Passages di Parigi” (Einaudi 1986) è scritto:
“Età moderna, età dell’inferno. Le pene infernali sono di volta in volta
l’ultima novità in questo campo. Non si tratta del fatto che accade ‘sempre lo
stesso’ (a fortiori, il discorso non
è qui sull’eterno ritorno), ma del fatto che il volto del mondo, il suo capo
macroscopico proprio in ciò che è più nuovo non cambia mai, che questo ‘nuovo’
in tutti i suoi pezzi rimane sempre lo stesso. Ciò costituisce l’eternità
dell’inferno e il piacere innovativo dei sadici. Determinare la totalità dei
tratti in cui si forma questa modernità vuol dire rappresentare l’inferno”.
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Walter Benjamin
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Se, come sostiene Winfried Menninghaus,
l’opera di Benjamin è un elogio della distruzione, ciò che conta in questa
inclinazione è il metodo che vi è incorporato. Si direbbe che, con la
“complicità” di autori particolarmente congeniali (Paul Klee, Adolf Loos, Paul
Scheerbart, Karl Kraus, Bertolt Brecht), “gli implacabili che per prima cosa
facevano piazza pulita” dell’aura,
rifiutando l’ordine sublime del vecchio umanesimo che, rifuggendo dal
considerare la contraddizione e la frattura, la ripetizione e la discontinuità
nel processo storico, si rifugia in un’“immagine dell’uomo solenne, nobile,
adorna di tutte le offerte sacrificali del passato”, Benjamin opti decisamente
per il conflitto, il cui emblema agghiacciante egli vede nell’“angelo nuovo”,
un “angelo con gli artigli” che “preferirebbe liberare gli uomini prendendo
loro quello che hanno piuttosto che renderli felici donando”, perché la sua
aberrante umanità, dolcezza, pietà “si afferma nella distruzione”. Nella
distruzione degli antichi feticci, ridotti ormai a fantocci impagliati incapaci
di misurarsi con l’orrore del presente capitalistico-borghese.
Così, nella figura del flaneur Benjamin trova la propria vera
incarnazione, che non è solo psichica ma coscientemente intellettuale. Di
questo tipo umano, infatti, nella selva di appunti, saggi, sondaggi che
costituiscono quel gran libro che è Parigi
capitale del XIX secolo, egli sparge una messe di lodi riflettendovisi come
in una quantità di specchi sempre a rischio di frattura. Come osserva Hannah
Arendt nel citato memoir benjaminiano,
è al flaneur, “che vaga senza meta
nelle metropoli, in aperto contrasto con la folla frettolosa e indaffarata, è a
lui che le cose si rivelano nel loro significato segreto: ‘La vera immagine del
passato scivola via rapida’ (Tesi di
filosofia della storia), e solo il flaneur
che vaga oziosamente riceve il messaggio”. Soffermiamoci su un solo frammento
di specchio che fissa questa figura in Benjamin: “Si deve cercare di
comprendere la costituzione morale assolutamente affascinante del flaneur appassionato. Nel rapporto di un
agente segreto parigino dell’ottobre 1798 (?) la polizia, che qui, come nei
tanti oggetti che noi trattiamo, appare come il vero intenditore, dà la
seguente indicazione: “Il est presque impossibile de rappeler et de maintenir
les bonnes moeurs dans une popolation amoncelée où chaque individu, pour ainsi
dire, inconnu à tous les autres, se cache dans la foule et n’a à rougir devant
les yeux de personne”, citato in Adolf Schmidt, Pariser Zustande wahrend der Revolution, III, Jena 1876. Nel suo Uomo della folla Poe ha fissato per
primo e una volta per tutte il caso in cui il flaneur, distanziandosi completamente dal tipo del filosofo che
passeggia, prende i tratti del licantropo inquieto che vaga “nella selva
sociale”.
Il flaneur è un déraciné, un
senza patria, uno che ha bisogno di toccare il fondo per trovare un possibile
inizio a un’esistenza che non possiede e che non lo possiede, anzi lo rifiuta.
Baudelaire ne è la massima e più sconcertante personificazione, fino a una
sorta di mitologia; e non è un caso che su di lui e sul suo Spleen de Paris precipiti la
predilezione di Benjamin, apolide senza speranza obbligato da un sinistro intrico
di circostanze a giocare la sua ultima carta sulla spinta di un equivoco. Giuliano
de’ Medici dice che talvolta “il suicidio non è una viltà, né da viltà
procede”. È appunto il caso del grande berlinese, che decise di farla finita
perché attorno a lui non vedeva che tenebra, anche se aveva scritto qualche tempo
prima, come terribile monito, “Solo per chi ha perso ogni speranza, ci è data
la speranza”.
***
Morfina
Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato
la
favilla della speranza, che è penetrato dall’idea
che anche i morti non saranno al sicuro dal
nemico,
se egli
vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.
WALTER BENJAMIN, Tesi di filosofia della storia
Cammina per
fermarsi. Si ferma per camminare ancora,
sui ponti, sul pavé, sul macadam, lungo i passages
del tempo andato ch’è già futuro consunto, pasto
per una lebbra smemorata, che fa smorfie da scimmia.
Cammina fermo. È il cammino che è fermo: e
lui
lo sottolinea col suo passo pesante, sotto nubi
che pesano altrettanto e magari di più, con la sua
corpulenza
in cui s’annida la lama della mente che nella sua pietà
non conosce pietà, mentre sfugge lo sguardo dell’angelo,
ambiguo, obliquo, che gli volge le spalle in un sorriso
tremendo
più rischioso di ogni felicità: ed è un automa, un giocatore
di scacchi, fantoccio in veste da turco, pipa in bocca,
dentro un sistema di specchi.
Ora si mangia in un sorriso tenue
dietro gli occhiali quella porzione estrema di vita
rimuginando sulla morte, con la sua corpulenza
e la sua testa implacabile. Cammina, per potersi fermare.
Si ferma ancora, ancora: per un altro cammino che certo
non conosce. Parigi è scomparsa. Marsiglia è vicinissima
e remota. Conta le sue pastiglie di morfina, per la notte.
Dicono sia stato sepolto nel piccolo cimitero di Port Bou,
davanti al mare. Nessuno ha mai individuato la sua tomba.
21 febbraio 2004