di Sergio Zuccaro – foto di Maria
Andreozzi
Dieci anni fa cercai casa all’Idroscalo di Ostia. Se ne vendeva una non
tanto male in arnese. Era in muratura, un pesce di gesso, sul pilastro sinistro
del cancello, sembrava ancora contorcersi all’amo. Sull’altro pilastro, il
numero civico 151 le conferiva dignità urbanistica.
Nel piccolo spazio tra la recinzione e la “villa”, come era scritto
sull’annuncio dell’immobiliare, un forno
faceva capire le intenzioni di autonomia o di svago di chi l’aveva
costruita.
Il lastricato era un puzzle improponibile di mattonelle, un arlecchino
povero e sciatto.
Sul retro, ricavato in quella striscia di terra che divideva la casa
dagli scogli che proteggono la zona dall’argine sinistro del Tevere, uno striminzito
giardino. Dal terreno incolto spuntava una grande croce in ferro arrugginito.
Seppi che lì era morto un ragazzo di overdose.
Una teoria di bilancioni piazzati sui massi neri incombevano come
giganteschi granchi al sole.
Della casa restavano solo le pareti. Avevano rubato tutto, finestre,
porte e perfino gli infissi.
Non la presi, il proprietario mi disse che poggiava sul terreno
demaniale, come tutte le altre dell’Idroscalo e bisognava pagare un affitto al Comune.
Qualche anno dopo conobbi una
famiglia di tunisini che abitavano proprio a fianco a quella casa e diventai
loro amico. Argìa, la mamma, era riuscita a portare in modo più o meno
avventuroso quattro figli. Maria Andreozzi, la mia amica fotografa ritrasse
Uahid, il primogenito, che regge un grande pesce appena pescato dal fratello.
Ha i capelli da rasta, le braccia aperte come quelle di un cristo in croce,
l’aria felice e pacificata di chi è fatto di fumo. Un’altra foto lo ritrae
mentre si affaccia da una finestra minuscola di una casa minuscola insieme alla
fidanzata italiana.
Quando la sorella Sabrina ebbe due gemelli, mise sulla porta di
compensato dell’ingresso due coccarde azzurre con i nomi scritti a penna; su di
uno si poteva leggere Blu.
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Idroscalo di Ostia: Uahid e Antonella
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Mentre scrivo non c’è più nulla. La casa con la croce, quella di Blu, i
bilancioni. È rimasto un grande spiazzo vuoto, coperto di detriti, con il segno
dei cingoli delle ruspe e delle scavatrici.
Il 17 febbraio 2010 con l’Ordinanza N. 43 del sindaco Alemanno,
l’Idroscalo è stato raso al suolo, le strutture, definite dalla burocrazia
insistenti, sono diventate inesistenti.
Quelle favelas fatte di materiali di risulta, dove abitavano gli ultimi
sottoproletari pasoliniani espulsi dal sistema economico attuale, sono
diventate polvere.
Una parte del XIII Municipio di Roma “bonificata”, con la scusa di
un’azione di “soccorso e assistenza della popolazione”.
Il Porto Turistico incombe e aspetta di avanzare, per aggiungere altro
cemento e spocchia a un litorale già martoriato dalla speculazione edilizia. Tor
San Michele a pochi passi, progettata da Michelangelo, non avvista più niente,
accecata dalle sterpaglie e da un orribile palazzone in costruzione su quello
che veniva chiamato terreno demaniale, cioè di tutti.
Proprio in mezzo al piazzale spianato si è salvata una piccola esedra
circolare con una Madonna in gesso e un Padre Pio. L’aveva tirata su un
pensionato che il giorno dello sgombro gridava alla deportazione. Chissà in
quali residence di fortuna sono stati parcheggiati? Ricordo la confusione. A
centinaia, polizia, carabinieri, vigili urbani, corpo forestale, pompieri.
Camion, automezzi, anfibi, jeep, elicotteri. Uomini in tuta bianca si
aggiravano spruzzando d’azzurro i pannelli di amianto rimossi prima della
distruzione. Poi più nulla, fantasmi. Ora ha casa il vento.
Mi viene il dubbio di averli mai conosciuti. Di essere mai stato nella
casa di Uahid. L’Idroscalo è un corpo martoriato come quello di Pasolini che
qui è morto, e come profeticamente anticipano i suoi versi: voi, o custodi, in assurde assenze / di
spazi trasvolate, ma non senza / avere fatto intorno a voi un fosco / nudo
deserto.
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LA
BONIFICA - IDROSCALO DI OSTIA FEBBRAIO 2010 - © Maria Andreozzi
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