di Daniele Comberiati
Un po’ di storia - La repressione della resistenza libica rappresenta uno dei
capitoli più bui del colonialismo italiano. La lotta delle popolazioni indigene
fin dal 1911-12, in
particolare nella Cirenaica controllata dalla confraternita politico-religiosa
della Senussia, porta nel 1917 e nel 1920 a una tregua tra il capo dei Senussi
(Idris, che sarà in séguito, dal 1951, re della Libia) e l’Italia. Le ostilità
riprendono nel 1922, con la politica fascista che cerca di controllare
completamente il paese. Nel 1925 il capo dei Senussi ripara in Egitto e Omar al-Mukhtar
resta in Cirenaica come suo vicario, per guidare la resistenza delle
popolazioni arabe alla colonizzazione del paese.
La
campagna di repressione prosegue con alterne vicende, ma subisce una svolta
decisiva con la nomina di Badoglio a governatore dell’intera Libia nel 1929 e
di Graziani a vicegovernatore della Cirenaica nel 1930. Queste nomine rivelano
la volontà del regime fascista di sbarazzarsi della resistenza. Le operazioni
militari comportano una repressione durissima sull’intera popolazione. Sarà
proprio il sistema di guerra coloniale adottato dall’Italia tra il 1929 e il 1931 a suscitare
l’ammirazione dei colonialisti europei, soprattutto dei francesi che lo prenderanno
a modello (soprattutto in Algeria). Come scrive Angelo Del Boca, Graziani
«articola la sua campagna su tre punti essenziali: 1) separazione della
resistenza dalla popolazione; 2) costruzione di immensi campi di
concentramento; 3) blocco dei rifornimenti che la resistenza riceveva
dall’Egitto. Ed è in questa fase che diventeremo dei “modelli” per i
colonialisti europei».
Tutttavia,
quello che è stato fatto in Africa, ed in particolare in Libia, lo sanno in
pochi. Il “silenzio” nel discorso pubblico sulla vicenda libica è dovuto a
molteplici cause, tra le quali hanno avuto un ruolo rilevante le complesse
relazioni tra i governi italiani e il regime del colonnello Gheddafi da un
lato, e la vicenda dei rimpatri forzati degli italiani nel 1969 dall’altro.
Ma è in generale tutta l’avventura coloniale italiana a essere poco discussa e
molto poco studiata nel nostro paese: lo stesso Del Boca, insieme ad altri
storici come Nicola Labanca o Giulietta Stefani, insiste sulla necessità di una
riflessione pubblica sul periodo coloniale: riflessione che è tuttora molto
lontana dall’essere persino accennata, come dimostrano le vicende grottesche
della distribuzione in Italia del film Il
leone del deserto.
1980.
Il film – Il regista americano di origini siriane Mustafa Akkad gira fra il
deserto libico e gli studi di Cinecittà il colossal The lion of the desert. Il budget, messo a disposizione per gran
parte dal governo di Gheddafi, è di circa trentacinque milioni di dollari,
cifra astronomica per l’epoca, e il cast è davvero d’eccezione: fra gli altri ci
sono Anthony Quinn nel ruolo del capo della resistenza Omar al-Mukhtar, Oliver
Reed nelle vesti del generale Graziani, Rod Steiger nella parte di Mussolini (ruolo
da lui già ricoperto in un film di Carlo Lizzani), oltre alle partecipazioni di
Irene Papas, Raf Vallone e Gastone Moschin e ad un vero e proprio esercito di
8500 comparse. Gli
armamenti furono ricostruiti in Gran Bretagna, con la collaborazione del
Military Vehicle Museum. Appena prima di iniziare la lavorazione, così si era
espresso il regista: “Tutti conoscono le atrocità del
nazismo, ma Lion of the Desert è la prima pellicola sulle brutalità del
regime mussoliniano nelle colonie”.
Il
film infatti narra la fase cruciale della repressione della resistenza libica
all'invasione italiana. Di fronte alla resistenza guidata dall'anziano Omar al-Mukhtar,
nel 1929 Mussolini invia in Libia il generale Rodolfo Graziani. Questi si rende
subito conto che è impossibile debellare la rivolta finché questa è sostenuta dalla
popolazione. Procede quindi a una spietata repressione, distruggendo le
coltivazioni, avvelenando i pozzi, sottoponendo a decimazione interi villaggi,
fino ad attuare la deportazione dell'intera popolazione del Gebel, circa
100.000 persone, un ottavo dell'intera popolazione libica, in campi di
concentramento nel deserto della Sirtica (dove ne perirà circa il 40%). Di
fronte al proseguire della resistenza, per isolarla ulteriormente, fa erigere
un “secondo vallo di Adriano” lungo il confine egiziano, una barriera di filo
spinato sorvegliata da autocarri e aviazione, che si estende per 270 chilometri dalla
costa sino all'oasi di Giarabub. Catturato infine Omar al-Mukhtar, dopo un
processo sommario il 15 settembre del 1931 lo fa impiccare di fronte a 20.000
persone fatte arrivare dai campi di concentramento.
Autorevoli
studiosi si sono pronunciati sulla fedeltà storica del film, da Angelo Del
Boca, all'inglese Denis Mack Smith, usualmente intervistato dalla stampa
italiana in casi del genere.
“Mai
prima di questo film gli orrori, ma anche la nobiltà della guerriglia sono
stati espressi in modo così memorabile, in scene di battaglia così
impressionanti; mai l'ingiustizia del colonialismo è stata denunciata con tanto
vigore... Chi giudica questo film col criterio dell'attendibilità storica non
può non ammirare l'ampiezza della ricerca che ha sovrinteso alla ricostruzione”
(Denis Mack Smith, «Cinema Nuovo»,
febbraio 1982).
“Sono fatti accaduti 52 anni fa e che ancora oggi non trovano posto nei
libri di scuola.
Fatti che ora Akkad ci ripropone, con la grande suggestione del technicolor,
con l’efficacia del più potente mezzo di comunicazione: dobbiamo per questo
aver paura di un brandello della nostra storia? Dobbiamo tenerlo sepolto nel
brulichio dei vermi, insieme ad altri episodi della nostra storia coloniale,
che è ancora una vicenda per iniziati o specialisti? O non potrebbe essere
questa, invece, l’occasione per una chiara presa di coscienza collettiva di un
fenomeno, come quello coloniale, che è ancora pieno di zone buie, di miti e di
agiografiche visioni? Non potrebbe fornire il pretesto per avviare quel
dibattito storiografico che sinora è mancato?” (Angelo Del Boca “Il
Messaggero”, 14 marzo 1983).
Il
film, probabilmente per l’argomento piuttosto oscuro e la radicalità dei temi
trattati, non riscontrò un grande successo di pubblico, anche se dal 1982 fu
distribuito praticamente in tutto il mondo (tranne, come vedremo, in Italia). Lion of the desert è un film più
complesso di quanto possa sembrare ad un primo sguardo e pone problematiche che
travalicano il colonialismo italiano e riguardano la questione del nazionalismo
libico e delle lotte intestine fra le diverse fazioni. Una
parte consistente dei finanziamenti, come già detto, è stata messa a disposizione
dal colonnello Muammar Gheddafi, che puntava a individuare in Omar al-Mukhtar
un eroe nazionale da considerare come uno dei fondatori della Libia moderna.
Come scrive Giorgio Rochat, per esempio, “la scena in cui Omar al-Mukhtar
respinge e maledice i rappresentanti della Senussia come collaborazionisti è
peggio che falsa. Fu la
Senussia a organizzare e dirigere la straordinaria resistenza
delle popolazioni del Gebel cirenaico, e Omar al-Mukhtar era un uomo della
Senussia, il comandante delle sue formazioni armate, e agì sempre come
rappresentante del Senusso Idris. La rivoluzione libica di Gheddafi ha negato e
cancellato il ruolo della Senussia nella resistenza per ragioni di politica
interna (la Senussia
dopo il 1945 fu il sostegno principale del corrotto regime di Idris): e il
regista Akkad ha accettato le esigenze della propaganda di Gheddafi”.
Lion of the desert è quindi un film che
fa discutere: discussione che non è mai stato possibile iniziare in Italia.
La grottesca
storia della distribuzione del film in Italia - Nel 1982, l’Ufficio stampa del Ministero degli Affari esteri italiano
diramava un comunicato stampa, nel quale affermava: “La rappresentanza italiana
a Tripoli è stata invitata ad esprimere alle autorità locali il disappunto dell’Italia
per la programmazione, nei circuiti interni e internazionali, e particolarmente
negli Stati Uniti, del film finanziato dal Governo libico Il leone del
deserto, di impostazione fortemente anti-italiana. Lo afferma l’on.
Raffaele Costa, sottosegretario agli Esteri, rispondendo ad una interrogazione
del deputato missino Olindo Del Donno il quale aveva lamentato come la
pellicola, nel rievocare la storia di un patriota libico giustiziato dagli
italiani nel 1912, lanciasse violente accuse nei confronti del soldato
italiano, trattato come sanguinario. Costa rileva altresì come la pellicola
rispecchi una impostazione le cui motivazioni possono essere considerate di
tipo politico propagandistico, facendo rilevare come il giudizio sul soldato
italiano, nell’impresa libica come nelle guerre mondiali, sia ormai
storicamente definito e non appaia suscettibile di revisione tantomeno
attraverso una pellicola cinematografica”.
Una piccola ma indicativa nota a margine del comunicato è
necessaria: il patriota libico giustiziato nel 1912 di cui si parla altri non è
che Omar al-Mukhtar, che però fu giustiziato nel 1931, non nel 1912! Questo
tanto per far capire l’ignoranza dei nostri politici sulla questione coloniale…
Costa in seguito andò oltre giudicando il film come “lesivo
della dignità nazionale italiana”.
L’idea che l’Italia sia stata portatrice di un colonialismo
buono, generoso e compassionevole, è stata politicamente appoggiata e sostenuta
dal Governo italiano. Inoltre, l’allora sottosegretario agli Esteri Raffaele
Costa stabilisce un’identità di giudizio tra l’impresa libica e le guerre
mondiali, riproponendo così una pratica ricorrente il cui effetto è stato il
sostanziale appiattimento della prima sulle seconde. In aggiunta, il giudizio
sul soldato italiano viene dato come storicamente definito. Un’assurdità,
naturalmente, che spiega in parte le difficoltà culturali, ma anche le
pressioni politiche che hanno impedito la distribuzione di Lion of the
Desert in Italia: a tutt’oggi nessuna casa di distribuzione ha mai
presentato la pellicola all’Ufficio apposito per ottenere il nulla osta alla
circolazione della pellicola.
La storia della diffusione del film non finisce qui: nel
1987, durante una proiezione pubblica a Trento, intervenne addirittura la Digos per interrompere il
filmato e sequestrare la pellicola, producendosi in un’azione tanto
spettacolare quanto assurda.
Ma veniamo ad anni più recenti, in particolare al 2003,
anno terzo del secondo governo Berlusconi. L’allora ministro per i Beni
Culturali, Giuliano Urbani, davanti all’ennesima interrogazione parlamentare
che chiedeva la revoca della censura e la messa in onda sulla Rai, non concesse
il nullaosta. Anche a distanza di ventitre anni dall’uscita del film, quando
ormai alcuni misfatti del colonialismo italiano sono ormai storicamente
documentati (dai campi di concentramento in Libia ed Etiopia, alla
discriminazione dei meticci fino alle leggi contro le donne) il colonialismo
italiano fa parte di uno dei tanti rimossi storici collettivi con i quali il nostro
paese, ma non solo, è costretto a fare i conti. Riprendendo il rapporto fra
colonialismo e cinema, infatti, non si può non pensare a quello che è successo
in Francia con la guerra di liberazione algerina: nessun regista francese ha
mai girato un film su quegli anni, e l’unica grande pellicola sul tema rimane,
a distanza di più di quarant’anni, La
battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo. Evidentemente la rimozione e
l’oblio sulle “imprese” coloniali non sono appannaggio della sola Italia…
Oggi – Sempre per quanto riguarda l’auspicato dibattito sul
periodo coloniale, non possono essere taciuti due importanti avvenimenti. Il
primo riguarda Lion of the desert e
l’associazione “Storie in Movimento”, che ha contattato la società che detiene
i diritti del film per farne una versione italiana da distribuire e da
diffondere. Oltre alla distribuzione di Lion of the Desert, “Storie in
Movimento” propone di realizzare un apparato critico e documentario sul film.
L’uscita del DVD può essere l’occasione per affrontare la questione del
colonialismo italiano, soprattutto di quello libico, anche in chiave storica.
Andando oltre la necessaria denuncia del “silenzio”, il progetto si ripropone
di rendere accessibili non solo alcune fonti, ma anche interpretazioni e ricerche
prodotte in sede storiografica. Un lavoro che si rende necessario soprattutto
perché s’inserisce all’interno di un processo di rimozione e di autoassoluzione
che si è sviluppato nella società italiana a partire dal dopoguerra, ma che ha
accompagnato l’intera storia del colonialismo italiano attraverso il mito della
sua diversità; un mito di un colonialismo “dal volto umano” che è stato invece
uno dei più aggressivi, anche ideologicamente. Infine il gruppo predisposto
alla realizzazione dei filmati didattici in apparato al film, avrà anche il
compito di organizzare e promuovere incontri nelle principali città italiane e
nelle scuole, per rendere fattivo il processo di analisi sul colonialismo
italiano.
L’altro grande avvenimento sul tema riguarda la lavorazione
di un altro film di argomento italo-libico, Dhulm.
Years of torment del regista Najdat Ismael Anzour. Produzione libica che si
basa su un testo originale di Gheddafi e utilizza come fonti le testimonianze
dei sopravvissuti ai campi di concentramento italiani durante l’occupazione, Dhulm avrà come supervisore storico lo
studioso Ali Fahmy Khshem. Grazie ad un budget notevole e all’ausilio della
cineasta siriana Iman Saaid e del regista inglese David Craig, il progetto si
propone di dare un’impennata alla cinematografia libica, riuscendo al tempo
stesso a far riflettere su una pagina della storia troppo spesso dimenticata.
Il termine Dhulm in arabo significa
buio, come oscura è, per noi italiani, la nostra storia coloniale: in questo
caso speriamo che il film sia distribuito e visibile anche in Italia e che
aiuti a fare un po’ di luce sulla vicenda.