di Giovanni Nadiani
Da decenni ormai, secondo quanto proposto dalla critique génetique e
fatto proprio in molte arti, anche in letteratura il “testo”, cioè il
“prodotto” con cui un lettore-ascoltatore-spettatore viene a confrontarsi, in
realtà non è da considerarsi il frutto affatto esclusivo di una singola
genialità bensì come il lungo processo di una creatività collettiva. E soltanto
in questo modo ci è possibile, se non comprendere, avvicinare determinati
fenomeni caratterizzanti l’attuale produzione letteraria, in misure e forme
diverse, di quasi tutte le lingue. Se in linea di principio si può sostenere
che un “testo” esista a partire dal momento in cui esso si fissa sulla carta o
in una memoria digitale indipendentemente dal fatto che un giorno venga letto o
no, chiunque scrive, piegato sul suo diario o intento a digitare bit&byte
nel suo “privatissimo” blog, sa e sente di rivolgersi comunque a un
interlocutore, a un altro, che da fittizio si vorrebbe sempre più reale
affinché ciò che è stato scritto prenda infine una boccata di vita attraverso
la lettura di qualcuno. Questa banale operazione creativa collettiva, almeno a
due, nella nostra distrattissima società evenenziale, è diventata un
sofisticato processo di messa in scena testuale: dell’Opera oggi fa
indissolubilmente parte anche la sua messa in scena, la quale a sua volta è
fatta di tante, parziali messe in scena. Dall’ideazione del libro come corpo
del testo (autore, agente, editor ecc.), alla creazione dell’immagine
dell’autore e relativa spettacolarizzazione, alla teatralizzazione dei
paratesti fino all’eventizzazione, nelle più svariate forme e col concorso di
tutti i possibili media (dai tradizionali a internet nelle sue varie modalità
anche gratuite quali YouTube, MySpace FaceBook ecc.) del marchio “Autore+libro+Cd+DVD+ecc.”,
in base al budget a disposizione dei “venditori” e secondo la notorietà dell’“etichetta”.
In questo, esemplare per il nostro paese nel momento in cui si abbozzano queste
note (tarda primavera 2008) è risultata la messa in scena del marchio
“Lucarelli” in occasione della pubblicazione del suo ultimo romanzo. Ma, fatte
le debite proporzioni, la stessa cosa a livelli più artigianali e manuali si
può dire accada per certi marchi di poeti (da noi da vent’anni sempre e solo lo
stesso manipolo di eletti e qualche loro amico), o di scrittori di notorietà
non televisiva e mediati dai giornali locali che possono comunque contare su un
“bacino di utenza” interprovinciale per letture, spettacoli, presentazioni,
tavole rotonde ecc. che in qualche modo contribuiscono alla messa in scena del
“testo”. E, sostanzialmente, è giusto così, perché in molti casi il testo
proprio non esisterebbe: si pensi al non-mercato della poesia: senza i tanti,
piccoli eventi coinvolgenti autori e pubblico a fungere da moltiplicatori, essa
non avrebbe quasi mai circolazione.
Ovviamente, anche la letteratura al pari delle altre arti ha conosciuto
nel tempo sempre forme di pubblicizzazione per poter essere diffusa e l’oggetto
“libro”, al di là della sua aura di sacralità, è da Gutenberg che è considerato
un prodotto da vendersi. Nulla di cui scandalizzarsi. In tedesco, del resto,
per definire il lavorio attorno e all’interno del mondo letterario, con le sue
regole e costrizioni scritte e no, si usa il composto Literaturbetrieb,
e uno dei significati del secondo termine “Betrieb”, derivato dal verbo
“treiben” (azionare, movimentare ecc.), è appunto l’animazione, il traffichio
insito nella “società letteraria” (che spesso di socievole ha ben poco); ma non
si dimentichi che il termine significa anche impresa, azienda. Ciò che
caratterizza però in modo affatto nuovo e a ritmi accelerati mai conosciuti
prima questa fase del cosiddetto capitalismo postfordista e finanziario è la
massimizzazione dei profitti in tutti i segmenti economici, industria cultural-editoriale
compresa, anche nella branca di ciò che dovrebbe essere pane per la nostra intelligenza
emotiva, nella Letteratura e non solo nella Paraletteratura. Nonostante
sappiamo quanto sia infido il terreno in questa nostra Seconda Modernità
(preferisco non usare “postmodernità” per non causare equivoci) in cui la
mescolanza dei generi è fluida (anzi ormai il superamento del “genere” sembra
completamente avvenuta), in tedesco si usa distinguere ancora tra E-Literatur
(Ernste Literatur, letteratura seria) e U-Literatur (Unterhaltungsliteratur,
letteratura d’intrattenimento), a prescindere dal genere e dalla capacità di
divertire, tra la qualità associata alla ricerca e tutto il resto impilato
nelle librerie delle grandi catene distributive che hanno quasi sostituito
ovunque le librerie indipendenti che, comunque, soprattutto nelle grandi città
resistono, e proprio in esse, sui loro scaffali ed espositori spesso troviamo
la linea di demarcazione tra qualità e mero intrattenimento. Qualcuno stante la
“sfacciataggine estetica” in voga ha proposto di riprendere a usare la vecchia
etichetta di Trivialliteratur (Dorothea
Dieckmann) per distinguere per onestà verso il cliente il “ciarpame” dall’“opera
d’arte” in vendita sugli stessi scaffali,
come succede in tutti i negozi che si rispettino, sostenendo che in letteratura
la pretesa di avere alta qualità e vendibilità è un controsenso in sé, e che
non c’è nulla di male nell’esistenza della Trivialliteratur,
basta che essa sia resa riconoscibile, come lo deve essere l’opera d’arte. Insomma,
sarebbe ora di finirla con una trivialità di massa furbescamente arricchita con
un tocco di letterarietà e esteticità.
Di pari passo, c’è stato come uno spostamento semantico del termine Literaturbetrieb:
esso è venuto a indicare il sempre più ristretto mondo letterario in qualche
modo “sovvenzionato”, una sottobranca del Literaturmarkt. A questo punto
è forse necessario precisare alcune cose dando alcuni dati.
Il mondo letterario tedesco, e culturale in genere, visto con occhi
italici, è veramente un altro mondo: si pensi soltanto all’altissimo numero di
orchestre sinfoniche, di teatri stabili, di case della letteratura che non ha
paragoni a nessuna latitudine; ma si pensi anche ai sistemi radio-televisivi
pubblici sorti su base federale: in breve, per la sola Germania, si provi a
immaginare una Rai moltiplicata per nove emittenti, ognuna delle quali oltre a
un canale televisivo proprio dispone di almeno cinque canali radiofonici, due
dei quali eminentemente culturali, a cui si aggiungono due canali radiofonici
nazionali, uno dei quali porta addirittura nella sua denominazione il termine Kultur
(Deutschlandradio Kultur e Deutschlandfunk). A questi si aggiungano i
programmi austriaci dell’ORF, della Rai di Bolzano e della DSR svizzero-tedesca
e si avrà un quadro delle immense possibilità che si aprono in questa area
linguistica anche per gli scrittori (100 milioni di parlanti madrelingua più
circa 30 milioni di persone che considerano il tedesco seconda lingua) con una
forte tradizione di lettura. Con tranquillità si può sostenere che dal
Dopoguerra a oggi la radio di diritto pubblico, interpretando al meglio il suo
compito istituzionale di acculturare, è stata per migliaia di scrittori il
primo e più importante datore di lavoro e non è un caso che ancora oggi l’Hörspiel
(il radiodramma) sia un genere molto frequentato con un suo pubblico
fedele. È stata anche questa consuetudine con la letteratura “detta” a rendere
possibile da ormai più di un decennio l’esorbitante fenomeno degli audiolibri.
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Distribuzione territoriale delle emittenti del servizio pubblico della catena tedesca ARD
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A ciò si aggiunga l’“istituzionalizzazione” del ruolo dello scrittore nella
normale attività educativo-culturale con la sua presenza nelle scuole, nelle
biblioteche e nei teatri, spesso impegnato, oltre che in laboratori di vario
tipo, nella Lesung (lettura pubblica) nelle sue più svariate modalità,
tradizionalmente momento significativo di incontro tra autori e pubblico di
lettori-ascoltatori: dai salotti settecenteschi, ai circoli di lettrici
ottocenteschi passando per i cabaret berlinesi, viennesi e zurighesi dei primi
del Novecento, fino ai vari open mike e performance varie di oggi. Le
numerose case della letteratura e i vari “uffici letterari” disseminati sul
territorio costituiscono un altro pilastro consolidato per la promozione e la
circolazione di libri e autori, congiuntamente alle iniziative collegate agli
innumerevoli posti di “scrittore residente” o ai tanti premi letterari
ufficiali di livello (neanche lontanamente parenti della misera industria
nostrana dei concorsi a pagamento). Mediamente un premio che si rispetti
ammonta a € 15.000. Si calcola che i tre stati di lingua tedesca, nelle loro
varie diramazioni regionali e locali, investano solo in premi e borse di lavoro
(anche per traduttori) circa cinque milioni di euro all’anno, addolcendo
l’esistenza a un paio di migliaia di artigiani della parola. Esemplare è
l’opera del Fondo letterario tedesco che interviene con aiuti
consistenti sotto forma di assegni mensili di durata varia ad autori impegnati
in lavori di particolare respiro. Elemento da sempre consistente nel quadro
appena disegnato del Literaturbetrieb sono, ovviamente, i festival dalle
denominazioni più strambe che attraversano tutta l’area linguistica tedesca,
dall’Alto Adige a Berlino, da Erlangen a Colonia, da Basilea a Brema. Con tutta
questa ricchezza si potrebbe pensare che ci sia posto per tutto e per tutti
attorno alla torta letteraria. Purtoppo la realtà è in molti casi più tetra di
quanto sembri: su tutto e tutti scende l’ombra lunga del Mercato con le sue
100.000 novità librarie all’anno, comprese alcune migliaia di “pezzi” di
narrativa (il mercato librario tedesco è il secondo al mondo dopo quello di
lingua inglese per giro d’affari), che sempre di più tende a concentrarsi nelle
mani di pochi grandi gruppi interessati al massimo profitto nel più breve tempo
possibile secondo l’adagio “mordi e fuggi”, ai quali non interessa “crescere”
gradualmente e promuovere nel tempo l’opera di uno scrittore originale e di qualità
da poche migliaia di copie, facendo altresì il gioco delle grandi catene
distributive: il 60% dei libri è venduto nei megashop di Tahlia e Hugendubel. È
stato calcolato che per i grandi apparati editoriali un romanzo, perché non sia
in perdita, deve essere in grado di vendere almeno 15.000 copie nelle sei
settimane in cui mediamente un libro resta in libreria. Scrittori considerati
fino a poco tempo fa come “affermati” coi loro 10.000 acquirenti regolari,
improvvisamente non vendono quasi più niente, travolti anch’essi dai bestseller.
La cosa si spiega anche col fatto che la letteratura (la scrittura e la
lettura) è “fatta” di tempo, e questo non può essere dilatato: con l’aumento
spropositato della produzione libraria e dell’offerta culturale e mediatica in
genere, proporzionalmente cala la porzione di tempo potenzialmente a
disposizione del singolo utente per unità di prodotto e si abbassa la relativa
soglia di attenzione verso determinati prodotti poco visibili e non strillati.
È matematico: l’accelerazione trasforma la percezione della letteratura. Anche
il lettore forte e motivato lotta col tempo, è frastornato e magari perde di
vista, non si accorge più di quel dato scrittore che pure aveva apprezzato, la
cui opera è diventata “invisibile” nel calderone mediatico. Questo costringe,
da un lato, l’autore a un’iperproduttività (si pensi ai nostrani scrittori di
noir e gialli costretti a consegnare un libro all’anno) affinché la macchina
presenzialista venga continuamente oliata (pure a costo di oggetti scadenti), e
dall’altro, nella scarsità di tempo, indirizza il fruitore forzatamente e
spesso a sua insaputa verso determinati prodotti.
Curiosamente due premi recentemente istituiti il Deutscher Buchpreis e il Buchmessenpreis
della Fiera del libro di Lipsia in pochi anni si sono trasformati
nell’ambito della narrativa in incredibili agenzie del mainstream secondo il motto: “nessun esperimento!”, monopolizzando
coi volumi vincitori tutto l’imponente apparato mediale che neanche Hollywood…
Le proporzioni del fenomeno hanno sorpreso tutti gli osservatori e gli stessi
editori, che ovviamente sono corsi subito al riparo foraggiando le opere
secondo la presunta “qualità” imposta dal trend: intrattenimento; facile
usabilità, facile leggibilità, semplicità linguistica, piacevolezza formale
senza particolari pretese stilistiche; argomenti comprensibili possibilmente
ambientati nel ceto medio-alto (romanzo familiare con un tocco di storicità nel
momento in cui la famiglia è scomparsa, romanzo generazionale, romanzo di
rapporti tra coppie, romanzo sessuale ecc.); il tutto elaborato e risciacquato
in modo popolareggiante al fine di garantire un prodotto a bassissimo rischio
estetico in presenza della massima rentabilità economica e all’insegna della
facile digeribilità. La critica un tempo militante di quotidiani e settimanali
(i tedeschi sono ancora fortissimi lettori di giornali), secondo il severo
giudizio di un bravo e preparato critico come l’austriaca Sigrid Löffler,
sembra vedere ormai “il proprio compito nel limitarsi a benedire il Mercato dedicando
in modo crescente e consensuale il proprio spazio a ciò che di per sé è già di
successo”; oppure affiancando in modo significativo il Mercato col suo
prestigio highbrow (come fanno
regolarmente lo Spiegel o la Frankfurter Allgemeine Zeitung, il corrispettivo del Corriere della Sera) nell’affermazione
di nuove mode, e relegando tutto il resto ai margini o passandolo sotto
silenzio (la peggiore delle stroncature). Lo stesso avviene con gli altri media.
Il ruolo della radio, ad esempio, decantato più sopra, in parecchi casi sembra
quello di fungere da cassa di risonanza ai grandi eventi e ai grandi successi
editoriali. Sulla spinta della concorrenza con le emittenti private, si assiste,
inoltre, a un diffuso alleggerimento di taglio infotainement nei programmi culturali, con interventi a voce (sia
di recensori che di scrittori con le loro opere) sempre più brevi nelle
emittenti pubbliche di cui si diceva, anche se fortunatamente diverse isole
radiofoniche tengono ancora duro. Stesse tendenze si hanno parallelamente negli
altri attori citati, case della letteratura, festival ecc.
Insomma, anni luce sembrano passati dai tempi di Max Frisch che era
considerato un autore di successo con le sue 5.000 copie vendute nel corso di
un paio di stagioni negli anni Sessanta. Idealisti come il vecchio Siegfried
Unseld, padre-padrone della casa editrice Suhrkamp, l’editore di cultura
europeo per antonomasia, che fino alla fine dei suoi giorni ha creduto
nell’importanza di pubblicare poeti da nemmeno 500 copie, sono scomparsi dalla
circolazione; e se è vero che esiste tutta una serie di editori medio-piccoli
(Merlin, Wunderhorn, Wallstein; Kookbooks, Blumenbar, Tropen, wjs ecc.) dediti
allo scouting, tuttavia senza osare mai troppo e attenti anche a ciò che
“tira” (ad es. una piccola collana di “gialli” è immancabile, del resto i conti
devono pur tornare), sono venute a mancare certe collane di riferimento per una
letteratura di ricerca (non saprei come definirla altrimenti per non
ghettizzarla immediatamente usando l’arcaico e fuorviante aggettivo
“sperimentale”) che rischia strade nuove o impervie, all’interno di editori
maggiori come poteva essere “das neue buch” dell’editore Rowohlt di Reinbeck
(Amburgo), che veramente ha improntato per la capacità dei curatori
(l’indimenticato poeta e narratore Nicolas Born morto prematuratamente, e il
critico e editor Jürgen Manthey) tutta un’epoca; oppure la prima fase della
“collection fischer”. Al loro posto da poco dopo la Caduta del Muro, prima che
il marketing diventasse l’unica unità di misura sovrapponendosi soffocantemente
al Literaturbetrieb, anzi
inglobandolo, era già subentrata la creazione ad hoc di vere e proprie correnti
ovvero mode. La
Riunificazione stessa era stata una grande occasione non
tanto per pubblicare autori vietati o censurati nella ex-DDR, ma per lanciare
la spasmodica ricerca appunto del “romanzo della Riunificazione”; oppure per
ricreare il mito di Berlino capitale prima con gli autori della “Generazione
Berlino”, poi con la letteratura metropolitana del “romanzo berlinese”. E
quando 15 anni dopo finalmente appare la definitiva narrazione sulla capitale, Teil der Lösung [Parte della soluzione]
di Ulrich Peltzer, non viene riconosciuta come tale. Così tutti a correre a
Berlino ad aprire filiali editoriali, a rilevare e rilanciare editrici
blasonate, poi diventate semplici etichette all’interno delle multinazionali, o
a piazzare una succursale della redazione culturale nel caso della grande
stampa (diverse delle quali nel frattempo chiuse). La stessa DDR è diventata a
più riprese una moda letteraria con relative operazioni mediatiche (film, serie
televisive, show): si pensi soltanto al successo arriso ad autori che con
ironia e leggerezza hanno preso in giro il loro ex-stato come Thomas Brussig o
Jens Sparschu. Successivamente col passare degli anni e il relativo disincanto
è poi esplosa la Ostalgie (la trasfigurante nostalgia per l’est,
cioè la Germania Est)
sulla scia di bestseller quali Zonenkinder
(“Figli della Zona”, con riferimento al termine spregiativo con cui nella
Germania di Adenauer si definiva la
Germania comunista) di
Jana Hensel, che ancora perdura.
Molti scrittori fedeli al regime comunista sono riusciti a riciclarsi
sfruttando le varie cordate di “ex”, il cosiddetto Kulturfonds (un fondo culturale creato nel 1949 nella Germania per
l’aiuto materiale agli artisti alla base dell’omonima fondazione sorta alla
Riunificazione nei Nuovi Länder della
vecchia Zone), la “DDR-Bibliothek” della multinazionale editoriale
Faber&Faber impegnata nella ristampa del canone realsocialista. Questo
cosiddetto Bonus-DDR, accordato troppo facilmente e pletoricamente a una marea
di scrittori giovani, in alcuni casi ha comunque rivelato anche autori di
spessore quali il narratore Ingo Schulze, autore di un “romanzo a racconti” diventato
un punto di riferimento, Simple Stories (un
falso anglicismo velatamente ironico che potrebbe essere tradotto, oltre che
con “Semplici storie”, com’è stato fatto da Mondadori, con “Fatti elementari”),
o il poeta “sacerdotale” Durs Grünbein, per citare solo due nomi le cui opere
sono reperibili anche in italiano.
Da pochi mesi soltanto, a quasi due decenni dalla Riunificazione, si può
parlare di assistere a una vera “scoperta”. Finalmente è stato ricostruito
filologicamente e reso disponibile per la prima volta il denso e monumentale
romanzo Rummelplatz [“Piazza della fiera”, ma anche “Luogo di
frastuono”, Aufbau Verlag, pp. 770] di Werner Bräunig, a posteriori da
considerarsi un grande della DDR. Il romanzo, ambientato nei primi anni
Sessanta di questa, era stato sempre censurato e veramente nessuno ne aveva mai
avuto notizia in quanto quasi nulla del suo autore era trapelato in Occidente;
soltanto un capitolo era stato pubblicato sulla rivista dell’Associazione degli
scrittori tedesco-orientali Neue Deutsche
Literatur, con Sinn und Form una
delle riviste “ufficiali” tollerate dal regime, con conseguenze disastrose per
l’autore, morto alcolizzato a 42 anni in seguito a tutte le vessazioni di cui
era stato vittima a partire da quella piccola pubblicazione.
Successivamente si è assistito alla piaga dei popliteraten che, scimmiottando e saccheggiando i grandi autori pop degli anni Settanta, in primis Rolf
Dieter Brinkmann (scomparso a 35 anni nel 1975), hanno monopolizzato la scena
con un massimo di visibilità alla stregua di star hip hop. Sintomatica in questo contesto è la carriera (anche
economicamente molto importante) di Benjamin von Stuckrad-Barre, diventato un
ectoplasma dell’industria dello spettacolo e del gossip. Al confronto il
“cannibalismo” nostrano di un decennio fa è stato poco più di un grido nel
deserto.
E poi a seguire il fenomeno Fräuleinwunder:
giovani, impertinenti e telegeniche fanciulle, assurte in massa e di punto in
bianco a rinnovatrici della narrativa nordeuropea. Una di queste, l’onesta
artigiana Julia Franck, ha conseguito infine lo scorso anno appunto il famoso Deutscher Buchpreis con un battage
mediatico da ammazzare un elefante. Molte delle Fräulein nel frattempo sono tornate ad attività più consone, anche
se nel mazzo a ragion del vero un paio si sono dimostrate scrittrici di valore
con una voce riconoscibile e solida, come Karen Duve e Juli Zeh.
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Günter Grass, premio Nobel 1999, uno dei 'grandi vecchi' della letteratura tedesca
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In alternativa è stata proclamata la Debütantenwelle, l’ondata dei debuttanti (Crazy,
di Benjamin Lebert, diventato milionario) e soprattutto delle debuttanti, simili alle nostrane “spazzole”, possibilmente
adolescenti sessualmente invasate e “porche”, scomparse dalla scena alla
seconda pubblicazione. In tutti questi casi, più che un libro, si vendeva un brand, un personaggio, una generazione,
un esotismo, in sostanza era all’opera una branca dell’industria del life-style più che la letteratura.
Magari qualcuno di loro, sfruttati fino all’osso la notorietà del newcomer e il sistema di promozione
istituzionalizzato, potrà sopravvivere un paio di lustri all’interno del
“traffichio”, ma poi si farà dura senza un altro mestiere, a meno che non ci si
chiami Günter Grass, Peter Handke, Dieter Wellershoff, Martin Walser, Brigitte
Kronauer, Ulla Hahn, F.C. Delius, Uwe Timm, Botho Strauß, Christoph Hein, Wolf
Biermann, Adolf Muschg, Peter Schneider o, tra i cinquantenni di oggi Matthias
Politycki, Robert Schneider, Christoph Ransmay e non si sia riusciti a creare
effettivamente un’“opera” con uno “stile”, oltre gli imperativi dello Zeitgeist.
Da diversi anni, ovviamente, non poteva, infine, mancare il grande filone
“interculturale” prosperato sulla mai sopita “coscienza sporca” collettiva dei
tedeschi, in cui si sono dimostrati maestri proprio nell’affermare il proprio
“marchio” il turco di seconda generazione Feridun Zaimoglu, l’inventore della
cosiddeta Kanaksprach (per dare una
vaga idea: “lingua dei terroni di strada”), oppure il russo, berlinese d’adozione,
Wladimir Kaminer con le sue ironiche, radiofonicamente ruffiane storielle del
quotidiano metropolitano multikulti, fatto di immigrazione e ipermodernità:
entrambi accolti a mani piene d’euro nello star
system letterario-televisivo.
Qualcuno cerca di interpretare il sommovimento in atto nel mercato
editoriale tedesco, e più specificatamente nella scena letteraria, come il tentativo
delle nuove generazioni di “sfuggire alla pressione proveniente dalla società
tedesca che richiederebbe alla letteratura di essere dispensatrice di senso
politico, etico o estetico” e di tagliare finalmente il cordone ombelicale con
una tradizione idealistica profondamente tedesca in cui è radicato il dovere
della letteratura a assumere la funzione di istanza morale e pedagogica
(Richard Herzinger). In tal modo le nuove generazioni, nella loro assoluta libertà
da condizionamenti morali e stilistici sarebbero state in grado di svecchiare
la letteratura tedesca, facendo finalmente propri modelli anglo-americani, anzi
rimodellandoli in modo autonomo, senza però finalmente il Diktat del “nazionale”, rendendola di nuovo esportabile. Si veda, a
questo proposito, il successo mondiale conseguito dal romanzo di Daniel
Kehlmann Die Vermessung der Welt [La
misura del mondo, Feltrinelli]. Altri, tuttavia, come il noto critico militante
Hubert Winkels, a fronte delle montagne di leichte
Kost (cibo leggero, non sostanzioso) sotto le quali si rischia di soffocare
smagati, continua a propugnare che “quando si parla di letteratura si intende innanzitutto
un’opera d’arte linguistica, un complesso articolato, pensato con intelligenza,
forgiato assennatamente, altamente organizzato dal punto di vista formale, il
cui effetto, sia pure inebriante, dipende da principi drammaturgici e di
economia linguistica. Il piacere che ne deriva, in questi tempi tardo-moderni e
disincantati, si deve alla conoscenza di questi principi. Insomma, è dentro al
sapere che noi godiamo di un’opera d’arte, attraverso la conoscenza e per mezzo
di strumenti analitici”. Oppure questa è soltanto la “pretesa” estetica
sorpassata di un ormai vecchio Novecento, di cui sembrano essere rimasti
vittima decine e decine di autori, di forme, di scritture letteralmente
spazzati via dallo scenario testé descritto, pur avendo costituito una parte
significativa della letteratura tedesca (e non solo) degli ultimi decenni?
La febbre di contemporaneità e l’ebbrezza della velocità, che divorano
senza memoria il quotidiano, le nostre vite e quegli strani oggetti materiali e
immateriali a nome “libri”, sembrano aver ingoiato un’intera generazione di
scrittori. Se da un lato l’ingranaggio letterario, mediatico e commerciale per
sua natura è costretto alla continua clonazione di pseudo-novità, spesso giovanilistiche,
e dall’altro spreme all’inverosimile anche alcuni grandi vecchi, che volentieri
stanno al gioco, Günter Grass, Martin Walser e Siegfried Lenz, curiosamente e
assurdamente da tempo sono spariti non solo dagli scaffali delle librerie, dai
programmi editoriali e dal traffichio del Literaturbetrieb,
ma pure dalla memoria collettiva di lettori e critici, moltissimi scrittori
nati tra la metà degli anni Trenta e l’inizio dei Cinquanta. Essi in vario modo
tentavano e tentano – perché per molti questo è il dramma: si continua a
scrivere anche senza interlocutori – di proseguire il progetto della Modernità
sviluppando forme e stili complessi. E si sta parlando di personalità che tra
la metà degli anni Sessanta e gli Ottanta della Germania Federale (gli stessi
del famoso “cinema d’autore tedesco”), ma anche fin dopo la Riunificazione, si
erano trovati a intascare premi e critiche importanti e godendo della massima attenzione
da parte dei maggiori editori, non ancora anonime entità mediatiche devote
delle agenzie alla McKinsey, guidati da persone interessate a finanziare
“trasversalmente”, cioè attraverso i guadagni derivanti dalle opere di consumo,
scritture considerate difficili ma assolutamente necessarie per la “causa della
letteratura”. La lista di poeti e narratori “scomparsi” (solo alcuni
effettivamente deceduti, anche per propria mano nell’assenza di una
qualsivoglia ricezione) potrebbe essere lunga: Gerd-Peter Eigner, Gerd Fuchs,
Gerhard Köpf, Johannes Schenck, Lothar Baier, Karin Reschke, Karin Struck,
Helmut Eisendle, Hannelies Taschau, Jürg Laederach, Uwe Herms, Ralf Thenior, Guntram
Vesper, Hugo Dittberner, Wolfgang Hegewald, Frank-Wolf Matthies, gli ultimi due
transfughi della DDR agli inizi degli Ottanta ecc. Le opere di molti di questi
sono rintracciabili ormai solo nel modernariato online ovvero presso infimi editori
invisibili, quando va bene. Sintomatico è il destino occorso all’opera di
Jürgen Theobaldy (nato nel 1944), uno dei protagonisti della stagione
letteraria degli anni Settanta tra il disincanto post-Sessantotto e la
cosiddetta Nuova Soggettività: personalità citatissima in tutte le storie
letterarie e ancora in piena attività con raccolte poetiche, racconti e romanzi
qualitativamente andati in notevole crescendo (secondo l’opinione dei
pochissimi critici che se ne sono occupati e del sottoscritto in veste di lettore),
praticamente assente dal “circo mediatico”, dopo alcuni volumi pubblicati
presso editori semisconosciuti, si è ridotto a pubblicare senz’alcun riscontro on demand, e pensare che la sua opera,
per quanto elaborata, è molto “accessibile” e potenzialmente potrebbe parlare
anche a un pubblico molto giovane se solo questo ne avesse notizia. Certo, con
qualche sforzo si potrebbe rinvenire qualcosa di questi deparacidos in alcune delle riviste che hanno fatto la storia
letteraria tedesca del Dopoguerra (“Aspekte”, “Manuskripte”, “Wespennest”,
“Schreibheft”, “Literatur und Kritik”) e magari pure nelle più recenti (“Bella
Triste”, “Edit”, “Muschelhaufen”, “weisz auf schwarz”, “das Gedicht” ecc.), e
soprattutto sulla “die horen”, in assoluto forse la rivista più impegnata al
recupero di scritture “ai margini” o dimenticate come pure a far conoscere le
letterature di aree linguistiche meno frequentate. Ma queste con le loro tirature
di poche migliaia di copie (per le più importanti) in continuo e pericoloso calo,
difficilmente riusciranno a scolpire nella coscienza collettiva l’importanza e
la necessità di un’opera, di un autore. E non sarà certamente l’incestuoso
incrocio dei blog letterari, ogni sera già vecchi, a farlo, intenti come sono a
fomentare l’accelerazione del consumo immediato. La letteratura è sempre stata
una strada individuale, si dirà. D’accordo, ciascun lettore deve aprirsi la
strada col segnalibro-machete nella foresta millenaria della grande letteratura
per giungere al boschetto contemporaneo e confrontarsi con esso, ma questo oggi
sembra troppo spesso soltanto la palude dell’immediatezza mercificata in cui è
sempre più difficile rinvenire forme di slow
writing da non consumarsi su due piedi tra uno squillo di un qualche
apparato elettronico e l’altro. E se miracolosamente altri due grandi vecchi,
Günter Kunert e Ror Wolf, riescono ancora a farsi pubblicare la loro Kurzprosa, le loro narrazioni e prose
brevi brevi, spesso ironiche e meravigliosamente antinarrative, per tutta una
schiera di adepti delle forme non standard viene a mancare qualsiasi
piattaforma editoriale visibile: diversi fratellini e sorelline di Robert
Walser sono alla disperata e inutile ricerca di un editore, e mentre non si
contano più le gare di slam poetry
con guru quali Michael Lentz e Bastian Böttcher a pontificare performando, se
si esce dalla piccola cerchia degli aficionados quasi nessuno conosce più, se
mai ha conosciuto, lirici di grande valore quali Rolf Haufs, Manfred Peter
Hein, Wulf Kirsten, Johann P. Tammen, Heinz Kattner, tuttora in piena creatività.
Si ha come la fortissima sensazione che oggi, ovviamente non solo in
Germania, la prepotente, luccicante e dirompente messa in scena del Testo, come processo di creatività
collettiva, in realtà releghi, succedeneamente, sempre di più l’Opera in
secondo piano, diventando questa una delle tante variabili interscambiabili in
detto processo. Magari il software troglodita di chi scrive non è ancora stato
aggiornato adeguatamente, ma entrando in qualsiasi megabookstore il software entra in loop e si chiede se
l’implacabile macchina di “contraffazione del marchio” non inibisca, l’emergere,
l’affermarsi e il perdurare di forme, scritture e autori senza alcun “valore mediatico
di mercato” con danno permanente per i lettori.
Certo, lo sappiamo: la condizione ineluttabile (sempre rimossa, per
autosostentamento forse) dell’uomo è la precarietà, la provvisorietà. Le sue
fortune sono caduche e, tutto sommato, inutili. Eppure l’essere umano,
“costretto” a vivere, ontologicamente e ossimoricamente non può non aggrapparsi
a qualcosa. L’arte della parola, sì insomma la letteratura – scritta e orale –
nel momento stesso in cui pronuncia la sua inutilità, ne proclama la necessità.
Siamo fatti di provvisoria consunzione, eppure non possiamo non aggrapparci
beckettianamente, tra la polvere e il fango se è piovuto, ai radi fili d’erba
che sporgono dal nostro fosso: e così scriviamo (troppo); e così pubblichiamo
(troppo). Se è naturale che nell’inarrestabilità del tempo tutto e tutti affondino,
forse però non è naturale accettare supinamente l’ingiustizia della
dimenticanza e della distrazione indotte dal vorace, fagocitante, danaroso circo
mediatico della grande produzione/distribuzione che sta soffocando l’entretien infini in un assordante blaterio
in tempo reale, in cui è sempre più difficile distinguere, rintracciare e
“fermare” le parole per noi necessarie. È ora di riappropriarsi del tempo lento
di cui è fatta la letteratura, per guadagnare il nostro tempo. O questa è
soltanto la spocchiosa pretesa di un’epoca e dei suoi viandanti definitivamente
oscurata?